Quelli vivi e quelli morti
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Anteprima del libro
Quelli vivi e quelli morti - Isabella Nicchiarelli
www.riza.it)
IL FUNERALE DELLA BONCINI E IL MISTERO DELLE STAMPE TRAFUGATE
La Signorina dal Naso Tondo era già morta da un paio d’ anni, quando Irene lo scoprì al funerale della Boncini. La Birò, invece, quella del piano terra, era scomparsa almeno dieci anni prima, dopo un paio di tentativi di scasso. Il suo portone era perennemente in riparazione: a destra della prima rampa di scale, nascosto dal muro dello stanzino delle cassette postali, era il più ambito da ladri o ladruncoli della zona, che se lo trovavano a portata di mano. Appena fatta istallare una serratura più sicura, un parente la trovò morta e, subito dopo il veloce e discreto funerale, aveva venduto l’appartamento e si era trasferito in un’altra città. Da allora, anonimi studenti -giovani intercambiabili odorosi di pizza- avevano sostituito la vecchia signora dai capelli neri a crocchia e dalle battute ironiche sempre pronte.
Succedeva più o meno la stessa cosa, dopo ogni decesso e il conseguente svuotamento dell’appartamento del defunto o della defunta di turno. I nuovi arrivati parevano sempre peggio ai condòmini storici, e anche per la Boncini sarebbe andata così. In quanto alla Signorina dal Naso Tondo, era stata già sostituita, senza che Irene se ne fosse resa conto, dalla nipote, una Pazza Avvinazzata con badante di colore, inspiegabilmente sempre sorridente. Lei, la badante indiana, perché La Pazza, invece, indossava di solito un’aria tragica ma piena di contegno, parlava a bassa voce e qualche volta, in modo inatteso, le capitava di accennare al casuale interlocutore di strani incidenti accaduti a lei anni prima, per mano di qualche misterioso personaggio. E intanto l’ascensore, mentre salivano verso i loro piani, si riempiva di un forte e sgradevole odore di vino scadente.
Era un condominio di vecchi e negli ultimi venti anni c’erano state soltanto tre o quattro nascite, tutte collegate a famigliole di recente insediamento che scomparivano alla seconda gravidanza. A parte la Famiglia Cuore: marito abbronzato, due bimbe ormai adolescenti, bellissime, e una giovane moglie procace, la Bellona, che quando ti superava salendo su per le scale non potevi fare a meno di immaginare mentre faceva l’amore. Magari con te.
I brividi erotici in quel palazzo, però, si limitavano alla Bellona, perché per il resto si poteva solo osservare bambini diventare ragazzi e poi adulti disoccupati. I fatti più divertenti in quel condominio erano, tutto sommato, le morti; Irene poteva testimoniarlo: appena fresca di trasferimento nella nuova casa, aprendo la porta d’ingresso per andare al lavoro, si era imbattuta in una bara portata a spalla giù per le strette scale elicoidali. Doveva essere qualcuno dei piani alti, e per anni poi continuò a credere che la salma fosse quella del vecchio Serranti dell’ottavo piano che, in realtà, era ancora vivo e vegeto. Sia pure a modo suo.
Ultimamente, però, la morte era si era affacciata a ogni piano, senza differenze di sesso o età, e spesso c’erano stati inquietanti preavvisi: la Boncini, in realtà, era malata da tempo. Respirava male e aveva le gambe così gonfie che non poteva quasi più camminare. Frequentava il Centro Anziani, ma poteva farlo soltanto perché dei giovani volontari venivano a prenderla in macchina e la riaccompagnavano.
Alla Boncini, la madre di Irene aveva affibbiato il soprannome di Frittellona, dopo che se l’era trovata davanti tutta spettinata, con i capelli sottili mezzi grigi e mezzi biondi, con un’espressione alterata sul viso, il corpo enorme dentro un grembiule da casa scolorito e con una grande macchia lì, proprio sotto la pancia prominente. Era salita in ascensore per lagnarsi delle porte lasciate aperte e del chiasso che facevano quando tornavano a casa a notte fonda. Aveva quasi aggredito la madre di Irene, in visita lì per il periodo del Natale e che, ignara, aveva aperto la porta. La Boncini aveva equivocato: ingannata dall’aria incredibilmente giovanile della persona che si era trovata davanti, aveva creduto di parlare con la figlia di Irene. Tuttavia, questo rimase un caso isolato e quel soprannome fu usato solo in famiglia: si capiva che la Boncini era una persona colta, di buona famiglia, con qualche problema economico ma molto dignitosa. Spesso parlava con un certo sussiego di quelli che erano stati gli inquilini di un tempo del palazzo: Tutti gerarchi. E la spesa la portavano solo le serve.
E con questo pareva scuotere la testa colpita dolorosamente dal mediocre parallelo con l’oggi.
Irene l’aveva incontrata in ascensore il giorno del suo ultimo compleanno e la donna nel confessarglielo aveva poi aggiunto, con quella voce che sapeva di sigarette fumate in solitudine, che l’avrebbe trascorso a casa con la sua gatta, quella che i giovani volontari avrebbero poi trovato accanto a lei quando morì. Ne appresero la scomparsa soltanto qualche giorno dopo il decesso, grazie a un discreto bigliettino bianco attaccato alla grata dell’ascensore. Si avvertiva che ci sarebbe stato l’estremo saluto alla signora Boncini, martedì alle dieci, presso la parrocchia del quartiere. Perfino in questo andarsene di soppiatto qualcuno ci volle vedere una riprova della sua ruvida indipendenza, quasi un’impertinente uscita di scena fra tanto indifferente perbenismo.
Quel giorno, ad aspettare il feretro in fondo alla scalinata dell’enorme e disadorna chiesa del quartiere, con le sue pareti esterne tappezzate dai cartelloni dei film in proiezione nella sala d’essai parrocchiale lì accanto, c’erano quasi tutti i condomini. Quasi un gruppetto compatto che parlava a mezza voce, tra saluti e scuotimenti di testa. Si riconosceva la coppia dei Labriola, stretti accanto l’uno all’altra come in ogni occasione mondana, e poi la Secca, la Pentecostale, la nuova inquilina gentile Nera Nera, il vecchio Serranti e la moglie, il Ferramenta-Infermiere e la moglie Capo Sala, la moglie del Coloraro e infine la signora Bruto- cioè la gattara siciliana del quarto piano. Il palazzo si era come svuotato in quell’occasione, senza abitanti e senza voci, con gli spazi abbandonati come l’appartamento della Boncini, privo ormai anche della gatta a cui avevano già trovato un’altra sistemazione.
Verso la fine della cerimonia funebre il prete parlò vagamente della sorella Maria Adele o Adelaide (la Boncini), ma non sembrò conoscerla molto. Non doveva essere stata una gran frequentatrice della parrocchia, tuttavia il prete svelò qualcosa che almeno Irene e il marito non sapevano. La Boncini aveva per lungo tempo lavorato all’Archivio di Stato e questo, pensarono, spiegava la presenza di tre o quattro signore, non comprese nel novero delle coinquiline, tra le quali avevano suscitato una certa trattenuta curiosità. Molto distinte, avanti negli anni, erano sedute, nei banchi in fondo, vicino all’uscita dell’enorme chiesa. Amiche o forse ex-colleghe della Boncini. Commosse in modo discreto, distratte da un malcelato nervosismo, o forse dall’imbarazzo di non conoscere nessun’altro lì accanto.
Dopo un veloce ricordo letto al lato dell’altare da una giovane volontaria, la cosa finì rapidamente e ben presto furono tutti liberi di riprendere le proprie pratiche quotidiane. Irene, che non vedeva l’ora di potersi togliere quelle dannate scarpe che l’avevano tormentate per tutta la durata del funerale, e il marito Guido, che l’accompagnava e che era già in pensione come lei, tornarono velocemente a casa, nel loro palazzo color mattone, insieme a un silenzioso gruppetto di condomini. Non fu una sorpresa trovare l’ascensore bloccato al settimo piano e a Irene sfuggì un sospiro. Poi seguì mestamente gli altri che avevano già cominciato a salire quasi in fila indiana su per le strette scale, ad eccezione della Gattara (la signora Bruto) che già ansimava alla fine della prima rampa di gradini prima dell’ascensore. Avrebbe aspettato laggiù – così decise- perché, ne era sicura, la faccenda non sarebbe stata rapida. Eh, io lo so già,
la sentirono dire mentre già salivano, … le porte dell’ascensore non le chiudono mai. Sempre i soliti. Rimangono a chiacchierare. Se ne fregano degli altri. Ogni volta devo urlare:
ASCENSOREEE!! e quelli niente…
Si avviarono, dunque, su per le scale incerate, accompagnati dagli echi di quelle parole arrotate secondo un accento siciliano del Nord ancora molto riconoscibile e, a parte la Secca che, abitando al primo piano, li salutò subito, quando arrivarono al terzo piano c’ erano ancora, con Irene e il marito, la Nera Nera e la moglie del Coloraro. E lì tutti e quattro nello stesso tempo si fermarono e rimasero gelati nel trovare la porta della povera Boncini spalancata su un interno completamente sottosopra, come se la vita della Boncini se ne fosse appena andata in un turbinio, ascesa in un vortice verso un nuovo mondo superiore. Il piccolo ingresso e il salottino comunicante mostravano mobiletti impudichi con le ante spalancate, un tappeto malamente arrotolato e poggiato penzoloni sul divanetto davanti al televisore. Molti libri strapazzati e cuscini erano sparsi a terra insieme a cassetti e contenitori che parevano rovesciati in tutta fretta su una cianfrusaglia di carte, cartoline, lettere, piccoli oggetti, ciondoli ed ex bomboniere. La luce era accesa e le tapparelle abbassate.
I ladri!
dissero tutti e quattro insieme.
Forse qualcuno di loro aveva pensato alle loro case vuote mentre erano ancora in chiesa e per un attimo il pensiero di possibili furti li aveva sfiorati. Ma ladri di che? Dell’anima, dei ricordi forse, perché non pareva davvero che nessuno dei condomini fosse particolarmente abbiente. Era un condominio sottotono. Niente feste o ricevimenti, sfoggi di abiti o automobili di lusso, o viaggi. A eccezione dell’Hostess dell’ultimo piano, naturalmente, o dell’Assassino e della moglie di Labriola, entrambi amanti di viaggi esotici, era un condominio stanziale e Irene e il marito non sfiguravano con le loro rare uscite e i pochi voli d’aereo, per lo più ispirati da amore genitoriale nei confronti della figlia maggiore allora in Erasmus in Spagna.
Li abbiamo disturbati noi!
Stavano ancora qui…
Ma non abbiamo incontrato nessuno che scendeva!
Deve essere successo durante il funerale…
ASCENSOREEEEEEEEEEEE!
la voce imperiosa della Gattara, che cominciava a temere una dimenticanza da parte dei coinquilini, sovrastò per un attimo l’intrecciarsi delle loro ipotesi piene di apprensione, ma loro quasi non sentirono e continuarono con le loro deduzioni e supposizioni:
Ecco, sono fuggiti con l’ascensore… e poi l’hanno lasciato aperto.
Magari sono ancora lassù…
, sussurrò la Nera Nera, impallidendo.
Be’, insomma… penso che la cosa migliore sia chiamare il 113. Non vi muovete. Ora chiamo. Non tocchiamo nulla…
, intervenne con fermezza il marito di Irene prendendo in mano la situazione e impedendo alla moglie del Coloraro di entrare a impicciarsi un po’.
Erano spaventati, preoccupati, ma anche un po’ sovraeccitati da tutta quella storia. Un furto in diretta fino ad allora non l’avevano mai sperimentato. Di solito passava un po’ di tempo prima di averne qualche notizia.
ASCENSOREEEEEEEEEEE! ASCENSOREEEEEEEEEEE!
continuava intanto la Bruto a sollecitarli laggiù all’ingresso.
Quando arrivarono i poliziotti erano ancora tutti lì – anzi, qualcun altro si era aggiunto- a fare ipotesi e