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Love Thy Sister
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E-book274 pagine3 ore

Love Thy Sister

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Info su questo ebook

Si dice che i guai non vengano mai soli, che piova sempre sul bagnato e che non si debba mai lasciare la strada vecchia per la nuova… Già, perché si sa quello che si lascia e mai i casini in cui ci si trova.
E Mina Calvi, italiana d’origine ormai trapiantata, con suo sommo disappunto, in California, ne sa qualcosa. Anzi, ne sa fin troppo.
Da sempre impulsiva e incostante, si è ritrovata a vivere con una sorella iperprotettiva nell’idilliaca Orange County, dove l’Italia è solo un ricordo e un lavoro stabile che tenga conto del suo caratteraccio... un miraggio.
Ma tutti i problemi volano fuori dalla finestra nel momento in cui l’azienda di sua sorella viene scossa da un omicidio e la sua vita dalla rivelazione di un segreto di famiglia simile a un’atomica gettata in cantina.
Nemmeno l’aiuto e il conforto di Brian Starrs, il bel californiano dagli occhi azzurri, riescono a proteggerla dalla rete di tradimenti, slealtà e bugie in cui è rimasta incastrata e da cui emergere sembra impossibile.
LinguaItaliano
Data di uscita26 set 2021
ISBN9791220848664
Love Thy Sister
Autore

Maria Grazia Swan

Best selling author Maria Grazia Swan was born in Italy, but this rolling stone has definitely gathered no moss. She lived in Belgium, France, Germany, in beautiful Orange County, California where she raised her family, and is currently at home in Phoenix, Arizona--but stay tuned for weekly updates of Where in the World is Maria Grazia Swan?As a young girl, her vivid imagination predestined her to be a writer. She won her first literary award at the age of fourteen while living in Belgium. As a young woman Maria returned to Italy to design for--ooh-la-la--haute couture. Once in the U.S. and after years of concentrating on family, she tackled real estate. These days her time is devoted to her deepest passions: writing and helping people find happiness.Maria loves travel, opera, good books, hiking, and intelligent movies (if she can find one, that is). When asked about her idea of a perfect evening, she favors stimulating conversation, Northern Italian food and perfectly chilled Prosecco--but then, who doesn't?And then there is her latest attempt at conquering the world of readers-who-love-Italy-and-anything- Italian. Yes, she has a new series out thanks to Gemma Halliday Publishing. The Lella York’s series has released 2 books to date;Murder under the Italian Moon and the newest addition, Death Under the Venice Moon

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    Anteprima del libro

    Love Thy Sister - Maria Grazia Swan

    PROLOGO

    Doveva allontanarsi strisciando da quel dolore, alzarsi dal pavimento: schiumava dalla bocca e sentiva che il petto era sul punto di esplodere.

    «Una grande esplosione, seguita da una più piccola - altrettanto piacevole, ma non così potente» aveva sussurrato viscido quell’uomo la notte prima, nell’anonimato di un incontro consumato nella stanza buia di un motel.

    Cos’era quell’odore? Forse era cibo andato a male, lasciato lì dalle altre ragazze. Si concentrò sui suoni provenienti dal piano di sotto: da qualche parte nell’edificio sbatté una porta. Non le importava di chi la vedeva, aveva bisogno di aiuto.

    Aria, le serviva una boccata d’aria: si aggrappò al davanti del camice fino a strapparlo, e i lunghi capelli neri le caddero sui seni.

    «Una grande esplosione…»

    Era successo la notte precedente o solo poche ore prima?

    Alzò la testa di scatto: dalle scale arrivava un rumore di passi, sempre più forte, a ritmo cadenzato. I colpi si fecero più accentuati, più rapidi: no, era il suo battito. Ora tutto il suo corpo era un unico muscolo che martellava, e la pelle non riusciva più a contenerlo.

    Si sforzò di rimanere in piedi, traballando sui tacchi a spillo. La notte prima, la musica, i corpi avvinghiati…

    La caviglia le cedette: barcollò verso la cima delle scale e afferrò il corrimano, ma il piede le scivolò e cadde lungo la rampa.

    Di nuovo quel rumore. Il cuore, pensò, mentre il setto nasale si incrinava sul bordo del gradino di cemento. Strano, nessun dolore, nessuna resistenza.

    Il suo corpo che cadeva rallentò, mentre i pensieri le sfuggivano rapidi, volti di estranei supini su campi di battaglia coperti da lenzuola.

    E, cadendo, lei ricordò, fino a confondere l’ultimo volto con il primo, mi querido.

    Inspirò l’odore del proprio sangue e la polvere sul cemento: non avrebbe più ingaggiato guerre notturne per mantenere vivi i sogni al mattino, né si sarebbe nascosta in quell’oscurità intrisa di muffa, in attesa di un incontro segreto.

    Distese le dita, allentando la presa. I segni lasciati dalle unghie sui palmi incolori sembravano minuscole mezzelune, mentre il sangue lentamente impregnava i capelli neri che le coprivano il volto un tempo grazioso.

    Intorno a quell’ammasso disteso sul pianerottolo tutto era silenzioso ora, silenzioso e buio, eppure quella calma non nascondeva minacce. L’unico avere che si era lasciata alle spalle era quella scarpa rossa in cima alle scale.

    CAPITOLO 1

    Novembre 1989

    Sei anni. Dio mio . Erano trascorsi sei anni dalla morte dei suoi genitori.

    Da sotto la folta frangia castana Mina fissò uno spazio vuoto sulla parete. Un tempo là era appeso un calendario, un bel calendario con foto di fiori. Non semplici fiori, ma flora: sì, era quella la parola giusta, flora delle varie regioni degli Stati Uniti d’America. Sua madre aveva un calendario come quello, con fiori, anzi flora, delle varie regioni italiane.

    Quando Mina cercò di concentrarsi per rammentare che fiori fossero, i ricordi riaffiorarono di slancio, consumandole l’anima, così scosse la testa per liberarsi da quell’agitazione, poi tornò a fissare la parete. Che ne era stato del calendario della madre? Sapeva dove fosse la donna: giaceva accanto a suo padre, sotto spesse lastre di pietra.

    Mina chiuse gli occhi, e nella mente ricordò con chiarezza i fiori del calendario materno, ma non il volto della donna. Non era neanche la prima volta che cercava di rammentare il suo sorriso, il colore degli occhi, la tenerezza di quella mano che stringeva la sua, ma a ogni singolo tentativo riusciva solo a richiamare l’immagine della madre nella foto incorniciata sul comodino. Quel calendario comunque sarebbe stato vecchio di sei anni, praticamente inutile. Una lacrima le sfuggì dagli occhi, cadendole sulla mano: gettò un’occhiata su quel punto rotondo e umido, e poi lo asciugò rapidamente sui jeans. Quando era arrivata nella California del Sud, aveva da poco compiuto sedici anni e aveva una scarsa conoscenza della lingua inglese.

    Se potessero vedermi ora – ma chi poi? Non aveva mantenuto i contatti con nessuno dei suoi amici in Italia. Era meglio così in realtà. Aveva quasi ventitré anni e, come si dice solitamente, anche se era più grande non era molto più saggia. Era cambiata? Le unghie erano corte come sempre, i capelli ancora lunghi fino alle spalle. È vero, i jeans erano dei Levi’s originali, di quelli che non si trovavano facilmente in Italia. Indossava ancora la stessa taglia di vestiti, la XS, anche di torace, che schifo. A sentire Paola, sua sorella, forse il suo cervello stava al passo con il corpo – infantile anche quello, insomma.

    Era raggomitolata nella consumata poltrona di finta pelle e lasciò vagare uno sguardo assente nella reception della società di software della sorella: Mina odiava la vita in generale e quel posto in particolare. Un panorama davvero deprimente! Pareti anonime e mobili da ufficio di seconda mano. Paola definiva l’arredo della West Coast Software spartano, ma funzionale. Spartano ? A Mina quella parola evocava immagini di corpi lucenti e abilità atletiche di gloriosi eroi del passato: una sorta di Campionario Maschile del Monte Olimpo, non certo mobili malandati usciti dalle pagine del Penny Saver locale.

    Come poteva una persona svolgere le sue mansioni in un ambiente così deprimente? Era come essere un’ape in un negozio di fiori finti . Ma nessuno interpellava lei, la sorella piccola, per avere idee sull’arredamento: eppure le idee erano l’unica cosa che possedeva in abbondanza. Oltre ai sogni, sì, anche quelli.

    Ciò che odiava maggiormente di quel posto era il silenzio; il silenzio di tomba di quell’ufficio nei weekend. Le ricordava altri silenzi, altri luoghi: antichi terrori le strisciarono lungo la schiena, e istintivamente si girò a guardare dietro di sé. Nessun occhio puntato, nessuno sguardo minaccioso, solo silenzio.

    Il telefono squillò e Mina quasi cadde dalla poltroncina della reception. Fissò la luce rossa che lampeggiava sul centralino: era la linea di Michael Davies. Di sabato? Doveva trattarsi di Paola.

    Mina alzò la cornetta. «Pronto?»

    «Chi diavolo sei?»

    Riconobbe la voce di Michael.

    «Sono io, la tua cognata preferita.»

    «Vuoi dire l’unica. Perché diavolo rispondi al telefono? Dov’è Paola?» Lui diceva Paula .

    Pronunciare male il nome della consorte dovrebbe essere motivo di divorzio, pensò Mina - come se a qualcuno potesse interessare la sua opinione.

    «A casa a letto. Per via della schiena, come al solito. Mi ha mandato a prendere alcuni documenti.»

    «Dal mio ufficio?»

    Percepì timore nella voce dell’uomo. Perché ? «Non sono nel tuo ufficio, tranquillo. Quando torni?»

    «Stasera. E non mi serve un passaggio. Dillo a Paola.»

    «Diglielo tu.» Perché era così sgradevole con il cognato? «Hai il raffreddore?» La sua voce sembrava roca.

    «Di che ti meravigli? È un altro novembre del cazzo in una Chicago del cazzo.» Poi Michael riappese senza salutare.

    Che stronzo. Mina non riusciva a capire come potesse sua sorella continuare ad amarlo. Non si rivolgevano quasi la parola, e meno Paola parlava, più Michael imprecava. Le due cose erano in qualche modo collegate? E perché Michael stava andando tanto spesso nella città del vento? Per affari o per piacere? Questo avrebbe spiegato perché non voleva essere prelevato all’aeroporto: probabilmente a Chicago lo aveva accompagnato Rachel ruba-mariti Fernandez.

    Che ora era comunque? Alla parete grigia era appeso un orologio orrendo, che oltretutto la irritava con quel ronzio elettronico, simile a un nido di vespe. Dodici e trenta. Da quanto stava fantasticando a occhi aperti?

    Sua sorella doveva essere già furiosa. Mina riusciva quasi a sentire le unghie perfettamente curate di Paola ticchettare sul comodino, un colpetto per ogni minuto di assenza di Mina.

    Lo stomaco le gorgogliò, ricordandole che aveva saltato la colazione, e posticipato un pranzo, solo per sbrigare delle commissioni per sua sorella: era meglio darsi una mossa. Ruotò sulla sedia: vediamo, Paola aveva detto che la cartellina era nella sua vaschetta della posta in arrivo, sullo schedario dietro la scrivania.

    Sopra la cartellina bianca c’era qualcosa che luccicava: l’incarto dorato di un boero alla ciliegia ricoperto di cioccolato, il dolcetto preferito di Paola. E di Mina. Michael doveva averlo lasciato lì prima di partire per Chicago. Uno dei loro stupidi rituali da innamorati, forse l’unico rimasto ormai. Al diavolo Paola, Michael e i loro giochetti d’amore: sentendo l’acquolina in bocca, Mina lo scartò e si avvicinò quel cioccolatino fondente alle labbra.

    Da qualche parte in magazzino sentì sbattere una porta e sussultò, spostando la sedia che andò a colpire e rovesciare il cestino colmo di rifiuti spargendone il contenuto sotto la scrivania.

    « Maledizione! » Sei anni in America e ancora reagiva in italiano a qualunque evento inaspettato. Mina appoggiò il cioccolatino e strisciò sotto la scrivania per raccogliere i rifiuti. Per fortuna Paola non poteva vederla piegata là sotto a raccogliere l’immondizia: non era proprio un comportamento da signora.

    Dal magazzino arrivarono dei rumori, rapidi e secchi, come di tacchi che battevano sulle mattonelle del pavimento. Il suono le ricordò un film notturno per la tv, dove si udivano dei passi sinistri un attimo prima che l’assassino con l’ascia sorprendesse l’ingenua eroina.

    Mina ordinò al cuore di fermare la sua tarantella improvvisata. Che stupida! Probabilmente era Elena, venuta come ogni sabato a pulire l’ufficio. Poi qualcuno entrò nella reception.

    «Ehi, Elena? Sono io, Mina. Sono sotto la scrivania.»

    Nessuna risposta, nessun rumore successivo di passi. Solo silenzio. Ma nei pochi centimetri tra il pannello della scrivania e il pavimento Mina riuscì a intravedere un paio di appuntite décolleté di vernice rossa.

    Sollevata, Mina fischiò. « Mamma mia, scarpe da ballo per pulire l’ufficio? Scommetto che ieri sera non sei tornata a casa.»

    Le scarpe si mossero sulle mattonelle con un ritmo intermittente.

    «Ehi, aspetta, stavo scherzando.» Mina strisciò fuori dalla scrivania, battendo la testa sullo spigolo superiore. «Ahi!» Si alzò, strofinandosi il capo. L’ufficio era deserto.

    «D’accordo, vado a casa.» Mina afferrò la borsa. «Smettila di nasconderti, Elena, io me ne vado, il resto puoi raccoglierlo tu, io ne ho abbastanza.» Nessuna risposta. «Chiedi a Paco di chiudere a chiave quando hai finito. È sul retro a fare l’inventario. Ciao .»

    A metà della scrivania lo stomaco le gorgogliò rumoroso. Cercò la ciliegia ricoperta di cioccolato: sparita.

    «Va bene, Elena, dove sei? E dov’è il mio cioccolatino?»

    La porta del bagno si aprì e uscì Elena. Come Mina era poco più che ventenne, minuta e snella: i suoi capelli neri erano corti e ricci, mentre Mina li aveva castani e lunghi sulle spalle.

    « Buenos dias , Mina.»

    «Hai preso il cioccolatino che era sulla scrivania?»

    «Cioccolatino? No comprendo. »

    «Andiamo, dacci un taglio, sappiamo entrambe che tu comprendo .» Mina abbassò lo sguardo sui piedi di Elena. «Ehi, dove sono finite le tue scarpe rosse?»

    «No cioccolatino, no scarpe rosse.» Elena si batté sulla fronte. «Forse Mina loca oggi.»

    Mina fissò le Reebok bianche di Elena e scosse la testa. «Forse lo sono. Oh be’, questa loca va a casa.» Si risistemò la borsa in spalla e puntò un dito verso Elena. «Scommetto che il tuo alito odora di cioccolato.»

    E con la cartellina di Paola sottobraccio uscì dall’ingresso principale.

    Prima di arrivare in California Mina si era immaginata la West Coast Software come un alto edificio di vetro scintillante, con ascensori, pavimenti di marmo e ogni genere di aggeggi ultramoderni che aprivano e chiudevano le porte, e salutavano i visitatori – la perfezione insomma. Un’altra fantasia nata dai troppi film americani.

    Invece, il tozzo edificio a un piano della West Coast Software era grigio e poco attraente, all’esterno come all’interno. Difficile pensare che la sorella con le calze di seta e il filo di perle lavorasse lì, eppure Paola possedeva e gestiva l’intera azienda.

    Mina salì sul suo Maggiolino cabrio giallo, uscì dal parcheggio vuoto del complesso e imboccò una quasi deserta Harbor Boulevard. Quel breve tratto di strada in effetti era meno trafficato nei weekend, mentre dieci miglia a nord autobus e minivan con targhe di ogni Stato dell’Unione riempivano fino al limite il parcheggio di Disneyland.

    Qui, parcheggi aziendali simili a quello occupato dalla società di sua sorella si trovavano su entrambi i lati di quella strada ampia. Gran parte degli edifici erano stati costruiti molto prima che il piccolo Orange County Airport diventasse lo sfarzoso John Wayne Airport.

    «L’affitto è giusto e c’è abbondanza di tute blu» aveva detto Paola.

    Tute blu, colletti bianchi, il tipo di americanismi che mandavano Mina fuori di testa. Come se si potessero classificare i lavoratori in base ai vestiti che portano.

    Oltrepassando i tre piani del Marriott Suites, Mina pensò a un altro edificio di tre piani, quello in cui aveva vissuto i primi sedici anni della sua vita: la casa che il bis-bisnonno aveva costruito pietra su pietra ai piedi delle Alpi. Mina amava vantarsi con i suoi amici americani della casa a tre piani che aveva lasciato, non specificando mai ovviamente che era costituita da tre stanze quadrate impilate una sull’altra. Il suo bis-bisnonno non era certamente un architetto, ma le pareti in pietra di quella casa le avevano sempre trasmesso un senso di stabilità e di continuità. Persino dopo la morte dei suoi genitori, quando era stata consapevole di doversene andare, aveva considerato quella casa come il legame con il suo passato, le sue radici.

    Quella costruzione aveva mura esterne così spesse che le finestre creavano una nicchia abbastanza ampia da permetterle di sedersi. Nei mesi estivi, a tarda sera, Mina si accoccolava sul davanzale della sua camera a sognare e ad aspettare che la brezza notturna arrivasse a spazzare via l’afa , quella calda aria umida che ricopriva la valle da metà luglio a settembre.

    Dal suo trespolo al secondo piano, nel silenzio della notte, i dintorni assumevano un aspetto totalmente nuovo. Gli alti alberi diventavano degli Ulisse, degli Ercole, sentinelle appostate in attesa degli eserciti di lucciole, minuscoli soldati che ne invadevano i rami. E il glicine dolcemente profumato si trasformava nella capigliatura di Medusa, che si allungava strisciando verso la finestra di Mina.

    Ogni tanto un motorino disturbava quella pace notturna, un ragazzo che con il suo rumoroso ciclomotore rientrava da un appuntamento a tarda ora. Poi ritornava la calma. Calma, non silenzio. Le mancava tutto della sua terra, e nel profondo sentì nascere la tristezza, accompagnata dalla nostalgia e dai ricordi.

    All’ultimo incrocio prima della superstrada, Mina rallentò. Appena in tempo, si potrebbe dire: ignorando il semaforo che stava scattando, una Thunderbird rossa girò a destra sulla Harbor con un forte stridio di pneumatici. Wow, c’era mancato davvero poco! Scrollò le spalle e allentò la tensione delle mani sul volante. Alcune persone amano volare a bassa quota: Mina seguì con lo sguardo il veicolo che si allontanava insieme al suo conducente, una donna con lunghi e aggrovigliati… Un attimo, quelli sembravano i capelli scuri di Paola.

    Ma no, Paola era a letto con la schiena messa male. Era troppo tardi per tentare di vedere la targa, eppure quante Thunderbird rosse…

    Il semaforo scattò di nuovo, e Mina imboccò la San Diego Freeway in direzione sud, verso casa.

    Parcheggiò nella tranquilla Mission Viejo e si diresse subito alla cassetta della posta, ammucchiando sopra alla cartellina riviste, pubblicità e posta personale: magari c’era anche una lettera di Patrick. Infine, spalancò la porta sul retro. «Paola, sono tornata. Ho i tuoi documenti.»

    La macchina automatica per il ghiaccio era l’unico rumore che si sentiva. Con le braccia sempre cariche di posta, Mina salì le scale per raggiungere la camera della sorella.

    «Paola, hai avuto notizie da Michael? Ha chiamato in ufficio.»

    Le doppie porte della camera di Paola erano aperte rivelando l’enorme letto rifatto con cura. Nell’aria aleggiava il profumo preferito della sorella, Boucheron . Mina lasciò cadere il carico di posta sul copriletto moiré di seta bianca e si avvicinò alla porta chiusa del bagno.

    «Paola, sei lì dentro?»

    Aprì la porta: anche lì quella fragranza floreale francese le riempì le narici. Le bottiglie di profumo color cobalto, tutte disposte con cura, erano l’unica nota vivace sul ripiano di marmo bianco: sembravano enormi anelli creati per una mano gigante, e dal lucernario in alto il timido sole di novembre ne incendiava i tappi dorati. Ma il bagno era deserto.

    Mina corse di sotto in garage. La Thunderbird rossa non c’era, mentre il muso anteriore della lucida Corvette nera di Michael sembrava schernirla.

    Diede un calcio a una delle ruote.

    « Maledizione! » Doveva smetterla di imprecare, lo aveva promesso a Paola. Al diavolo le promesse. Sbatté la porta del garage e tornò in cucina per controllare il taccuino vicino al telefono: nessun messaggio, nessun biglietto attaccato alla porta del frigorifero. Non era tipico di Paola.

    Forse Michael aveva chiamato e lei aveva dovuto sbrigare una commissione per lui. O forse era andata dal dottore. Mmh, in entrambi i casi avrebbe lasciato un biglietto.

    Lo stomaco gorgogliò ricordando a Mina che non aveva pranzato, spingendola a spalmare rapidamente del burro di arachidi su una fetta di pane. Be’, Paola sarebbe ricomparsa. Meglio se con una buona scusa.

    Come sempre, quando l’odore delle arachidi le raggiungeva il naso, Mina si chiese come aveva fatto a vivere i primi sedici anni della sua vita senza pane e burro di arachidi. Diede un morso al sandwich e si appoggiò al bancone della cucina con un sospiro di piacere. E il piacere le ricordò Patrick.

    Salì di corsa nella sua stanza e con il gomito spostò i libri dal comodino per fare spazio al suo pranzo, poi tornò nella stanza di Paola e frugò tra la posta. Con un piccolo grido di trionfo si portò in camera la lunga busta color lavanda di Patrick, con tanto di francobollo britannico.

    La calligrafia familiare le fece dimenticare tutto il resto.

    «…Le ore sulla spiaggia sono finite. C’era un oceano? La sabbia ci sosteneva? Io ricordo solo te…»

    Si sdraiò sul letto con gli occhi chiusi, lasciando scivolare la lettera sulle gambe. Patrick… Le sue parole glielo facevano sentire vicino, al punto che poteva quasi percepire le sue dita accarezzarla e riscaldarla nell’intimo. Sentiva la mancanza delle sue mani, del profumo della sua pelle che le rimaneva sul corpo dopo…

    «Mina, sono tornata!»

    «Dove sei stata? Sono in camera mia, vieni a parlare con me.»

    La sorella si fermò sulla soglia, probabilmente per esaminare il livello di disordine. Incorniciata dalla porta, ricordò a Mina un affascinante miscuglio di donne famose: la bellezza di una giovane Elizabeth Taylor, la vitalità e la cura di sé dell’intramontabile Cher.

    Alta e perfetta, ma non molto felice - a giudicare dall’espressione aggrottata.

    Mina rimase in attesa: era il momento del discorsetto sull’ordine, di quello sulla disciplina, o di quello sull’assunzione della responsabilità della propria vita? Poteva quasi recitarli a memoria. Tutte le sorelle maggiori predicavano tanto, o solo quelle nate in Italia?

    «Se non altro nessuno ti

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