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Perdono
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E-book177 pagine2 ore

Perdono

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Info su questo ebook

Sofia Dalmale, immigrata negli Stati Uniti, è una donna sofisticata, all’apparenza soddisfatta dei traguardi raggiunti nella sua vita.
In America nessuno conosce il suo passato. È stata una figlia indesiderata, disprezzata e torturata da una madre malata.
È sposata con Umberto, l'unico che conosce la sua storia, che le è sempre stato accanto per proteggerla. Tuttavia, il passato tornerà, e sarà proprio il marito a dare il via a una manciata di giorni nei quali Sofia, da vittima, si troverà di fronte a un sistema legale e giudiziario corrotto, incontrerà personaggi esteriormente irreprensibili, che in realtà celano segreti inconfessabili.
Sofia correrà veloce attraverso gli accadimenti, spinta da un’insaziabile fame di verità, ritrovandosi spesso, ancor più vittima di se stessa e delle proprie indagini.
"Perdono" è la storia di un crimine sviato, nascosto, approfittando dei pregiudizi e delle colpe nascoste di un paesino di provincia.
LinguaItaliano
EditoreLydia Poet
Data di uscita14 giu 2021
ISBN9791220818124
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    Anteprima del libro

    Perdono - Lydia Poet

    Lydia Poet

    decoration

    Perdono

    Proprietà letteraria riservata

    © 2020 by Lydia Poet

    REVISIONE: © Servizi Editoriali Genesis Publishing

    COVER DESIGN: © Servizi Editoriali Genesis Publishing

    FOTO IN COVER: © Amir SeilSepour

    UUID: 0d5aea89-2ddf-4ac1-b84b-245859a57fc4

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice

    Trama

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Trama

    Sofia Dalmale, immigrata negli Stati Uniti, è una donna sofisticata, all’apparenza soddisfatta dei traguardi raggiunti nella sua vita.

    In America nessuno sa del suo passato. È stata una figlia indesiderata, disprezzata e torturata da una madre degenere.

    È sposata con Umberto, l'unico che conosce la sua storia, che le è sempre stato accanto per proteggerla. Tuttavia, il passato tornerà, e sarà proprio il marito a dare il via a una manciata di giorni nei quali Sofia, da vittima, si troverà di fronte a un sistema legale e giudiziario corrotto, incontrerà personaggi esteriormente irreprensibili, che in realtà celano segreti inconfessabili.

    Sofia correrà veloce attraverso gli accadimenti, spinta da un’insaziabile fame di verità, ritrovandosi spesso, ancor più vittima di se stessa e delle proprie indagini.

    Perdono è la storia di un crimine sviato, taciuto, approfittando dei pregiudizi e delle colpe nascoste di un paesino di provincia.

    Semplicemente a mio marito e a mia figlia.

    Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.

    Capitolo 1

    Erano le 13:11 a Los Angeles quando squillò il telefono.

    Il telefono, nell'era del digitale, delle mail, delle social chat, squillava di rado.

    Quando lo faceva, Angelique trasaliva e le si svegliava l'adrenalina. Aveva iniziato ad associare lo squillo del telefono all'arrivo di brutte notizie.

    Era seduta al desk, di fronte all'ascensore di ingresso del piano dirigenziale della società di servizi per cui lavorava, alla sua destra la grande porta a vetri dello studio dell'amministratrice delegata, intorno a lei altre ordinate scrivanie, intervallate da piante ornamentali e da opere d'arte inondate di luce, tanta luce, che penetrava da grandi finestre affacciate sullo skyline della città.

    Rispose con il suo caratteristico accento del sud.

    Angelique era vistosa, a tratti ingombrante e chiassosa, ma la sua presenza colorava di felicità quell'ufficio fastidiosamente bianco, fastidiosamente candido.

    Era un donnone: afroamericana, nata e cresciuta a New Orleans, con un seno generoso e due fianchi prosperosi. I capelli crespi, sempre raccolti in improbabili acconciature, le lasciavano libero il volto gioviale, bonario, fresco, benché prossima ai cinquant’anni.

    Portava un paio di occhialoni, neri e rotondi, che – non si sapeva bene perché – la facevano assomigliare a un pavone altezzoso, ma allo stesso tempo divertente.

    Dall'altra parte del telefono, all'altro capo del mondo, una voce maschile, italiana, chiedeva di parlare col capo.

    Angelique non parlava italiano, aveva studiato francese, spagnolo, era bravissima col cinese, ma l'italiano no.

    Donna pratica, l'Italia non le era mai piaciuta, le era bastato studiare qualcosa sui libri di storia, per decidere che era una cultura troppo lontana dalla sua, troppo contorta e torbida, forse anche mafiosa, ma non le piaceva ragionare per stereotipi.

    In passato, quando era stata assunta per l'incarico che ancora svolgeva, si era detta che sarebbe stato solo per poco tempo, ma si era fatta travolgere dal carattere del capo e non se ne era mai pentita. Il suo titolare era un'italiana immigrata negli Stati Uniti molti anni prima.

    Angelique amava quel posto di lavoro, sicuramente al di sotto delle sue potenzialità, grazie proprio al suo capo che era sempre cortese, ferma ma mai arrogante, sempre comprensiva e attenta.

    Era la sua assistente personale da quasi una vita; si erano trasferite a Los Angeles, insieme, quando l'azienda si era spostata. Non si frequentavano fuori dal lavoro, non erano amiche, non andavano neanche a pranzo insieme, ma si rispettavano.

    Le loro figlie avevano più o meno la stessa età: la sua, più piccola di un paio d'anni, andava in una scuola pubblica, la figlia dell'altra in una università privata. La prima lavorava, a metà tempo, in un negozio di abbigliamento, la seconda praticava l'equitazione agonistica.

    La domenica, lei rimaneva a casa a sbrigare le faccende di casa, a stirare, a pulire i bagni e a sgrassare la cucina, l'altra era impegnata ad assistere alle competizioni della figlia, o a rilassarsi in barca, o in piscina.

    Lei si rilassava leggendo riviste femminili di gossip, l'altra amava l'arte in generale, era di bocca buona, purché fosse arte: pittura, scultura, balletto, fotografia, teatro, musica, poesia, insomma bastava il richiamo a una qualsiasi forma espressiva che lei si ritrovava impegnata nella ricerca del biglietto, o dell'invito più o meno esclusivo.

    Due donne, due mondi agli antipodi ma unite dalla stima reciproca. Si capivano, erano complici in un certo qual modo.

    A casa, poi, arrivavano un sacco di regali, vestiti scartati da Beatrice, che sua figlia apprezzava moltissimo, una sorta di bonus, o almeno così lo vedeva Angelique.

    Le ragazze non si erano mai incrociate in quegli anni, ma ognuna delle due sapeva dell'esistenza dell'altra, era una cosa gradevole e strana allo stesso tempo.

    Angelique era una donna umile e semplice. L'altra era umile, sicuramente, ma, molto sofisticata. Mai in disordine, sempre vestita di tutto punto, manicure e capelli curati a regola d'arte, non l’aveva mai vista con occhiaie e senza trucco, mai sopra le righe, mai una volta che l’avesse vista perdere le staffe.

    Tornando alla telefonata però: il tono di quell'uomo, la sua pronuncia accalorata, l'enfasi con cui pronunciava ogni parola – riconoscendo delle assonanze con lo spagnolo e il francese che lei aveva studiato in gioventù – in qualche modo la portarono empaticamente a immaginare che stava accadendo qualcosa di grave. Angelique si convinse che qualcuno aveva bisogno di aiuto, le parve di intuire che la madre di qualcuno stesse morendo.

    Non aveva capito, però, che rapporti avesse questa persona in pericolo con il suo capo; era certa, comunque che qualcuno aveva bisogno di aiuto e lei doveva agire.

    Il boss aveva fatto intendere in tutti quegli anni di essere orfana di madre e padre.

    Angelique non ricordava di averle mai prenotato neanche una vacanza in Italia.

    Il capo diceva di non avere più nessuna persona e nessun motivo di tornare nel suo Paese natale, ma quest'uomo chiedeva insistentemente di parlare proprio con lei, chiedeva di lei chiamandola col nome di battesimo, pareva che la conoscesse, che fossero addirittura in confidenza!

    Così, senza darne annuncio, passò la comunicazione, non dubitando delle proprie intuizioni: l'uomo, dall'altra parte del mondo, aveva una voce grave, molto triste, il tono era preoccupato, sembrava una questione davvero urgente.

    Non si fece scrupoli, non era mai stata criticata in tutti quegli anni, anzi, il boss lodava spesso questa sua capacità di immedesimazione.

    Dopo aver trasferito la chiamata si fece assalire dalla curiosità, ma non diede il tempo alle dita di giocherellare con la penna a sfera, né si sforzò di occupare il pensiero scrivendo da destrorsa con la mano sinistra, ma si alzò prepotentemente dalla propria postazione. Con la sua consueta verve – e con quella camminata ondeggiante che la caratterizzava – entrò senza bussare nell’ufficio del boss: Sofia Dalmale.

    ***

    Sofia era seduta dietro la pesante scrivania di cristallo, sprofondata nella sua poltrona presidenziale bianco perla.

    Dalla parete-vetrata entravano spavaldi i raggi del sole, che irradiavano di riflessi una criniera di capelli ricci arancioni mesciati biondi, corta dietro e più lunga sul davanti, che se ne stava mollemente china sul report settimanale delle vendite.

    Sotto la scrivania si intravedevano due gambe accavallate, inguainate in un paio di pantaloni aderenti gialli, corti alla caviglia, che mettevano in bella mostra delle decolleté Casadei blu con il tacco blade in acciaio: affilato come una lama.

    Sopra la scrivania, sotto la zazzera, campeggiava un grosso faldone di cartone pesante da cui facevano capolino innumerevoli bigliettini colorati.

    Il telefono la riportò alla realtà con un sussulto.

    Guardò il display, il numero non era interno, il prefisso indicava che fosse italiano. L’espressione le si indurì: aspettava quella chiamata e sapeva sarebbe stata sgradevole.

    Alzò gli occhiali da lettura sopra la testa, fece un profondo respiro e portò la cornetta all'orecchio.

    «Pronto, chi parla?» domandò, conoscendo già la risposta.

    «Sta morendo! Chiede di te, fai in fretta.»

    La voce di quell'uomo sconosciuto, mai visto, era la stessa voce, vischiosa, probabilmente impastata dall’alcool, che due mesi prima l’aveva contattata, non per presentarsi, ma solo per comunicarle che alla madre avevano diagnosticato un tumore al colon. Lo stadio del morbo era troppo avanzato, era inoperabile, anche per via della debilitazione fisica della paziente.

    Due mesi prima, lo stesso uomo, in modo pacato ma tagliente, le aveva detto che era solo una questione di tempo.

    Quel tempo era arrivato.

    Non disse nulla, non riagganciò, una rabbia dimenticata le esplose dentro, dalle viscere, e il telefono finì in frantumi contro la parete a fianco della porta dalla quale stava entrando Angelique.

    La sua assistente la trovò così: in piedi, i capelli scarmigliati, le vene sulle tempie che le pulsavano ritmicamente; a quella vista si sentì bruciare all'istante dallo sguardo di Sofia.

    Un poco per difendersi e un poco per l’imbarazzo si preoccupò di sfuggire a quei dardi chinandosi a raccogliere i pezzi dell'apparecchio telefonico.

    Sofia, invece, non si era neppure accorta della sua presenza, non aveva visto la porta aprirsi, quelle saette infuocate non erano destinate alla sua segretaria, era come accecata da una rabbia incontrollabile.

    Angelique non ricordava di averla mai vista in quello stato, non la riconobbe, così goffamente, blaterò qualche parola di scuse.

    Fu allora che Sofia si accorse di lei, ravvivò i capelli con una mano, prese un sorso d’acqua dal grande e pesante bicchiere di cristallo che aveva sulla scrivania, poi posatolo sul vassoio di ceramica rosso Chanel, la guardò fingendo tranquillità, come se nulla fosse successo.

    Placò ogni spasmo muscolare, e prima di parlare emise un profondo, lungo sospiro. Rilassato il viso, con calma le chiese cosa avevano in agenda per i prossimi giorni, e si preoccupò di informarla che, forse, avrebbero dovuto spostare tutti gli impegni.

    Si comportò come se non fosse accaduto niente, non si scusò, non pretese scuse, non fece nessun accenno alla sua sfuriata. Era presente fisicamente davanti ad Angelique, ma un turbine di sentimenti la tratteneva laddove quella telefonata l’aveva condotta: altrove, lontano, dall'altra parte del mondo.

    Come di consueto, l'agenda era pienissima! Cosa doveva fare? Cosa diavolo voleva ancora la vita da lei? Non lo sapeva.

    Odiava sua madre, era la persona più detestabile mai conosciuta, aveva passato un’intera esistenza a scappare da lei, ma ora era una donna e quell'essere era comunque colei che l’aveva generata e, adesso, l’aveva convocata al proprio capezzale.

    Sapeva che prima o poi questo momento sarebbe arrivato, ma le aveva sempre augurato di non morire mai o addirittura di morire lei stessa per prima, almeno si sarebbe evitata nuove lacerazioni, nuove ferite da curare, ulteriori dolori.

    E invece il destino, come un dittatore, aveva progettato una malattia che l’avrebbe portata via troppo presto.

    Una malattia subdola, ma curabile.

    Oh, se solo quella donna avesse avuto un poco di amor proprio, un poco di rispetto per se stessa e per coloro che le gravitavano intorno!

    Invece no, come al solito, era stata capace di arrivare a quel punto, incurante delle necessità e dei sentimenti di coloro che avrebbe dovuto considerare propri cari. Non preoccupandosi delle prime evidenti avvisaglie della malattia, sua madre aveva permesso al tumore di generare nuove perenni afflizioni; un’angoscia che la figlia faticava a contenere, a lenire.

    Ferma, presente, fredda, comunicò ad Angelique che doveva andare a casa. Non una parola sull'accaduto, nessun accenno al suo passato. Tutto ermeticamente sigillato.

    Il tono di voce, solitamente calmo e cortese, si era fatto distaccato, ma allo stesso tempo nervoso.

    Angelique la vide, piano piano, riprendere possesso di se stessa e delle proprie emozioni. Si rialzò e rimase in piedi, appoggiata allo stipite della porta d'ingresso a guardarla, mentre – aperta la borsa in pelle di struzzo color caramello salato – prendeva lo specchietto da trucco e si ravvivava il rossetto; riponeva l'agenda e il cellulare, e dopo, mentre le faceva cenno di uscire prima di lei dall’ufficio, indossava i suoi invidiabili occhiali da sole

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