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La ragazza che sorrideva sempre: Un serial killer a Pavia per Sambuco e Dell'Oro
La ragazza che sorrideva sempre: Un serial killer a Pavia per Sambuco e Dell'Oro
La ragazza che sorrideva sempre: Un serial killer a Pavia per Sambuco e Dell'Oro
E-book166 pagine2 ore

La ragazza che sorrideva sempre: Un serial killer a Pavia per Sambuco e Dell'Oro

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Info su questo ebook

“...sono state strangolate, spogliate e lasciate lì, con le gambe divaricate. Ma l’autopsia ha dimostrato che non c’è stata violenza carnale”.
Con la globalizzazione anche la provincia italiana è cambiata, negli usi, nei costumi e nei linguaggi, ma sotto la patina superficiale dettata dalle nuove abitudini e dai nuovi abitanti, si diramano, intrise nella loro storia, le radici di sempre: famiglie più o meno note, generazioni vecchie e nuove, con i loro progetti e i loro segreti, le loro qualità e le loro infezioni. La nuova avventura di Sambuco e Dell’Oro, impegnati a indagare sulla morte apparentemente senza movente di Federica, “la ragazza che sorrideva sempre”, si svolge su questo palcoscenico. Come attori di un dramma, vediamo sfilare una serie di personaggi protagonisti sulla stessa tela, una città della provincia italiana del nord; subdoli, angosciati, falliti, grotteschi e torbidi, tra gelosie e ripicche, odi antichi e nuove rabbie, rivalse e invidie mascherate. Una storia che affonda le radici nel passato: un omicidio avvenuto molti anni prima, un mistero solo in parte risolto. Anche i nostri due detective sono protagonisti inevitabili della medesima tela. Forse, per questo, è palese il loro smarrimento tra esseri umani che si conoscono da sempre. Perché la provincia italiana è ancora così, nonostante tutto: un luogo a parte, in cui le relazioni, i rapporti, sembrano più intimi e pregnanti, dove odio e amore hanno confini labili, dettati, di volta in volta, da opportunismo, ipocrisia e, soprattutto, conti da saldare col passato.

Alessandro Reali è nato a Pavia il 4 febbraio 1966. Per Fratelli Frilli Editori ha già pubblicato Fitte nebbie. La prima indagine di Sambuco & Dell’Oro (2012 III ed.), La morte scherza sul Ticino. La seconda indagine di Sambuco & Dell’Oro (2013 II ed.), Risaia crudele. Quei giorni dell’inverno del ’45 (2014), Sambuco e il segreto di viale Loreto. La nuova indagine di Sambuco & Dell’Oro (2014), Ritorno a Pavia. Un altro Natale per Sambuco & Dell’Oro (2015), La Bestia di Sannazzaro. Lomellina, inverno di guerra 1917 (2016), Ultima notte in Oltrepò (2016), Il fantasma di San Michele (2017) e Pavia sporca estate (2018). Per Ticinum Editore ha pubblicato la raccolta di racconti Il diavolo del Ticino (2017).
LinguaItaliano
Data di uscita29 nov 2019
ISBN9788869434129
La ragazza che sorrideva sempre: Un serial killer a Pavia per Sambuco e Dell'Oro

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    Anteprima del libro

    La ragazza che sorrideva sempre - Alessandro Reali

    Prologo

    Il bambino si inginocchiò nell’angolo con la fronte contro il muro e le mani premute sulle orecchie. Avrebbe voluto gridare, ma non poteva. Sapeva cosa stava per accadere e ogni suo pensiero era un lampo di ammirazione e sofferenza nei confronti del padre e di odio disperato contro la madre, responsabile di avere rotto per sempre l’incantesimo del salotto con i soldatini bene ordinati sul tappeto, della TV accesa e del mondo reale nella sua piccola testa.

    Sentì una mano sulla spalla e fu costretto a voltarsi: il padre lo trascinò con sé in fondo alla stanza, dov’era la madre, nuda, con i capelli in disordine e il volto aggredito da un pallore malato.

    Non farlo supplicò la donna ti prego.

    Deve capire, fin da ora, con chi ha a che fare disse l’uomo, colpendola con uno schiaffo.

    Il bambino aveva paura. Chiuse gli occhi. Li riaprì e vide il padre strappare le mutandine alla madre, per poi colpirla di nuovo sulla nuca, più forte, con il pugno chiuso. Gli afferrò i capelli e lo spinse verso di lei. Quindi schiacciò il suo il viso contro il ventre della donna, ridendo in un modo orribile.

    Guarda da dove arrivi... su, da bravo... guarda bene la nostra maledizione! disse, come se stesse pronunciando una sentenza senza possibilità di appello.

    UNO

    Viareggio, agosto 1984

    I due ragazzi di Milano avevano spacciato il fumo. Le casse di birra erano da tempo accatastate sotto la tettoia adiacente la cucina che esalava, nonostante fossero passate molte ore dalla cena, odore di fritto. La maggior parte dei partecipanti alla festa, verso le tre di notte, stava sdraiata in silenzio accanto alle tende o tra gli alberi del campeggio. Molti dormivano, qualcuno vomitava. Uno dei due milanesi, riparato in tenda, faceva l’amore con una giovane svizzera dai capelli a spazzola color platino.

    I ragazzi di Pavia, che occupavano lo spiazzo accanto alle cucine, avevano snobbato, com’era loro abitudine, la festa, restando seduti di fronte alle tende a bere vino e discutere di arte e poesia, scrutando con mal celato disprezzo il viavai di giovani fatti e ubriachi.

    Il custode del campeggio, munito di torcia elettrica, sollecitato dai capifamiglia occupanti il lato ovest dove soggiornavano i proprietari di roulotte e gli affittuari di bungalow, sbraitava contro quelli che, nonostante l’ora tarda ancora cantavano le canzoni di Bob Marley, assolutamente indifferenti ai suoi rimproveri.

    Luca Alpeggiani, il figlio dell’antiquario di via Teodolinda, aveva 21 anni e frequentava, come gli altri amici partecipanti a quella vacanza, la facoltà di Lettere Moderne all’Università di Pavia. Solo Rebecca, la sua ragazza, era iscritta a Filosofia, ma non sembrava avere molta voglia di studiare. Era troppo impegnata a sbronzarsi e far sapere in giro di essere una poetessa, come Sylvia Plath, il cui nome usciva ossessivamente dalle sue labbra. Era bella, Rebecca, bella e un po’ matta, come sostenevano neanche troppo scherzosamente sia Luca che Marcello Alpeggiani, suo cugino. O, forse, era solo una ragazzina, tanto esuberante quanto insoddisfatta, un po’ lunatica, come spifferava in giro Simona Lova, la sua migliore amica. Di questi improvvisi sbalzi d’umore ne sapeva qualcosa Luca Alpeggiani quando, dopo aver fatto l’amore, la ragazza scoppiava in pianti a dirotto seguiti da silenzi che potevano durare intere giornate.

    Rebecca si era addormentata dopo aver bevuto una bottiglia vino bianco; alle due e mezza di notte si era alzata, lentamente, stirandosi in punta di piedi con le braccia tese verso l’alto. Luca, Simona Lova e Giovanni Belloni stavano ancora discutendo.

    Ti sei svegliata, finalmente. Sei ancora ubriaca? chiese Luca, che in mano teneva una vecchia edizione in lingua di Une saison en enfer.

    Perché le parlava sempre in quel modo? Si domandava Rebecca. Possibile che si sentisse costantemente superiore al resto dell’umanità? D’accordo, era un gran bel ragazzo, molto intelligente; suo padre era un noto antiquario e sua madre la preside del liceo... Ma questo cosa voleva dire? Non poteva prenderla un po’ in considerazione, anche come poetessa? Mai una volta che avesse detto qualcosa di carino a proposito dei versi che lei si ostinava a scrivere sui quaderni dalla copertina nera che portava sempre appresso, in una sacca di cuoio.

    Vado a fare un giro in pineta. Qui si soffoca disse Rebecca.

    In effetti, l’idea di respirare un po’ di aria fresca è allettante. Magari scendiamo fino al mare e dormiamo in spiaggia, che ne pensate? chiese Simona Lova, nella speranza che Luca avallasse la sua proposta come quella volta in riva al Ticino quando Rebecca era troppo fatta per accorgersene e loro due si erano baciati sulla sabbia, a pochi metri di distanza. Non lo aveva mai raccontato, questo, alla sua migliore amica. Pure lei era innamorata di Luca, come quasi tutte...

    Giovanni Belloni, aspirante giornalista, era suo spasimante. La pacata autorevolezza con cui affrontava gli argomenti più disparati, dalla cronaca, alla politica, all’arte e persino allo sport, le piaceva. A modo suo era uno dei pochi che sapeva tener testa a Luca, ma sul piano fisico non c’era proprio paragone. Sotto questo aspetto, allora, era preferibile Marcello, che assomigliava al cugino Luca, ma era più discreto, con la pipa da intellettuale sempre in bocca e i capelli scarmigliati sparsi sulla fronte sotto cui stavano incastonati vivaci occhi neri che avevano un che di languido e, al tempo stesso, di spregiudicato.

    Non ci penso proprio a muovermi adesso, Reby. Non fare la scema e ritorna in tenda a dormire. In pineta a quest’ora si aggirano gli spiriti cattivi, non lo sai? disse Luca.

    Questo è vero, non siamo tanto lontani dalle zone di caccia del mostro di Firenze disse Simona Lova, delusa dal fatto che Luca avesse troncato di netto la sua velata proposta.

    Ma non dite cazzate: il mostro di Firenze in vacanza a Viareggio… però, Rebecca, io non ho davvero voglia di muovermi, ho bevuto troppo, per colpa di Luca, naturalmente. Con lui il vino non è mai abbastanza. Meno male che Marcello e Silvano sono in giro, se no la discussione sulle dittature del secolo, i poeti americani e le social democrazie poteva portarci diritti all’alba disse Giovanni Belloni, lasciandosi andare sul sacco a pelo: gli occhi rivolti al cielo puntellato di stelle, come lucciole tra le fronde immobili degli alberi.

    Andatevene tutti a fare in culo disse Rebecca.

    Incamminandosi, aveva dovuto scansare alcuni tizi addormentati sul viale d’ingresso. Contro la staccionata, un ragazzo e una ragazza erano già a buon punto, indifferenti al fatto che qualcuno potesse spiare le loro effusioni.

    Rebecca pensò a quanto fosse difficile vivere. Ricordò sua madre, morta suicida quando lei frequentava la quinta elementare. Si era sentita tremendamente in colpa, dopo, affrontando le compagne di classe che la indicavano col dito o un cenno del mento, come se la morte della donna fosse stata colpa sua.

    Raggiunse l’ingresso del campeggio. Il custode, con la torcia, le illuminò per un attimo il volto.

    Le era passata la voglia di inoltrarsi tra gli alberi, però non le andava di tornare indietro; Luca, senza dubbio, non le avrebbe risparmiato qualche battuta velenosa:

    Non sei una grande poetessa e non lo sarai mai, nemmeno se infili la testa nel forno, come Sylvia Plath... era una delle più frequenti.

    Pensando alle parole del suo ragazzo avanzò nel bosco, tra tronchi enormi, con i rami che assumevano nell’oscurità forme mostruose. Si accostò a una radice che sbucava tortuosa dal terreno. Lì, saliva un buon odore fresco di aghi di pino. Sedette con le ginocchia raccolte tra le braccia e iniziò a piangere: dopo la sbronza, come sempre, si lasciava vincere dalla malinconia, dal senso di inadeguatezza che la perseguitava dal giorno in cui la madre aveva deciso di mettere fine alla sua vita.

    Un suono secco, come un ramo spezzato, la distolse dai suoi pensieri. Volse lo sguardo a destra e a sinistra, cercando nel buio. Si alzò. Aveva paura, il cuore tamburellava in gola e non sapeva cosa fare. Percepì il vuoto interiore cristallizzarsi come ghiaccio.

    Adesso sì, era davvero pentita della sua scelta.

    Eugenio Fornara era in vacanza con i genitori in una delle roulotte piazzate sul lato ovest del campeggio. Aveva 19 anni, era originario di Nizza Monferrato e, alla festa, non aveva potuto partecipare perché non glielo avevano permesso. Comunque, sarebbe stato un disastro, come a scuola, dove i compagni lo emarginavano e gli facevano scherzi pesanti, perché Eugenio era impacciato, sovrappeso, con un’aria infelice che gli aveva regalato il banale e crudele nomignolo di lo sfigato. Le sue gambe erano corte e tozze e le braccia lunghe, sproporzionate, le orecchie a sventola, le labbra tumide e gli occhi sporgenti. Nessuna ragazza se lo sarebbe mai filato. Questa consapevolezza, con il passare del tempo, aveva smesso di ferirlo. Ora, si trattava più che altro di odio. Irreversibile odio nei confronti delle coetanee.

    Quando Rebecca lo aveva incrociato ai bagni, alcuni giorni prima, sorridendo spontaneamente, per lui era stato come prendere il largo in mare aperto. La ragazza più bella del mondo si era accorta di lui: com’era possibile? Da quel momento aveva iniziato a spiarla, inventando così un significato per quelle vacanze noiose, caratterizzate dalle grigliate che suo padre organizzava ogni sera in compagnia di una famiglia di amici fiorentini, disputando sulle qualità delle razze bovine, toscane e piemontesi, o se fosse migliore il Chianti o la Barbera monferrina. Adesso, sì, c’era lei: la ragazza senza nome che pedinava fino ai bagni e aspettava nascosto dietro un albero quando usciva dalla doccia, per osservarla, con la pelle imperlata di goccioline e i capelli umidi sul seno nudo dai capezzoli diritti, due chiodi che gli aprivano il cuore e torturavano il cervello, fino a produrre ripetuti sfoghi al cesso e lacrime con la testa infilata sotto il cuscino.

    Quella sera, mentre i suoi genitori dormivano, era uscito dalla roulotte e si era appostato nei pressi delle cucine, dove i ragazzi di Pavia avevano piantato le tende. Quando la vide fermarsi a parlare con i suoi amici, cercò di captare il suono della sua voce, ma non ci riuscì: un tipo strafatto, poco distante, stonava a gran voce No Woman No Cry.

    La ragazza, con aria stizzita, si allontanò sculettando. I jeans corti sgambati lasciavano nuda buona parte del sedere. Eugenio avvertì le vertigini e sedette in terra. Trattenne un conato di vomito. Si alzò di scatto e la vide dirigersi verso l’uscita, nel riverbero della torcia elettrica del guardiano. Non sapeva cosa fare. Avrebbe voluto seguirla, ma se suo padre si fosse accorto che non era in roulotte lo avrebbe punito severamente. Non tollerava di venire preso in giro, l’uomo grande e grosso che gravava con le sue opinioni insindacabili sopra di lui, mentre la madre, pur rassegnata alla prepotenza del marito cercava, sporadicamente, di intavolare con il ragazzo un dialogo costruttivo.

    Quando decise, disperato, di raggiungerla, lei era già sparita dalla sua visuale. Corse verso la pineta e arrancò tra gli alberi come un animale ferito. Era madido di sudore e iniziava a temere di essersi perso. Il bosco sembrava tutto uguale, difficile orizzontarsi; col fiatone, raggiunse una grossa radice rischiarata dalla luna filtrante tra i pini e si fermò.

    Il mattino dopo suo padre e il vicino di roulotte, appurata l’assenza del ragazzo, decisero di andare a cercarlo. Eugenio, di sera, non si allontanava mai da solo. Sua madre, afflitta da brutti presentimenti, ciondolava su e giù dai bagni alla piazzola dove l’amica di Firenze cercava di rassicurarla.

    Il custode, che stava per andare a dormire, disse ai due uomini che un ragazzo grasso, verso le tre del mattino, si era inoltrato nella pineta probabilmente al seguito di una ragazza dai lunghi capelli rossi.

    Attraversarono la strada e penetrarono nel bosco. Il profumo dolce dei tigli si mescolava a quello pungente dei pini. Il cielo azzurro chiaro e la

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