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Al Crocevia: Quarant'anni e più di opinioni
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E-book327 pagine5 ore

Al Crocevia: Quarant'anni e più di opinioni

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Info su questo ebook

Più di ottanta articoli selezionati da un materiale cinque volte più ampio, per la maggior parte costituito da editoriali pubblicati su quotidiani a larga diffusione nazionale.
Nella scelta si è guardato soprattutto a ciò che poteva evocare realtà e problemi tuttora attuali, messi in evidenza anche dalle premesse a parecchi degli scritti riprodotti e soprattutto dalle chiose intendendosi il crocevia come fattore d’incontro fra percorsi, culturali e pratici, originati da punti di partenza anche assai lontani tra loro ma aperti al dialogo nel rispetto reciproco.
AUTORE
Allievo di Giovanni Conso, Mario Chiavario (Torino, 1939) è stato professore di ruolo in vari Atenei a partire dal 1971 e ha presieduto, dal 2002 al 2008, l’Associazione “Gian Domenico Pisapia” che riunisce i docenti italiani di diritto processuale penale, divenendo poi, per tale disciplina, professore emerito dell’Università di Torino. Tra i redattori del vigente codice
in materia, ha altresì fondato, e diretto per oltre trent’anni, la rivista “La legislazione penale”. Spiccata, comunque, nell’insegnamento come nelle pubblicazioni, la sua propensione per le tematiche di più ampio respiro, attinenti alla giustizia costituzionale, alle libertà civili, ai diritti dell’uomo.
LinguaItaliano
Data di uscita12 nov 2019
ISBN9788869600562
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    Anteprima del libro

    Al Crocevia - Mario Chiaverio

    Mario Chiavario

    Al Crocevia

    Quarant’anni (e più) di opinioni

    rilette con gli occhi di oggi

    www.altrimediaedizioni.com

    facebook.com/altrimediaedizioni

    @Altrimediaediz

    Immagine di copertina: Svanur Gabriele/Pexels

    Titolo dell’opera:

    Al Crocevia

    © 2019 by Mario Chiavario

    ISBN: 9788869600562

    © Altrimedia Edizioni è un marchio di

    Diòtima srl - servizi e progetti per l’editoria

    www.altrimediaedizioni.com

    Prima edizione digitale: Novembre 2019

    Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.

    È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

    Ai miei figli,

    Antonella e Francesco

    Antica passione, il giornalismo. Ne avevo fatta qualche prova in gioventù, acerba ma per me entusiasmante, come cronista di bianca e autore di servizi su problemi sociali o su significative figure di storia minore. Avviato poi su altre strade, avevo dovuto metterla da parte.

    Mi si è poi dato di riviverla, nella veste di opinionista, lungo un arco di tempo che, ormai superati i quattro decenni, dura tuttora, sebbene i prodotti non abbiano più la frequenza del passato. Le sollecitazioni mi vennero in quanto giurista e in particolare in quanto cultore del diritto processuale penale, ma sin dall’inizio non volli che questo marchio si trasformasse in un… peccato d’origine, il quale mi precludesse il confronto con problemi e valori di più ampia natura. E tantomeno vuol essere un volume per addetti ai lavori questa raccolta, dove sono ospitati, sì, scritti che parlano di diritto e di processi ma molto meno di quanto, probabilmente, ci si potesse aspettare.

    Ma perché al crocevia? Forse per alludere a incertezze irresolubili se non con radicali o di qua o di là? No. Certamente, la problematicità vorrebbe pervadere tutto il volume: anche in quelle inserzioni – che pur sono inusuali per questo genere di pubblicazioni – di più o meno brevi integrazioni di aggiornamento, dove non manca neppure qualche mea culpa, a doverosa correzione di parole, di accenti o di silenzi, che a posteriori mi sono parsi quantomeno inopportuni. Ma la perenne permanenza nel dubbio, così come, per contro, la propensione a scorgere per ogni dove degli aut aut risolutivi, ho sempre cercato di tenerle lontane dal mio modo di pensare e di vivere: tanto più quando la prima rischia di paralizzare l’agire e la seconda, anziché stimolare anzitutto per se stessi scelte personali ponderate, stimola continuamente in sé e negli altri separazioni e contrapposizioni. A voler essere messo in evidenza con quel titolo, dunque, non è il separarsi, ma il confluire, pur nelle distinzioni che sarebbe un errore (e talora peggio) illudersi di cancellare artificiosamente (unità dei distinti, amava ripetere, se ben ricordo, Giuseppe Lazzati).

    Insomma, il crocevia come luogo d’incontro: anzitutto tra strade che vengono anche da molto distante. E ciò non solo perché, di qualunque cosa mi interessassi, mi è sempre piaciuto impegnarmi a vedere le cose da più punti di vista, mettere a confronto – e possibilmente in dialogo – opinioni anche lontane tra loro, ma perché nello stesso occuparmi professionalmente di diritto e di giustizia penale ho tratto i motivi di maggiore soddisfazione proprio quando nel leggere, nello scrivere e soprattutto nel conversare con studenti e colleghi ho potuto coinvolgere anche qualcos’altro rispetto alle regole giuridiche: così, quando, pur senza pretendere di avere le qualità e le risorse del tuttologo, ho potuto allargare lo sguardo sulla storia, sulle realtà di altre culture, su quella della comunità internazionale, oltreché sui princìpi e sui valori (e disvalori) che possono stare dietro alle regole giuridiche e alle loro applicazioni più o meno puntuali.

    Anche nel selezionare gli articoli da riprodurre, è così stato naturale che spunti diversi venissero per lo più a intrecciarsi tra di loro e con quelli derivanti dal mio essere anche giurista: la cronaca, anzitutto, per andare, sì, oltre essa ma senza prescinderne; e poi l’etica, la politica, la fede, parola, quest’ultima, che più d’ogni altra pronuncio e scrivo con ritrosia, per il timore di farne un uso abusivo, tanto più perché sento in me una fede, non solo connotata da non poche e non piccole insufficienze e incoerenze del vissuto, ma altresì pervasa da mille inquietudini, sebbene, al fondo (e, spero, per l’essenziale), convinta e serena, come un dono di cui rendere grazie.

    Dopo le aperture del cuore, una notazione di carattere pratico, che propongo pur ritenendola verosimilmente superflua per chi già dia una pur rapida scorsa dell’indice. Questo libro, in quanto fatto di "pezzi" risalenti a date anche assai distanti tra loro, originati dalle occasioni più varie e vertenti su argomenti specifici non meno differenziati, non esige necessariamente di essere letto tutto di seguito, passo passo o d’un fiato, ma comunque senza perderne alcun frammento.

    Al contrario. Per diminuire il rischio di annoiarsi, si può benissimo saltabeccare qua e là, più o meno recalcitranti all’ordine suggerito da quell’indice, quantunque esso cerchi di rispondere a una logica: è una logica, se così la si può davvero chiamare, che io stesso so essere troppo personale perché possa pretendere di venire condivisa.

    Torino, maggio 2019

    Mario Chiavario

    PREFAZIONE

    Mario Chiavario è ben conosciuto fra gli addetti ai lavori, accademici e legali, come giurista, fine studioso del diritto e del processo penale. Gli scritti raccolti in questo volume rivelano a loro e al pubblico un altro volto di lui, frutto di quella che egli stesso confessa come una antica passione, il giornalismo. Il volto di un opinionista, collaboratore non occasionale di grandi quotidiani nazionali come La Stampa, Avvenire e Il Sole 24 Ore, e di diversi periodici del mondo cattolico, che commenta in modo sempre chiaro e denso di contenuti fatti e questioni di attualità.

    Gli scritti qui riprodotti, integralmente o talora solo in parte, (e che a loro volta sono evidentemente solo una parte della produzione dell’opinionista Chiavario) coprono un arco temporale amplissimo, dal 1976 fino al 2019, con una frequenza variabile, da uno solo a undici articoli per uno stesso anno (sono in tutto un centinaio, di cui una settantina risalenti agli ultimi vent’anni); e non sono ripubblicati in ordine cronologico, ma raggruppati per grandi argomenti.

    Naturalmente la giustizia, e in particolare la giustizia penale, trova largo spazio in questi scritti, ma sempre con un taglio che non è freddamente tecnico-giuridico, bensì ancorato ai grandi valori umani e morali implicati, e quindi sempre di grande interesse per il pubblico dei lettori. Scorrendo la raccolta ci si può imbattere in scritti che evocano e commentano fasi ed eventi significativi della nostra epoca, dal terrorismo degli anni Settanta e Ottanta alla Tangentopoli degli anni Novanta, alle controversie su politica e giustizia all’epoca dei Governi di Berlusconi degli anni Duemila, al processo a Saddam Hussein del 2003 (la cui condanna capitale Chiavario, fermamente avverso alla pena di morte, con coerenza depreca).

    Il filo rosso che lega nel tempo e nella varietà dei temi le prese di posizione dell’Autore è invariabilmente dato dai grandi valori di fondo della vita civile che nutrono il suo pensiero e lo guidano nel giudicare fatti e atteggiamenti. I diritti umani universali, l’importanza delle garanzie, che non devono però essere piegate a manipolazioni abusive per ottenere l’impunità (si vedano ad esempio le sue riflessioni in tema di prescrizione dei reati), l’attenzione, sempre, alla persona e alla sua dignità (si veda il modo in cui commenta la condanna dell’Italia per un uso improprio del cosiddetto carcere duro disciplinato dall’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario).

    Accanto ai temi della giustizia si trovano quelli più generali, dove si manifesta chiaramente anche il Mario Chiavario uomo di fede: una fede, come scrive egli stesso, vissuta senza intolleranze, e tradotta in un pensiero in cui il valore davvero universale della libertà di coscienza e la laicità positiva sono affermate con nettezza, e insieme sono criticate senza ambiguità posizioni di estremismo intollerante, da una parte e dall’altra delle barricate in cui spesso viene trasformato il dibattito su soluzioni legislative concernenti temi di confine, come l’aborto o il fine vita.

    Poche, ma significative, le sue incursioni su argomenti di politica generale delle istituzioni, come i referendum o le riforme costituzionali: da cittadino, egli dice, mai partecipe di poteri decisionali in quelle che chiama le più autentiche stanze dei bottoni (ma non si può dimenticare, ad esempio, il suo apporto al lavoro preparatorio del vigente codice di procedura penale). In esse Chiavario non manca di ribadire come la sua concezione della politica democratica sia fondata sul perseguimento del bene comune e non di interessi di parte, sull’ascolto delle realtà umane presenti nella società e specie dei più deboli, sulla capacità di vedere nell’avversario politico non un nemico ma un interlocutore con cui confrontarsi senza escludere punti di incontro di alto profilo (si veda l’introduzione alla sezione Istituzioni della nostra democrazia).

    Il pensiero dell’Autore, su questi e su altri temi, si distingue sempre per la ricerca di quell’equilibrio, che nella giurisprudenza costituzionale prende spesso il nome di ragionevolezza, e di cui sono presupposti essenziali la capacità di ascoltare e di comprendere le ragioni dell’altro e di evitare furori ideologici. Così, per esempio, quando rigetta posizioni repressive in materia penale come quelle di chi vorrebbe buttare la chiave, insieme non manca di criticare atteggiamenti che sembrano trascurare l’esigenza di capire le paure che emergono nella società e di combattere effettivamente i fenomeni che le alimentano (si vedano le riflessioni dell’Autore sul fenomeno della microcriminalità e sull’uso delle statistiche penali).

    Ma in realtà questa non è una semplice raccolta di scritti già pubblicati. È un’opera originale, perché gli scritti raccolti non sono semplicemente riprodotti, in tutto o in parte, ma sono preceduti e seguiti da note dell’Autore, spesso assai dense, che rievocano il contesto in cui essi furono pubblicati, richiamano le motivazioni delle posizioni sostenute, aggiornano i riferimenti di fatto e di diritto, e aggiungono ulteriori commenti. Al lettore si offre dunque non solo una documentazione sul pensiero passato di Mario Chiavario, ma la testimonianza di una sua riflessione che continua sugli stessi temi.

    Il che spiega fra l’altro perché gli articoli non sono riprodotti con il loro titolo originale, ma con titoli nuovi (si sa del resto che i titoli degli articoli di giornale non li scrivono di solito gli autori), e talora il testo originario è suddiviso fra diverse sezioni della raccolta, per ragioni che vengono spiegate nelle note. Essi non offrono dunque solo né prevalentemente una lettura storica, ma contengono una esposizione stimolante, coinvolgente e interamente attuale del pensiero dell’Autore, sempre nelle forme comprensibili a tutti e piacevolmente leggibili dell’articolo di giornale.

    Naturale, per il lettore, non solo mettere a confronto le opinioni espresse sullo stesso argomento o su argomenti affini, anche se a partire da fatti o circostanze diverse, negli articoli pubblicati a distanza spesso di molti anni (e accostati gli uni agli altri a prescindere da questa distanza temporale), ma anche riflettere sugli elementi di continuità e di discontinuità, sulle affinità e sulle differenze, emergenti da questa rilettura. E si deve dire che, giunti al termine della lettura, il lettore ne ricava la percezione non solo di una perfetta coerenza, ma di una straordinaria continuità di pensiero oltre che di stile espositivo. Non solo Chiavario non ha cambiato idea sui valori e sulle cose essenziali, nei lunghi e fecondi anni della sua vita di giurista e di opinionista: ma dimostra quella continuità e altezza di ispirazione che nasce da un pensiero forte e dall’adesione ad un sistema di valori ben saldo e immutato.

    Spesso è lo stesso Autore a misurare la corrispondenza fra ciò che aveva scritto anni fa e ciò che del tema pensa oggi: per lo più riconoscendone la coerenza, ma talvolta richiamando l’attenzione del lettore non solo sugli elementi di continuità (come quando dice che riscriverebbe oggi interamente quell’articolo), ma sulle riflessioni ulteriori che il tema gli suscita, anche in relazione ai contesti mutati, e perfino, qualche volta, esprimendo rammarico per non aver adottato a suo tempo una posizione più decisa (sulla vicenda del pool antimafia di Palermo) o prendendo le distanze da un termine allora usato, non certo nel senso proprio di certe odierne fobie (invasione degli stranieri), o attestando la permanenza di dubbi già allora affiorati ( nel dibattito sulle misure di repressione del terrorismo interno nella Germania degli anni Settanta).

    Un buon manuale, dunque, per chi, negli odierni tempi e contesti che potrebbero indurre allo smarrimento, vuole continuare a pensare e ad agire in conformità a principi irrinunciabili come quelli scolpiti nella Costituzione.

    Valerio Onida

    I

    RADICI

    Libertà di coscienza, clericalismo, laicità

    Non sono, questi, temi su cui io possa vantare una competenza specifica. Sono, però, tra quelli da cui più mi sono sempre sentito fortemente coinvolto: come credente e insieme come cittadino di uno Stato laico e democratico.

    La Croce in aula

    Originato da una tra le tante polemiche sull’esposizione del Crocifisso in luoghi pubblici (e in particolare nelle scuole), l’articolo intitolato La Croce in aula, pubblicato da La Voce del popolo (settimanale della Diocesi torinese)¹ il 3 febbraio 2002.

    Abbiamo assistito nelle scorse settimane al riesplodere delle polemiche sul Crocifisso nelle scuole e in altri luoghi pubblici.

    Quanta nostalgia mi viene per un paio di ricordi… Da un lato, le parole di un laico come Piero Calamandrei, che proponeva di porre il simbolo di Gesù in croce non alle spalle dei giudici, ma davanti a loro, affinché capissero tutta la drammatica importanza del giudicare e tutta la tragedia dell’innocente condannato; dall’altro, quelle di un magistrato, cristiano di grande e autentica fede, come Rodolfo Venditti, là dove racconta dell’imbarazzo in cui ebbe a trovarsi, in particolare di fronte a un testimone di religione ebraica, chiamato a deporre (e, prima, a giurare) di fronte al Crocifisso.

    Mutatis mutandis, questi sentimenti possono albergare entrambi, e convivere, anche nel l’insegnante, che da un lato ha nel Crocifisso il più formidabile stimolo per far individuare dai suoi allievi – siano essi bambini o adolescenti, o giovani quasi adulti – certi problemi e certi valori, il cui oblìo è esiziale per la vita collettiva e per quella individuale di ciascuno, e che dall’altro può trovarsi – anche, e forse specialmente, se credente – in un disagio analogo a quello di Venditti. E, questo, per una sorta di caduta di universalità che di fatto la presenza pubblica di quel simbolo ha dovuto subire, per essere percepito, o come un semplice segno coreografico, o, peggio, come una presenza imposta anche a chi non ci crede.

    Oggi, le convergenze del politicamente corretto di marca laicista e quelle degli oltranzisti musulmani sembrano riecheggiare, molto spesso, quasi soltanto un atteggiamento di mero rifiuto o di volontà di rimozione di quello che viene definito, se non peggio, come il simbolo di una volontà prevaricatrice. Ma non dobbiamo domandarci, intanto, se non siamo stati noi per primi – noi cristiani e in particolare noi cattolici – a imbastardire, per così dire, quel simbolo? E non mi riferisco tanto o soltanto alla croce divenuta ornamento del petto, generosamente mostrato, di una bella donna…

    Dovrebbe essere l’espressione di uno degli aspetti cruciali della nostra fede nel Dio-uomo, morto e risorto, e insieme la denuncia dell’abiezione cui può giungere la prevaricazione congiunta del potere politico e di quello religioso. Ma, se è divenuto, per molti, qualcosa da rimuovere non è anche perché se n’è fatto essenzialmente un’espressione della presenza maggioritaria di una confessione? E mi sconcerta che in larga parte delle risposte se ne faccia essenzialmente una questione di nostre tradizioni da salvare contro l’arrembaggio convergente della scristianizzazione e del fondamentalismo islamico…

    Per carità, c’è davvero più di un motivo per preoccuparsi per le intolleranze iconoclastiche di casa nostra e per quelle religiose di nuova importazione: le une e le altre, da non confondere con la laicità rispettosa della fede altrui né con la fede in un Dio diverso propria della maggior parte dei nostri fratelli agnostici o musulmani. E capisco che, oltre che della grande Tradizione, la fede cristiana vissuta sia fatta anche di più piccole tradizioni: con le loro luci e le loro ombre, come tutte le vicende umane, ma non per questo da considerare come mero retaggio di un passato di cui vergognarsi e da cancellare, possibilmente al più presto, dal nostro vissuto collettivo. Per carità, rivendico con forza che i nostri bambini possano continuare a cantare le nenie natalizie e fare il presepio anche nelle scuole pubbliche. E riconosco che il «non posiamo non dirci cristiani» che Benedetto Croce riferiva a se stesso, agnostico ma italiano ed europeo, non è soltanto un motto suggestivo, ma riflette la coscienza di una storia e di un travaso di valori in una cultura e in una civiltà che sono tali anche perché si sono imbevute di cristianesimo. Però, capisco anche chi vi si ribella, vuoi perché vi scorge una pretesa di assimilazione che egli rifiuta, vuoi perché sa – e io condivido questa convinzione – che le ragioni del suo essere cristiano vanno al di là dell’appartenenza a un popolo determinato.

    Mi ha fatto riflettere su tutto ciò anche un recente dibattito parlamentare, quello sul contributo finanziario per una moschea a Napoli. Mi interessa meno il problema specifico (da affrontare, credo, senza demagogia né in un senso né nell’altro, guardando alle risorse che ci sono e a criteri distributivi che tengano conto – questi sì – di certe proporzioni numeriche, più o meno come per l’8 per mille). Mi ha sconcertato il modo con cui si gridava allo scandalo in nome, appunto, delle nostre tradizioni cattoliche: e non è forse un caso che a farsene i più accesi paladini fossero esponenti di quel movimento politico che qualche anno fa celebrava la religione pagana del Po e degli elfi…

    Credevo fosse finita l’epoca dell’identificazione della Chiesa con una cultura, per quanto possa capire che ci siano certe manifestazioni cultuali pubbliche in qualche modo condizionate anche dal peso che l’una o l’altra confessione hanno avuto e hanno nello sviluppo di una collettività civile. Ma i più essenziali fra i rapporti tra le confessioni religiose non possono essere regolati altrimenti che dalle regole fondamentali di tutela dei diritti umani, quali riconosciuti su scala universale in convenzioni faticosamente elaborate dalla coscienza giuridica soprattutto nell’ultimo secolo (e tra cui occupa un posto primario il riconoscimento della libertà di coscienza in tutte le sue esplicazioni, comprese quella di professare una determinata religione e quella di non professarne alcuna).

    È in nome dei diritti umani che possiamo e dobbiamo rifiutare il trapianto di pratiche come l’infibulazione o di istituzioni giuridiche come la poligamia. È in nome dei diritti umani – non di un semplice, e malinteso, diritto di reciprocità – che dobbiamo pretendere rispetto e libertà per i cristiani (ma non solo per loro…) nei Paesi musulmani.

    E non vorrei che ci si dimenticasse mai, nei fatti, che cattolico vuol dire universale. O sbaglio a pensare che la più autentica identità del cristiano sia proprio quella di non avere un’identità di appartenenza che escluda gli altri, e che la Chiesa esiste non per dare tessere di garanzia per la salvezza di chi è dentro, ma per essere testimone di un Dio-uomo morto per la redenzione di tutti?

    Se non è così, forse aveva ragione Mussolini, che, subito dopo aver firmato il Concordato, sprezzantemente dichiarava che il Cristianesimo sarebbe stato soltanto una piccola setta giudaica se non fosse approdato a Roma…

    2002, si diceva. Ma che dire, adesso, di fronte al dilagare di manifestazioni, spesso aggressive (quantomeno verbalmente), nelle quali il simbolo dell’estremo sacrificio di Gesù Cristo – non meno di oggetti religiosi, quale la corona del rosario – è ridotto ad accessorio identitario ed escludente, come nel cartello su cui si leggeva Se non vuoi il Crocifisso torna al tuo paese?

    Posso aggiungere che nel rileggere questo scritto provo sentimenti particolari, anche perché è l’ultimo che qui in terra ha potuto nascere da un dialogo e da un forte idem sentire, praticamente su tutto ciò che conta nella vita, con mia moglie Dina?

    Semi gettati dal Concilio

    Di poco anteriore è lo scritto parzialmente riprodotto qui sotto, un articolo uscito a sua volta su La Voce del popolo alla data del 27 agosto 2000, con il titolo Il diritto di credere: nell’ambito di una riflessione a più voci sui principali documenti del Concilio Vaticano Secondo a trentacinque anni dalla sua chiusura, guardava specificamente alla Dichiarazione Dignitatis humanae (qui, sono stati omessi i brani di mera ricapitolazione dell’impianto del documento). Spero che ne possa emergere quantomeno qualcuno degli essenziali spunti positivi che quella Dichiarazione ha fornito a molti, e a me personalmente, per lo sviluppo di una fede vissuta senza nascondimenti ma anche senza intolleranze od ostentazioni strumentali.

    Nel panorama complessivo dei documenti conciliari, la "Dignitatis humanae, pur non rivestendo la forma solenne dei quattro documenti cui venne conferito il carattere di Costituzioni", ricopre indubbiamente un ruolo di primo piano: e, questo, più ancora che per il tenore delle sue affermazioni, per il sol fatto di esser stata proposta all’attenzione del Vaticano II e per essere stata, in quella sede, fortemente voluta come espressione del valore che la Chiesa universale, dopo un lungo cammino, è venuta ad annettere alla libertà religiosa.

    Non è un mistero che, nella sua genesi, la Dichiarazione sia stata tra i bersagli preferiti di quell’agguerrita minoranza conservatrice di Padri conciliari, ai quali la stessa convocazione dell’assemblea di cui facevano parte era parsa un attentato alla solidità della compagine ecclesiale. E, comunque, non erano in pochi a guardare con preoccupazione a un testo imperniato su un’idea – quella, appunto, di libertà religiosa – che nei secoli precedenti era spesso divenuta l’emblema di rivendicazioni e violente polemiche anticlericali e nei cui confronti, d’altronde, una censura apparentemente senza remissione e senza appello era stata lanciata, nel 1864, dal Sillabo di Pio IX. […]

    A quasi quarant’anni di distanza, non si può sfuggire alla domanda sul se e quanto il testo possa risultare invecchiato.

    In discussione non viene certo l’intensità di accenti con cui la Dichiarazione insiste sul rapporto inscindibile tra libertà e responsabilità, e in particolare tra libertà e responsabilità di ricerca della verità; ma – se non ci si ferma a un’apologetica a buon mercato – non si può negare che in più di un passaggio […] il linguaggio suoni (come d’altronde è più che naturale) un po’ datato, soprattutto, forse, in quello che può apparire come un eccesso di staticità nei richiami al deposito della verità presso la Chiesa (quasi che essa stessa non dovesse essere continuamente in ricerca, senza illudersi che la missione confidatale la renda padrona di qualcosa).

    Innegabili, poi, i silenzi su problemi di sempre, ma sicuramente riacutizzatisi dopo gli anni delle grandi speranze conciliari, come quello della libertà nella Chiesa, che, a differenza della libertà della Chiesa, non trova, in quanto tale, esplicita e specifica menzione nella Dichiarazione. Si può prescindere da un approfondimento (pur non agevole) della questione, se si vuol essere fino in fondo coerenti con il principio che «la verità non si impone che in virtù della stessa verità»? O qualcuno crede che possano bastare le risposte – in sé ineccepibili, ma solo come punti di partenza che lasciano aperto tutto un cammino da percorrere – come quella di chi osserva che «la Chiesa non è una società come le altre, in quanto fondata direttamente da Nostro Signore»? D’altro canto, ad essere ulteriormente e profondamente cambiato è tutto un contesto di realtà profane; ridottasi l’area degli Stati programmaticamente ispirati a dottrine ateistiche si avverte meno anche il fenomeno dell’ateismo conclamato da singoli e gruppi (e nei cui confronti, comunque, mentre non può non restare il più assoluto dissenso del credente, si pone pure, nell’ambito delle società civili, un’istanza di reciproco rispetto analoga a quella per la libertà religiosa strettamente intesa, oltre che, per la Chiesa, l’esigenza di non tralasciare la riflessione – avviata dallo stesso Concilio – sulle cause del fenomeno).

    In compenso, si riscontra ormai su vastissima scala un sostanziale indifferentismo religioso, accanto al quale peraltro convivono – magari nelle stesse persone – atteggiamenti in cui è difficile discernere dall’esterno sentimenti di autentica aspirazione alla fede (o, quantomeno, di un incerto bisogno del sacro) dal diffondersi dell’uso di una religione come oggetto di supermercato, cui rivolgersi al solo fine di ottenere miracoli o grazie speciali.

    In netto rialzo, poi, l’intolleranza religiosa, per lo più ammantata dalla pretesa di un fondamentalistico ossequio a questa o a quella fede. Lo si vede soprattutto all’interno del mondo islamico e nel caleidoscopico universo delle nuove religioni (del resto, lambito dal satanismo che ispira parecchie credenze e pratiche). Ma non ci si può neppure nascondere che, a dispetto dei passi avanti fatti sul piano del dialogo ecumenico (penso alla Dichiarazione comune di Augusta sulla giustificazione…), anche un po’ tutti i cristiani – cattolici compresi – sono stati coinvolti, ancora nell’ultimo scorcio del secolo ventesimo, in spaventose guerre fratricide.

    Pure in coloro che – allora giovani – vissero gli anni del Concilio, ricchi quant’altri mai di speranze, a prova eccezionale (e, per i più, inimmaginata) della feconda presenza dello Spirito in una Chiesa aperta sul mondo e al mondo, si fa strada, a questo punto, la tentazione, se non, a propria volta, di fondamentalismo e di intolleranza, quantomeno verso forme di chiusura in se stessi; magari, sulla base di un’onesta ma miope sottolineatura della necessità di salvaguardia di quanto rimane della religiosità tradizionale in popoli sviluppatisi all’ombra della fede dei padri.

    Ebbene, contro quella tentazione – come, d’altra parte, contro non meno pericolose tendenze a fare della libertà quasi un alibi, come fonte di disimpegno di fronte alle ingiustizie

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