Cattolici di opposizione negli anni del fascismo: Alcide De Gasperi e Stefano Jacini fra politica e cultura (1923-1943)
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Federico Mazzei è ricercatore a tempo determinato (Rtda) di Storia contemporanea presso il Dipartimento di Lettere, Filosofia, Comunicazione dell’Università degli Studi di Bergamo. Con le edizioni Studium ha pubblicato, nel 2015, Cattolicesimo liberale e «religione della libertà». Stefano Jacini di fronte a Benedetto Croce.
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Anteprima del libro
Cattolici di opposizione negli anni del fascismo - Federico Mazzei
Federico Mazzei
Cattolici di opposizione negli anni del fascismo
Alcide De Gasperi e Stefano Jacini fra politica e cultura (1923-1943)
Tutti i volumi pubblicati nelle collane dell’editrice Studium Cultura
ed Universale
sono sottoposti a doppio referaggio cieco. La documentazione resta agli atti. Per consulenze specifiche, ci si avvale anche di professori esterni al Comitato scientifico, consultabile all’indirizzo web http://www.edizionistudium.it/content/comitato-scientifico-0.
Realizzato con il contributo del Dipartimento di Lettere, Filosofia,
Comunicazione dell’Università degli Studi di Bergamo.
Copyright © 2020 by Edizioni Studium - Roma
ISSN della collana Cultura 2612-2774
ISBN 978-88-3825-146-7
www.edizionistudium.it
ISBN: 9788838251467
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Indice dei contenuti
AVVERTENZA
ABBREVIAZIONI
LA LIBERTÀ COME CONQUISTA CULTURALE
1. «In un tempo così grave, del quale non si vede la fine»: De Gasperi e Jacini nella crisi dello Stato liberale
2. «Dappertutto reticolati, sbarramenti, muraglioni»: la nascita dell’amicizia dalla detenzione di De Gasperi ai lavori di traduzione
3. Di fronte alla Conciliazione del 1929
4. Libertà e liberalismo: consensi e dissensi sulla Storia d’Europa di Croce
5. Educazione fascista, opposizione ecclesiastica e «liberalismo cattolico»: la collaborazione a «Hochland»
«COSE DI STUDIO»: LA STORIOGRAFIA RISORGIMENTALE DI JACINI E LA REVISIONE DEGASPERIANA
1. «Da cattolico e da liberale»: il confronto preparatorio con De Gasperi
2. Il ritorno al Risorgimento negli interventi storici di Jacini su «Studium»
3. Il volume del 1938: La crisi religiosa del Risorgimento e i suoi recensori
4. La biografia di un «riformatore toscano dell’epoca del Risorgimento»: Piero Guicciardini
ANTIFASCISTI IN VATICANO
1. De Gasperi bibliotecario alla Vaticana
2. L’uscita dall’anonimato: l’Esposizione mondiale della stampa cattolica e il II Congresso internazionale dei giornalisti cattolici
3. Le amicizie liberali e la Chiesa «ultimo rifugio del liberalismo»
4. Da Pio XI a Pio XII
5. Ex-modernisti nella Roma vaticana
VERSO IL POSTFASCISMO: DALLA STORIA ALLA POLITICA
1. Un «lavoro contemporaneo»: la genesi degasperiana della Storia del Partito Popolare Italiano di Jacini
2. Una polemica storiografica fuori bersaglio: la lettera-recensione di De Gasperi del 1944
3. Il bilancio del popolarismo: eredità storica, autocritica e revisione politica
4. Fra Roma e Milano: la nascita della Democrazia Cristiana
5. La caduta del fascismo e i «quarantacinque giorni»
CARTEGGIO ALCIDE DE GASPERI-STEFANO JACINI (1923-1943)
NOTA EDITORIALE
1. ALCIDE DE GASPERI A STEFANO JACINI
2. ALCIDE DE GASPERI A STEFANO JACINI
3. ALCIDE DE GASPERI A STEFANO JACINI
4. ALCIDE DE GASPERI A STEFANO JACINI
5. ALCIDE DE GASPERI A STEFANO JACINI1
6. ALCIDE DE GASPERI A STEFANO JACINI
7. ALCIDE DE GASPERI A STEFANO JACINI
8. ALCIDE DE GASPERI A STEFANO JACINI
9. ALCIDE DE GASPERI A STEFANO JACINI
10. ALCIDE DE GASPERI A STEFANO JACINI
11. ALCIDE DE GASPERI A STEFANO JACINI
12. ALCIDE DE GASPERI A STEFANO JACINI1
13. ALCIDE DE GASPERI A STEFANO JACINI1
14. ALCIDE DE GASPERI A STEFANO JACINI
15. ALCIDE DE GASPERI A STEFANO JACINI
16. ALCIDE DE GASPERI A STEFANO JACINI
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18. ALCIDE DE GASPERI A STEFANO JACINI
19. ALCIDE DE GASPERI A STEFANO JACINI
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21. ALCIDE DE GASPERI A STEFANO JACINI
22. ALCIDE DE GASPERI A STEFANO JACINI
23. ALCIDE DE GASPERI A STEFANO JACINI
24. ALCIDE DE GASPERI A STEFANO JACINI
25. ALCIDE DE GASPERI A STEFANO JACINI
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27. ALCIDE DE GASPERI A STEFANO JACINI
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29. ALCIDE DE GASPERI A STEFANO JACINI
30. ALCIDE DE GASPERI A STEFANO JACINI
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32. ALCIDE DE GASPERI A STEFANO JACINI
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43. ALCIDE DE GASPERI A STEFANO JACINI
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261. STEFANO JACINI AD ALCIDE DE GASPERI
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273. ALCIDE DE GASPERI A STEFANO JACINI
274. ALCIDE DE GASPERI A STEFANO JACINI
275. STEFANO JACINI AD ALCIDE DE GASPERI
276. STEFANO JACINI AD ALCIDE DE GASPERI
277. ALCIDE DE GASPERI A STEFANO JACINI
278. STEFANO JACINI AD ALCIDE DE GASPERI
INDICE DEI NOMI*
AVVERTENZA
Questo volume nasce dal confronto con un problema storico, al quale cerca di fornire un proprio contributo interpretativo e documentario. Si tratta del «lungo viaggio» compiuto, durante il ventennio fascista, dal gruppo dirigente «popolare» che era stato protagonista dell’opposizione cattolica al fascismo nel tramonto dello Stato liberale. La sua sconfitta politica e la soppressione del PPI non interruppero, infatti, un percorso di maturazione che proseguì culturalmente negli anni del regime con il recupero di motivi ideali che erano rimasti, fino al crollo delle istituzioni liberali, latenti (se non del tutto assenti) nella «prima generazione» novecentesca del cattolicesimo politico italiano. Il fulcro di questo ripensamento fu la rinnovata consapevolezza del nesso fra cattolicesimo e libertà politica, di cui l’antifascismo (ormai ex) popolare continuò ad approfondire, non soltanto in esilio ma anche in patria, gli antecedenti storici e i presupposti culturali che avrebbero informato la futura elaborazione programmatica della DC postfascista. A quegli ideali di libertà una nuova autocoscienza politica non avrebbe mancato di riconnettere, nonostante la Conciliazione concordataria con lo Stato fascista, anche il ruolo storico del papato e dell’istituzione ecclesiastica, che dagli anni Trenta sarebbero tornati a rivitalizzarli con una più netta reazione religiosa contro i totalitarismi dell’epoca.
È questo lo sfondo problematico nel quale si colloca il rapporto di amicizia e collaborazione, politica e culturale, fra due assoluti protagonisti del cattolicesimo antifascista proveniente dal PPI come Alcide De Gasperi e Stefano Jacini. Si è qui cercato di ricostruirlo senza limitarsi alla sfera della solidarietà personale (certo significativa e spesso prioritaria, soprattutto per De Gasperi, nel tormentato vissuto di quegli anni), ma ripercorrendone la parabola di opposizione attraverso il confronto dialogico che entrambi cominciarono a intrecciare nel comune «esilio in patria». Lo si è fatto, dal punto di vista documentario, avvalendosi di numerose corrispondenze epistolari, ma soprattutto di una fonte privilegiata come il loro carteggio del ventennio: quello con Jacini costituisce, infatti, il più continuo e consistente fra gli scambi epistolari del De Gasperi antifascista e bibliotecario vaticano, ma soltanto in minima parte esso risulta noto agli studiosi e ai biografi degasperiani, che si sono limitati a utilizzarne le poche lettere (già, peraltro, di notevole spessore storiografico come le più note sulla Storia d’Europa di Croce) finora pubblicate.
Da qui anche la scelta di raccogliere, nella seconda parte di questo libro, l’edizione critica del carteggio fra De Gasperi e Jacini dal 1923 al 1943, quasi interamente composto dalle lettere degasperiane e tale da integrare – in quella periodizzazione – le annotazioni dal 1930 al 1943 recentemente edite come Diario di De Gasperi. Restano invece escluse, dalla sezione epistolare del volume, le lettere relative alla fase successiva del carteggio, comprese fra il 1944 e la morte di Jacini nel 1952, che potranno costituire la base documentaria di un’ulteriore pubblicazione dedicata all’evoluzione del loro rapporto politico nel secondo dopoguerra. Alla radicale diversità del contesto storico si sarebbe aggiunta, allora, anche la perdita di affiatamento nella loro amicizia, imputabile non soltanto al superiore ruolo pubblico assunto dopo il 1945 dal De Gasperi presidente del Consiglio, ma anche alle divergenze e forse ai malintesi che subentrarono a incrinarla in uno sfondo epocale e biografico nettamente distante dal precedente.
Al termine di questo lavoro, desidero ringraziare il conte Stefano Jacini per avermi consentito di consultare l’Archivio Jacini e la trascrizione del carteggio De Gasperi-Jacini; la dott. Rosellina Gosi per le preziose indicazioni e per i riscontri relativi all’Archivio Jacini; la dott.ssa Emanuela Zanesi, già direttrice dell’Archivio di Stato di Cremona, presso il quale l’Archivio Jacini è stato depositato nel 2016 e recentemente riordinato; il dott. Armando Tarullo, vicepresidente della Fondazione Alcide De Gasperi di Roma, e il dott. Andrea Becherucci per l’Archivio De Gasperi conservato presso gli Historical Archives of the European Union di Firenze; la dott.ssa Elena Gretter per il Fondo Alcide Degasperi della Biblioteca Comunale di Borgo Valsugana. Ringrazio, inoltre, il prof. Giuseppe Tognon, presidente dell’Edizione Nazionale dell’Epistolario Alcide De Gasperi.
A Maria Romana De Gasperi rivolgo un particolare ringraziamento per la liberalità con la quale ha voluto concedermi, anche in questa occasione, la possibilità di consultare a più riprese l’Archivio del padre.
Al prof. Pier Luigi Ballini sono grato per avere condiviso e sostenuto questa ricerca. Il mio pensiero riconoscente va al prof. Roberto Pertici, che l’ha accompagnata con i suoi insegnamenti.
ABBREVIAZIONI
Archivi
ADG Historical Archives of the European Union, Firenze
Fondo Alcide De Gasperi
AFBBC Archivio della Fondazione Biblioteca Benedetto Croce, Napoli
Carteggi di Benedetto Croce
ASJ Archivio di Stato di Cremona, Archivio Jacini [1]
Titolo I: Famiglia Jacini, Gruppo 32°: Stefano di G.B.
di Stefano (1886-1952)
AEJ Archivio di Stato di Cremona, Archivio Jacini
Titolo I: Famiglia Jacini, Gruppo 33°: Contessa
Elisabetta Jacini Borromeo
AFM Archivio per la Storia del Movimento Sociale Cattolico in
Italia, Milano
Fondo Filippo Meda
AMM Archivio Massimiliano Majnoni d’Intignano, Marti (Monto-
poli in Val d’Arno, Pisa)
AMB Fondazione Civiltà Bresciana, Brescia
Archivio Mario Bendiscioli
ASCD, ISML Archivio Storico della Camera dei Deputati, Roma, Archivi
dell’Istituto per la Storia del Movimento Liberale
Fondo Ercole Camurani
ASILS Archivio Storico Istituto Luigi Sturzo, Roma
Fondo Guido Gonella
Fondo Luigi Sturzo
Fondo Giuseppe Spataro
BAM Veneranda Biblioteca Ambrosiana, Milano
Archivio Alessandro Casati
Archivio Tommaso Gallarati Scotti
BCBV Biblioteca Comunale di Borgo Valsugana
Fondo Alcide Degasperi
PM Historical Archives of the European Union, Firenze
Fondo Piero Malvestiti
Opere
ADG, SDP, I A. De Gasperi, Scritti e discorsi politici, Edizione critica, vol. I, Alcide De Gasperi dal Partito Popolare Italiano all’esilio interno, a cura di E. Tonezzer, M. Bigaran, M. Guiotto, con un saggio introduttivo di P. Pombeni, Provincia Autonoma di Trento, Fondazione Bruno Kessler, il Mulino, Bologna 2006 (2 tomi)
ADG, SDP, II A. De Gasperi, Scritti e discorsi politici, Edizione critica, vol. II, Alcide De Gasperi dal Partito Popolare Italiano all’esilio interno, a cura di M. Bigaran e M. Cau, con un saggio introduttivo di G. Vecchio, Provincia Autonoma di Trento, Fondazione Bruno Kessler, il Mulino, Bologna 2007 (3 tomi)
ADG, SDP, III A. De Gasperi, Scritti e discorsi politici, Edizione critica, vol. III, Alcide De Gasperi e la fondazione della democrazia italiana 1943-1948, a cura di V. Capperucci e S. Lorenzini, con un saggio introduttivo di G. Formigoni, Provincia Autonoma di Trento, Fondazione Bruno Kessler, il Mulino, Bologna 2008 (2 tomi)
ADG, SDP, IV A. De Gasperi, Scritti e discorsi politici, Edizione critica, vol. IV, Alcide De Gasperi e la stabilizzazione della Repubblica, 1948-1954, a cura di B. Taverni e S. Lorenzini, con un saggio di P.L. Ballini, Provincia Autonoma di Trento, Fondazione Bruno Kessler, il Mulino, Bologna 2009 (3 tomi)
DGS De Gasperi scrive. Corrispondenza con capi di Stato, cardinali, uomini politici, giornalisti, diplomatici, a cura di M.R. De Gasperi, Morcelliana, Brescia 1974 (2 voll.)
Gosi (1984) Lettere di Alcide De Gasperi a Stefano Jacini (1923-1931), a cura di R. Gosi, in «Storia in Lombardia», III, n. 1, febbraio 1984, pp. 145-184
AP Atti Parlamentari
b. busta
cap. capitolo
cart. cartella
doc. documento
fasc. fascicolo
lett. lettera
n.s. nuova serie
par. paragrafo
rec. recensione
s. serie
s.a. senza anno
s.d. senza data
s.e. senza editore
s.l. senza luogo
sc. scatola
sez. sezione
sottofasc. sottofascicolo
ss. sottoserie
trad. traduzione
trad. it. traduzione italiana
[1] Le segnature dei documenti provenienti dall’Archivio Jacini (Titolo I: Famiglia Jacini) fanno riferimento alla revisione dell’inventario ultimata nel 2019 dalla dott.ssa Silvia Rigato, che ha unificato in buste progressive la fascicolazione dei vari Fondi personali e, al loro interno, ha conservato le segnature risalenti alla privata collocazione di Casalbuttano (Cremona).
LA LIBERTÀ COME CONQUISTA CULTURALE
1. «In un tempo così grave, del quale non si vede la fine»: De Gasperi e Jacini nella crisi dello Stato liberale
Appena appresa la notizia della morte di Stefano Jacini, scomparso a Milano il 31 maggio 1952, il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi affidò al quotidiano democristiano «Il Popolo» la sua commemorazione giornalistica, riservandosi di riprendere in una successiva «tregua» politica «la penna e la parola per pagare un debito di riconoscenza alla squisita nobiltà dell’amico, fedele nella buona e sopra tutto nell’avversa fortuna»:
Oggi solo un’espressione di profondo cordoglio per questa grave perdita inattesa, un senso di viva simpatia per la famiglia desolata ed amica, un pensiero di riconoscenza per l’uomo nobile, libero e coraggioso che mi dimostrò amicizia quando altri, per necessità o debolezza si ritrassero da una solidarietà che poteva riuscire pericolosa; né questa solidarietà Egli dimostrò solo per il legame di una lunga e provata amicizia, ma per un senso di fierezza e di generosità che Egli praticò verso tutti coloro che soffrivano per aver scelta la libertà [1] .
Il promesso profilo biografico di Jacini non avrebbe poi visto la luce, ma in quel necrologio De Gasperi enucleava in nuce il motivo di fondo al quale avrebbe istintivamente pensato di dedicarlo: ben oltre il senso di gratitudine e la rievocazione dell’amicizia personale, egli avrebbe riconosciuto nella figura di Jacini «la prova che un cristiano e un patriota trova in momenti di crisi nella sua stessa cultura spirituale la ragione di quelle virtù civili che sono necessarie per battersi nell’agitata vita moderna in favore degl’ideali d’una cittadinanza piena democraticamente ottenuta e liberamente riconosciuta» [2] . Si potrebbe rintracciare, fra le righe di questa commemorazione, una significativa analogia con quella che resta la più nota testimonianza autobiografica dell’ultimo De Gasperi: una rilettura non dissimile, infatti, egli avrebbe privatamente fornito del proprio percorso culturale e politico a chi, come Mario Vinciguerra, nel novembre 1950 gli si era amichevolmente offerto quale biografo e ne aveva ricevuto l’invito – destinato poi anch’esso a restare incompiuto – a «provare come un cattolico ortodosso e credente attraverso l’illuminazione dell’esperienza altrui e quella propria divenne politicamente umanista e ricettivo di ogni cosa buona e di ogni fede sincera nella libertàe tolleranza civile» [3] .
È in questa comune parabola che si inscrive e assume uno specifico interesse storiografico lo scambio epistolare intercorso nel ventennio fascista fra De Gasperi e Jacini: esso resta non soltanto il naturale (se non l’unico, data l’assenza di altri contributi memorialistici) riscontro documentario della loro «lunga e provata amicizia», ma anche una fonte privilegiata per ripercorrere quel ritorno del cattolicesimo politico ai valori di libertà che De Gasperi poneva al centro del ricordo dell’amico e della propria autobiografia ricapitolata a Vinciguerra. La «lunga vigilia» del fascismo fu, infatti, il momento nel quale l’approfondimento della tradizione liberal-democratica giunse a silenziosa ma piena maturazione nella biografia degasperiana e diede origine a un autentico mutamento di paradigma culturale, spinto in quella direzione da letture storiche, studi personali e autocritiche politiche [4] , ma anche dal riavvicinamento del futuro presidente del Consiglio a non pochi liberali antifascisti del suo tempo [5] . A ognuna di queste tappe dell’«acculturazione liberale» di De Gasperi, il legame amicale con Jacini diede un apporto come pochi altri decisivo: nell’«esilio in patria» che attraversarono da oppositori antifascisti, entrambi compensarono la forzata inattività politica con il raccoglimento culturale che ne alimentò i lavori e dialoghi di studio fino alla ripresa ideologico-programmatica, di cui condivisero l’iniziativa nell’immediata vigilia del postfascismo.
Il sodalizio documentato dall’epistolario sarebbe maturato, tuttavia, lasciandosi alle spalle (senza mai del tutto superarla) la distanza che separava i retroterra originariamente diseguali dei due corrispondenti. A scavarla sarebbe stata, innanzitutto, l’estrazione familiare del conte Jacini, nipote (perciò ribattezzato « junior») dell’omonimo ministro lombardo dei governi Cavour, La Marmora e Ricasoli, senatore del Regno, presidente e relatore della prima Inchiesta agraria, che nella Destra postcavouriana aveva rappresentato l’alternativa di un «conservatorismo nazionale» aperto a soluzioni conciliative con il mondo cattolico confinato nell’astensionismo dal non expedit vaticano. Di questa ingombrante eredità politica, alla quale avrebbe dedicato la biografia del nonno edita in due volumi da Laterza nel 1926 [6] , Jacini junior aveva cercato di approfondire i presupposti religiosi e culturali nell’esperienza giovanile del modernismo: si era formato come collaboratore della rivista milanese «Il Rinnovamento», consolidandovi l’interesse per le questioni teologico-spirituali e una critica «libertà di pensiero» nei confronti dell’autorità ecclesiastica che, alla fine del 1907, aveva condannato quella pubblicazione all’indomani dell’enciclica di Pio X Pascendi Dominici Gregis [7] . Nella sua parabola postmodernista, Jacini avrebbe continuato a incarnare la coscienza religiosa e la «fedeltà risorgimentale» [8] dell’ultimo cattolicesimo liberale radicato nell’Ottocento, ma con tratti di originalità che lo avrebbero distanzato dal retaggio più conservatore ed elitario di quella tradizione: a differenza degli altri collaboratori del «Rinnovamento», sarebbe uscito dai confini del liberalismo politico per approdare sulle sponde del cattolicesimo democratico novecentesco con una spiccata sensibilità «nazionale e costituzionale» [9] .
Questa immedesimazione con la tradizione cattolico-liberale, che per Jacini era la risultante di un’appartenenza familiare e ambientale, per De Gasperi fu invece l’esito di una conversione del tutto personale, indotta dalle esperienze politiche che gli avrebbero fatto progressivamente superare l’avversione al liberalismo sperimentata nella sua giovinezza trentina [10] . Quella «liberale» era una tradizione alla quale il primo De Gasperi era rimasto biograficamente estraneo: la sua formazione si era svolta nell’alveo del cattolicesimo asburgico di inizio Novecento, nel quale erano state vive le ascendenze del cattolicesimo sociale nella sua versione «leonina», corporativistica e intransigente, contrapposta alle dottrine e alle prassi del liberalismo «borghese», che lo stesso De Gasperi aveva combattuto come estrazione socio-culturale della classe dirigente di cui il movimento cattolico trentino cercava di mettere in discussione il primato [11] . Il recupero dell’eredità liberale come fonte delle libertà politiche e civili, a cui gli stessi cattolici dovevano la loro affermazione nel moderno spazio pubblico, sarebbe invece maturata da un graduale e posteriore ripensamento degasperiano, laicamente politico ed estraneo agli echi del riformismo religioso, di cui divenne momento cruciale la crisi del primo dopoguerra che travolse lo Stato liberale in Italia e rese evidente l’indispensabilità delle libere istituzioni per la sopravvivenza di un «cattolicesimo politico» autonomo dalla Chiesa-istituzione.
Quello postbellico, appunto, fu lo sfondo storico nel quale le vite parallele di De Gasperi e di Jacini cominciarono a incrociarsi in una nuova formazione politica d’ispirazione cattolica, ma democratica e «aconfessionale», come il PPI fondato il 18 gennaio 1919 da don Luigi Sturzo, che segnò per entrambi l’ingresso nella vita pubblica italiana e procurò loro le prime occasioni d’incontro ravvicinato [12] . La prima in assoluto fu il I Congresso Nazionale del partito, tenutosi a Bologna il 14-16 giugno 1919 e presieduto, per volontà dello stesso Sturzo, dal De Gasperi delegato del Trentino «redento»: nella sua designazione Jacini avrebbe intravisto «un magnifico risultato», che riaffermava simbolicamente «il carattere patriottico del nuovo partito, la accettazione della guerra e la valorizzazione della vittoria» [13] . Due anni dopo, fra l’agosto e il settembre 1921, Jacini e De Gasperi (appena eletto deputato alla Camera nelle elezioni del 15 maggio precedente) si trovarono a far parte della delegazione del PPI che accompagnò il viaggio di Sturzo in Germania, dove ebbero modo d’incontrare il cancelliere del Reich Joseph Wirth, il ministro del Lavoro Heinrich Brauns, il presidente del Consiglio prussiano Adam Stegerwald, il borgomastro di Colonia Konrad Adenauer, il futuro cancelliere del Reich Heinrich Brüning e altri ministri ed esponenti politici e sindacali del Zentrum cattolico e della Bayerische Volkspartei [14] . Entrambi, ottimi conoscitori della lingua e della realtà tedesca [15] , dimostrarono nell’occasione le loro qualità politiche e contribuirono al successo della missione popolare, che tentò di porre le basi per la ripresa della cooperazione con la Germania repubblicana e, al contempo, per la costruzione di un’«internazionale popolare» operante come organismo di collegamento fra partiti e sindacati europei d’ispirazione democratico-cristiana [16] .
All’interno del Gruppo parlamentare della Camera, di cui De Gasperi assunse dal giugno 1921 la presidenza (carica secondaria, tuttavia, rispetto a quella di segretario, mantenuta da Stefano Cavazzoni [17] ), i deputati popolari si trovarono ad affrontare la crisi dello Stato liberale e furono trascinati dall’«innegabile ondata di fiducia» che accompagnò l’ascesa al potere del fascismo [18] . La nascita del governo Mussolini fu avallata, il 30 ottobre 1922, dai membri del direttorio del Gruppo popolare presenti a Roma, che autorizzarono l’ingresso di ministri e sottosegretari del PPI nel nuovo esecutivo. Alle dichiarazioni di De Gasperi alla Camera sulla fiducia al governo toccò invece ristabilire, il 17 novembre, i limiti di una collaborazione «condizionata» al rientro nella legalità costituzionale dopo lo strappo eversivo della marcia su Roma [19] . Le sue finalità normalizzatrici furono rivendicate anche da Jacini sul quotidiano cattolico «L’Ordine» di Como, in cui egli volle puntualizzare che la collaborazione del PPI non convalidava il «sistema dittatorio e rivoluzionario» del «colpo di Stato» fascista, ma scaturiva all’opposto dal tentativo di «prestare alla rivoluzione ed alla dittatura, pure riconosciute come tali, veste e parvenza di legalità costituzionale» [20] . Le stesse tesi Jacini tornò ad argomentarle nel tract su I popolari pubblicato nel marzo 1923 presso la casa editrice milanese La Modernissima: le sue conclusioni riaffermarono l’indipendenza del PPI dal governo Mussolini e prefigurarono per il partito, alla vigilia del IV Congresso Nazionale di Torino, la ripresa di un ruolo di opposizione costituzionale tale da fargli riacquistare la rappresentanza di «quel centro a cui, logicamente, spetta[va] il predominio nell’Italia di domani» [21] . Al «centro» Jacini si collocò, in quel frangente, anche nella geografia correntizia del PPI: se l’estrazione cattolico-liberale lo aveva già separato dall’integralismo religioso dell’«ala destra» del partito, di cui non aveva fatto mai parte [22] , la fedeltà «conservatrice» ereditata dalla tradizione familiare ne giustificò la preoccupazione per la continuità delle istituzioni liberali e l’avversione alla nuova destra clerico-fascista, disponibile a sacrificare la sopravvivenza del PPI all’accomodante politica ecclesiastica del governo Mussolini [23] .
La svolta autonomistica del PPI giunse dal IV Congresso Nazionale tenutosi a Torino il 12-14 aprile 1923, in cui la relazione del segretario Sturzo rivendicò l’irriducibilità del partito e la sua antitesi ideologica nei confronti del fascismo, ma spettò a quella di De Gasperi respingere la collaborazione incondizionata a livello parlamentare e di governo, ribadendo che essa andava intesa «in senso non di soggezione ma di concorso con proprie idee e con tendenza di ritornare alla normalità costituzionale» [24] . La stessa relazione di De Gasperi e il suo ordine del giorno conclusivo orientarono la resistenza del Gruppo parlamentare popolare sulla difesa del sistema elettorale proporzionale, di cui il governo stava già elaborando progetti di riforma in senso ipermaggioritario [25] . Fu questa la partita politica sulla quale si infranse il «collaborazionismo» del partito di Sturzo, non interrotto neppure dal dimissionamento dei ministri popolari imposto da Mussolini all’indomani del Congresso di Torino. Il proporzionalismo del PPI scatenò la campagna delle violenze e delle intimidazioni fasciste che ottennero, attraverso le pressioni vaticane, le dimissioni di Sturzo dalla carica di segretario il 10 luglio 1923 [26] . La sua uscita di scena contribuì a indebolire l’opposizione della deputazione popolare alla «legge Acerbo» in discussione alla Camera e restituì spazi di manovra parlamentare alla destra filogovernativa del partito sconfitta a Torino. Sotto la spregiudicata direzione di Cavazzoni, l’assemblea del Gruppo popolare convocata dopo l’intervento conciliante di Mussolini del 15 luglio 1923 deliberò – per alzata di mano e a strettissima maggioranza (41 contro 39) – di trasformare in astensione il voto contrario sulla riforma elettorale. Ma anche questo pronunciamento interno fu disatteso dal coup de thé â tre – annunciato in aula dallo stesso Cavazzoni – dei nove deputati che votarono il passaggio alla discussione degli articoli e furono poi espulsi per violazione della disciplina di partito [27] . Dal dibattito alla Camera sulla «legge Acerbo», dunque, il PPI usciva sconfitto non soltanto perché decapitato della leadership di Sturzo, ma anche perché frazionato dalla scissione della componente filofascista che boicottò l’intransigenza proporzionalista del partito e consentì l’approvazione della riforma elettorale governativa.
Questo del luglio 1923 fu lo spartiacque che certificò, per il PPI, il fallimento della strategia «collaborazionista» tesa alla normalizzazione legalitaria del fascismo. La sua presa d’atto accomunò i ripensamenti di De Gasperi e di Jacini, che della precedente fase avevano condiviso motivazioni (e illusioni) non dissimili dalle aspettative di «costituzionalizzazione» coltivate dai fiancheggiatori liberali. Il rifiuto delle proposte di modifica avanzate a nome del PPI dallo stesso De Gasperi, basate sull’innalzamento del quorum elettorale (dal 25% al 40% dei voti) e sulla riduzione del premio di maggioranza (dai 2/3 ai 3/5 dei seggi della Camera), diede conferma delle finalità distorsive e liberticide di una riforma elettorale destinata a minacciare l’agibilità e le garanzie democratiche delle opposizioni. Lo stesso Jacini lo riconosceva, scrivendone il 15 luglio da Roma alla moglie Elisabetta, con l’ammissione che «l’assoluta intransigenza del governo» Mussolini avrebbe puntato ad « ammazzare la rappresentanza della nazione»:
Tu sai che la mia teoria è sempre stata quella di aiutare il governo a trovare il proprio inquadramento nella vita costituzionale; ma qui io vedo proprio il tentativo opposto: consolidare cioè, rendere permanente la rivoluzione. Atto giacobino per eccellenza a cui si rivolta, prima ancora che la mia anima di popolare, la mia anima di conservatore. Se dunque non intervengano fatti od ordini nuovi, io darò, disciplinatamente, ma con intiera coscienza, il mio voto contrario alla legge. So che in tal modo scatenerò su di me, sulla mia famiglia, sul mio collegio e sul mio partito la pazza rappresaglia di questi signori; nella migliore delle ipotesi avremo le elezioni – e quali elezioni! – in agosto. Pensa che delizia! Ma tu sai che il tuo Stefano, quando si è messo in testa che l’onore gli impone di agire in un dato modo, neanche il Padre Eterno gli fa cambiare condotta. Meno che meno poi in questo caso in cui il mio pensiero è perfettamente concorde con quello dei dirigenti del mio partito [28] .
L’opposizione alla «legge Acerbo» spinse Jacini su posizioni nettamente antifasciste non soltanto a livello parlamentare, ma anche nell’organizzazione locale del partito: il suo intervento del 7 agosto 1923 sulla «crisi popolare», tenuto in occasione del IV Congresso provinciale del PPI di Como, ripercorse la «leale collaborazione» con il governo Mussolini, «la grave lotta culminata con le dimissioni di Sturzo e le defezioni di alcuni deputati non seguiti da nessuna Sezione», motivando il passaggio all’opposizione con la «necessità che il PPI rest[asse] partito di centro quale fu concepito nel 1919» [29] . Riconducibile a Jacini fu anche la mozione congressuale del PPI comasco, che aderì «pienamente alle manifestazioni degli organi direttivi del partito in difesa del sistema democratico rappresentativo e delle libertà statutarie» [30] , e venne censurata come «sinistroide e antifascista» in un telegramma diramato al prefetto di Como dallo stesso Mussolini [31] . La reazione fascista giunse puntualmente, il 9 agosto, con la spedizione squadristica che devastò la sede del partito e la redazione dell’«Ordine» [32] e costrinse Jacini a denunciare ufficialmente al presidente del Consiglio i gravi episodi di violenza [33] . Ma in tutta Italia le organizzazioni di partito, le testate giornalistiche e le amministrazioni locali popolari furono prese di mira, fra il luglio e l’agosto 1923, da un’ondata di rappresaglie periferiche che rispondevano alla strategia persecutoria avallata dal proclama del Gran Consiglio del fascismo del 1° agosto, in cui Mussolini aveva minacciosamente additato Sturzo e il PPI «come nemici del governo e del fascismo» [34] .
Fu in questo contesto di pressione terroristica, conseguente alla rottura con il fascismo, che ebbe inizio il carteggio fra De Gasperi e Jacini: la prima lettera degasperiana del 4 settembre 1923 esprimeva solidarietà per gli incidenti di Como e compiacimento «per la parte personale» giocatavi da Jacini, che con il proprio antifascismo si sarebbe dimostrato «abile, schietto e coraggioso come un cavaliere» [35] . Del suo intervento congressuale De Gasperi apprezzò particolarmente l’«accenno polemico» contro l’«Azione Cattolica ufficiale, colpita nei suoi aderenti dalla persecuzione fascista, ma circondata nei suoi capi dalle più autorevoli cure del Governo» [36] : ne erano seguìte, sul foglio diocesano milanese «L’Italia», la replica del presidente generale Luigi Colombo, che intervenne a rivendicare l’apoliticità dell’Azione Cattolica nei confronti del PPI [37] , e la precisazione conclusiva di Jacini, che tornò invece a contestare in quella linea di condotta (definita «assurda» dallo stesso De Gasperi [38] ) la complicità con i tentativi di « svuotamento» del PPI operati dalla «politica religiosa» del governo Mussolini [39] .
Ma in quella lettera a Jacini, spedita dalla «solitudine» del riposo estivo trentino, De Gasperi si apriva anche a più tormentate confessioni e riflessioni personali sui recenti sbandamenti del PPI, che lo avevano coinvolto come presidente del Gruppo parlamentare della Camera. Lasciava così intravedere l’amara delusione per le defezioni di Cavazzoni e dei colleghi della destra popolare sulla «legge Acerbo», ma contrapponeva loro significativamente la fermezza dei «cosiddetti destri» à la Jacini, per il quale «destrismo v[oleva] dire equilibrio e non accomodantismo» [40] . E, soprattutto, si mostrava consapevole della traversata del deserto
che si era spalancata per il popolarismo di opposizione, anticipandone lui stesso a Jacini i tempi lunghi e la limitazione degli spazi di libertà, con cui essa avrebbe dovuto inesorabilmente fare i conti:
Non temere che quanto hai fatto vada perduto; non è il tempo dei consensi rumorosi né delle soddisfazioni immediate, ma l’ora buona verrà. In verità è solo di questa promessa che dobbiamo accontentarci, in un tempo così grave, del quale non si vede la fine.
Io sono ancora, fisicamente, piuttosto depresso: lo sforzo dei nervi per due mesi continui fu eccessivo. Ma, moralmente, sono tranquillo. Ho dato tutto quello che potevo dare, e, nonostante la mia insufficienza, sono persuaso che se non ci fossero state le diserzioni, avremmo vinto.
Peccato che Cavazzoni e Mattei non si siano ricreduti. Ho sofferto, perché volevo loro bene. In Cavazzoni avevo assoluta fiducia, e Dio solo sa quanto faticai, per riavvicinarlo a d.[on] Sturzo. Ma il diffidente siculo anche questa volta ebbe ragione.
In autunno dovremo rinnovare le cariche: io ne ho – e temo anche gli amici – abbastanza. Ma al di fuori della gerarchia, teniamoci uniti per affrontare le difficoltà nuove e sempre maggiori che si preparano [41] .
Nel successivo rinnovo delle cariche interne, posticipato all’indomani dell’ affermazione del «listone» fascista nelle elezioni politiche del 6 aprile 1924, De Gasperi dovette invece rinunciare ai propositi di disimpegno confidati a Jacini e, in occasione del Consiglio Nazionale del 19 e 20 maggio, fu eletto all’unanimità segretario del partito. Si trovò così a gestire, in prima persona, quella conversione all’«antifascismo di principio» di cui il PPI aveva già posto le premesse, nella campagna elettorale appena conclusa, con il manifesto della Direzione che lo impegnava a «opporsi ad ogni attentato contro l’istituto parlamentare e contro le libertà politiche della nazione» [42] . Fu quindi il delitto Matteotti a spingere verso un punto di non ritorno l’antifascismo popolare e a far confluire il PPI nel cartello delle opposizioni che si coalizzarono nella secessione parlamentare dell’Aventino. La mozione letta dal vicesegretario del Gruppo popolare Umberto Tupini durante la loro prima assemblea plenaria, riunitasi il 27 giugno 1924 nella sala B di Montecitorio, ufficializzò la piattaforma astensionista concordata con le altre forze antifasciste di estrazione liberal-democratica, socialista e repubblicana. Nel merito politico essa faceva risalire la responsabilità del delitto direttamente al governo Mussolini e richiedeva «la restaurazione dell’ordine morale giuridico e politico infranto» con la costituzione di un nuovo esecutivo (al quale le opposizioni non avrebbero potuto «che rimanere estranee»), l’abolizione della milizia fascista, la repressione di ogni illegalismo e la reintegrazione dell’autorità legale dello Stato [43] .
Il neo-segretario De Gasperi promosse l’adesione del PPI all’intesa «aventiniana» e divenne, con Giovanni Amendola e Filippo Turati, uno dei leader che ne guidarono politicamente la battaglia secessionista. Il coordinamento con le altre opposizioni lo indusse a privilegiare il terreno comune di una «protesta morale» che poneva soprattutto in evidenza il carattere anticostituzionale e liberticida del «sistema di governo» fascista [44] . Dal luglio 1924 De Gasperi contribuì a caratterizzare lo stesso antifascismo aventiniano del PPI come un’autentica battaglia di libertà, della quale rinvenne le origini e le premesse culturali in altri esempi di opposizione cattolica al dispotismo di Stato ottocentesco. Gli interventi degasperiani presero così a giustificare l’opposizione popolare al fascismo come un’opzione non estrinseca, né tanto meno accidentale e transeunte, ma figlia di una tradizione cattolico-costituzionale che si era storicamente differenziata, nei suoi precedenti tedeschi, belgi e francesi, da ideologie e partiti «liberali»:
Libertà cattolica, liberale o socialista? Ci chiese già allora, dopo il Congresso di Torino, l’on. Mussolini credendo di metterci in imbarazzo. Rispondemmo come rispondiamo oggi: vogliamo la libertà legale, la libertà com’è regolata dalle leggi e garantita dalla costituzione, quella libertà che oggidì è conculcata e soppressa dallo Stato-partito attraverso la compressione amministrativa e che è paralizzata dallo spirito totalitario di violenza e di sopraffazione e dalla minaccia sempre vigile e sempre attiva di una milizia di parte.
I cattolici del Belgio e della Germania, da molti anni attivi nella vita politica dei loro paesi, dopo aver esaminata davvicino la nostra situazione ci hanno ammesso che la nostra lotta per la libertà ha ben più ampie e più profonde ragioni di quello che non avesse a suo tempo la campagna per la libertà dei cattolici belgi e la lotta del Centro contro la legislazione antisocialista di Bismarck [45] .
La resistenza costituzionale del popolarismo divenne, insomma, l’esperienza politica dalla quale De Gasperi apprese quella nuova consapevolezza del problema della libertà, che ne avrebbe culturalmente permeato nel successivo «esilio interno» lo stesso dialogo con Jacini. L’assenza di scambi personali documentabili fra De Gasperi e Jacini, durante la fase dell’Aventino [46] , non impedì loro di condurre disgiuntamente una prima riflessione culturale sull’antifascismo popolare, con cui entrambi tentarono di supportare la mobilitazione aventiniana del partito. Significativa appare, da questo punto di vista, la «resistenza conservatrice» argomentata da Jacini per giustificare l’Aventino come un’iniziativa rivolta alla conservazione delle libertà soffocate dalla prassi «rivoluzionaria» del fascismo. La tradizione conservatrice, alla quale Jacini riannodava il proprio antifascismo, rimaneva quella tramandatagli da Jacini senior, di cui il nipote stava allora ultimando la biografia laterziana e tornò a rivendicare sul quotidiano di partito «Il Popolo» il conservatorismo di stampo liberale e non autoritario, «contrario ad ogni forma retriva, ad ogni illegalismo, ad ogni violenza più o meno intelligente
» [47] . La sua eredità morale – sottolineava lo Jacini popolare – non sarebbe stata quindi raccolta dalle «consorterie» pseudo-liberali fiancheggiatrici del fascismo [48] , ma da una forza politica di massa e postliberale come il PPI, che aveva già realizzato l’auspicio jaciniano di un’evoluzione democratica del mondo cattolico e che – delle stesse istituzioni liberali – stava assumendo la difesa nello schieramento antifascista:
Ecco perché lo scrivente, che non ebbe mai vergogna di dirsi e di lasciarsi chiamare «conservatore» nel periodo procelloso del dopo guerra […] crede di rimanere nel vivo della tradizione conservatrice militando, non solo in un partito di masse, ma in un partito schiettamente democratico, in base al presupposto comune delle garanzie costituzionali. Questo presupposto, dopo essere stato l’idea motrice del liberalismo, era diventato negli ultimi venti anni uno stato di coscienza comune a tutti coloro che rifuggivano dalla tirannide, di qualunque colore essa fosse. Epperò i «liberali» tesserati erano diventati rarissimi, prima della rivoluzione fascista, in quanto che avevano, in certo senso, esaurita la propria funzione. Oggi invece i partiti di masse, che appunto su quello stato di coscienza avevano costruito il proprio programma, sono costretti a ripiegarsi sulla difesa del fondamento liberale faticosamente conquistato dai padri [49] .
In questo «criterio di conservazione», che avrebbe trasversalmente animato l’opposizione al «giacobinismo» fascista, Jacini identificava anche la piattaforma unitaria dell’Aventino, alla quale «fraternamente e consapevolmente» si associavano «uomini di origini e di fedi diverse», ma «da Amendola a Turati» accomunati dalla volontà di «ripristinare le basi della vita costituzionale in Italia» [50] . Alla politica aventiniana lo stesso Jacini aderì fin dall’assemblea delle opposizioni del 27 giugno 1924 [51] e diede la propria collaborazione, al fianco di De Gasperi, come delegato popolare nel Comitato centrale dei partiti antifascisti che si riuniva a Roma presso la sede del quotidiano «Il Mondo» diretto da Amendola, in via della Mercede 9, e in quella della Direzione del PPI in via Ripetta 102 [52] . Convinta fu anche, inizialmente, la sua accettazione della scelta astensionista adottata dall’Aventino: Jacini la ricondusse alla «questione morale» che imponeva «di fare il vuoto» intorno al governo Mussolini «rimasto al timone della cosa pubblica, che mani pure [avevano], sole, il diritto di impugnare» [53] ; e si impegnò a convertirla in una strategia di pressione finalizzata a porre «la Corona nella necessità morale di compiere un atto che separasse la propria responsabilità da quella del regime e che rispondesse alle aspirazioni profonde della nazione» [54] .
Ma, già dalla fine del 1924, Jacini maturò la consapevolezza che l’opposizione aventiniana si fosse confinata in un «vicolo cieco» [55] e che la sua autoesclusione dalla Camera avrebbe ostacolato «quell’opera di connessione e di sgretolamento della maggioranza sulla minoranza» [56] per la quale, dal novembre 1924, l’opposizione liberale nell’aula e gruppi di deputati fiancheggiatori eletti nel «listone» si sarebbero resi disponibili in vista di un’alternativa al governo Mussolini [57] . Fu quindi la svolta autoritaria del 3 gennaio 1925 a risolvere in favore del fascismo la crisi Matteotti e a mettere fuori gioco l’astensionismo aventiniano, di cui lo stesso De Gasperi cominciò a ritenere esaurita la funzione politica. Il capolinea della secessione giunse, per il segretario popolare, con il fallimento dell’appello indirizzato a Vittorio Emanuele III dai deputati «costituzionali» aventiniani, che colsero l’occasione del venticinquesimo anniversario dell’ascesa al trono «per avvicinarlo e tentare di strapparlo al fascismo» [58] : le denunce del messaggio redatto da Amendola, e sottoscritto anche da Jacini, lasciarono politicamente indifferente il sovrano che, l’11 giugno 1925, ricevette in udienza lo stesso segretario popolare e ne confermò le previsioni «sconfortanti» [59] .
L’ empasse dell’Aventino costrinse De Gasperi a prendere in considerazione, sia pure ormai tardivamente, l’ipotesi di un rientro in aula dei deputati popolari alla Camera: scrivendone a Sturzo già esule a Londra, il 9 ottobre 1925, egli formulò l’auspicio che gli «inutili sforzi per mantenere la facciata della secessione aventiniana» potessero lasciare spazio a «un’intesa meno formale più elastica e capace di manovra nella Camera», rispetto alla quale avrebbe lui stesso nutrito, tuttavia, «grandi apprensioni» per il rischio di contromosse mussoliniane sul terreno della «legislazione ecclesiastica» [60] . La «discesa» dall’Aventino fu autorizzata, comunque, dall’ordine del giorno del Consiglio Nazionale del PPI del 7 e 8 novembre 1925, che riservò ai deputati popolari «di stabilire tempo e modo» dell’operazione senza illusioni «sulla pratica efficacia di un intervento parlamentare» [61] . Nelle riunioni del Gruppo popolare alla Camera, fu proprio Jacini «a dare il la» all’iniziativa del rientro per restituire al PPI la tribuna parlamentare di opposizione disertata dopo il delitto Matteotti: «Mi pare» – scrisse alla moglie, da Roma, il 19 novembre – «di essere in guerra alla vigilia di una azione. Questo ultimo tentativo legalitario deve essere tentato, a costo di lasciarci la pelle» [62] . Sennonché, il 20 novembre, le aggressioni fasciste ai danni dei deputati popolari Ugo Guarienti, Giulio Rodinò e Paolo Cappa, feriti all’ingresso della buvette della Camera, frustrarono i propositi «discesisti» di Jacini e costrinsero il PPI a dilazionare ulteriormente il ritorno in aula [63] .
A quel punto, nell’ultima settimana del novembre 1925, Jacini decise di sostituirsi alla latitante «grafofobia» di De Gasperi e di scrivere personalmente a Sturzo – a sua volta favorevole al passo parlamentare – per aggiornarlo sull’apertura e la retromarcia appena deliberate dal partito. Al fondatore del PPI Jacini rivelò, innanzitutto, l’ imprimatur ricevuto dal segretario di Stato vaticano Pietro Gasparri, che avrebbe assecondato l’iniziativa del rientro prima con le pressioni esercitate sul partito, tramite il direttore dell’«Osservatore Romano» Giuseppe Dalla Torre, affinché all’indomani dell’«attentato Zaniboni» del 4 novembre contro Mussolini fossero prese formalmente le distanze dall’Aventino; e poi con la missione inutilmente affidata al padre gesuita Pietro Tacchi Venturi per strappare allo stesso presidente del Consiglio la garanzia dell’incolumità per i deputati popolari che fossero tornati alla Camera [64] . Jacini escludeva, comunque, che quella «discesa» potesse comportare un rinnegamento della politica aventiniana condotta da De Gasperi: egli volle precisare che le nuove deliberazioni del PPI, «senza nulla rinnegare del passato», avrebbero attribuito «un compito assai limitato alla rientrata», ossia quello di parlamentarizzare l’opposizione alle «leggi fascistissime» già in discussione alla Camera. A Sturzo, quindi, Jacini fece presenti anche le ragionevoli motivazioni dell’attendismo degasperiano, maggiormente preoccupato del rischio «di una deflessione ossia di un disastro morale» della rentré e fisicamente esposta alla reazione fascista [65] . Proprio per salvaguardare la tenuta dell’antifascismo popolare, De Gasperi avrebbe ventilato il disimpegno dimissionario dei colleghi dal mandato parlamentare e il proprio dalla Segreteria del partito, ma di fronte a queste ipotesi Jacini preannunciò – sempre a Sturzo – una contrarietà dettata dalla solidarietà nei confronti della leadership degasperiana:
Degasperi personalmente inclinerebbe per le dimissioni del gruppo, ma sarebbe anche disposto ad andarsene da solo. Noi non lo vogliamo perché sarebbe un rinnegarlo e perché la sua andata porterebbe una scossa che bisognerebbe evitare [66] .
Il sostegno offerto da Jacini a De Gasperi acquistò allora, anche pubblicamente, una valenza umana e politica contro la dissidenza dell’ala possibilista
del PPI che, imputando al segretario il fallimento dell’Aventino, invocava la sua sostituzione come premessa per un capovolgimento di linea politica e la ricerca di un modus vivendi accomodante con il regime fascista contro ogni vana «intransigenza» [67] . In occasione del successivo Consiglio Nazionale del PPI, tenutosi a Milano il 28 e 29 novembre 1925, Jacini si dimostrò uno dei più strenui difensori di De Gasperi, accerchiato dalle richieste di scioglimento del partito e di dimissioni in blocco dei deputati popolari, entrambe proposte in un’ottica di desistenza che puntava a superare con l’Aventino lo stesso antifascismo popolare [68] . L’intervento di Jacini fu il primo a rivendicare la coerenza con gli sforzi di Sturzo «per creare un partito politico di cattolici italiani, con propria autonomia», e il diritto-dovere di esistenza del PPI come forza democratica e antifascista [69] : egli propose, per garantirne la sopravvivenza, che i deputati popolari rinunciassero alle dimissioni e affidassero i loro mandati parlamentari alle future decisioni della Direzione, in maniera tale da compiere «anche un atto di fiducia nei confronti di De Gasperi» [70] .
Non fu questa, tuttavia, la sola attestazione di vicinanza riservata da Jacini al segretario del partito nel corso delle adunanze milanesi del PPI: già alla vigilia di quel Consiglio Nazionale, nella riunione del Gruppo popolare della Camera tenutasi nel capoluogo lombardo la mattina del 28 novembre, Jacini si era reso promotore di una dichiarazione di «completa solidarietà» all’indirizzo di De Gasperi preso di mira dalla campagna diffamatoria della stampa fascista che, dal novembre 1924, continuava ad accusarlo di «austriacantismo» per «colpire, attraverso l’uomo, il partito» schierato in difesa del suo capo «assalito e vilipeso» [71] . La coraggiosa presa di posizione in favore di De Gasperi ebbe l’effetto di coinvolgere, a sua volta, lo stesso Jacini nell’offensiva denigratoria del «Popolo d’Italia», che rinvenne «un sottile filo di austriacantismo» anche nella sua ascendenza familiare: il quotidiano mussoliniano riesumò le polemiche legate al «transazionismo» di Jacini senior nei confronti del governatorato milanese dell’arciduca Massimiliano d’Asburgo, ricordando come il futuro ministro cavouriano fosse stato «uno dei pochi milanesi» a sottoscrivere, nel 1857, «il famoso indirizzo di fedeltà all’imperatore Francesco Giuseppe in occasione della sua paterna
visita agli amatissimi sudditi della capitale del Lombardo Veneto
» [72] . Alla lettera inviata da Jacini, che intervenne a ridimensionare «in linea storica» il «massimilianismo» preunitario di suo nonno, «Il Popolo d’Italia» del 5 dicembre 1925 replicò sprezzantemente che «l’on. Jacini avrebbe dovuto sentire un certo dovere di riservatezza nei confronti della faccenda De Gasperi e non essere il promotore delle manifestazioni di completa solidarietà
con l’austriaco suo collega di gruppo» [73] .
Dagli attacchi della stampa fascista De Gasperi e Jacini furono infine costretti a rinunciare, nelle ultime settimane del 1925, ai rispettivi incarichi nel PPI e nel movimento cattolico: il primo a lasciare, il 14 dicembre, la Segreteria popolare per salvare il partito dalle pressioni intimidatorie di cui egli era divenuto direttamente bersaglio [74] ; il secondo a dimettersi, il 24 dicembre, dalle cariche di consigliere direttivo e di vicepresidente dell’Opera Bonomelli [75] . Scrivendone ancora a Sturzo, il 23 dicembre, Jacini attribuì «la pressione politica» che lo aveva costretto a ritirarsi dall’istituzione cattolica per l’assistenza agli emigranti, già in stadio di avanzata fascistizzazione, proprio al fatto di essersi esposto pubblicamente a sostegno di De Gasperi:
Tu che hai dato l’opera tua a tante associazioni, comprenderai come nessuna rinuncia di carattere politico mi sia costata tanto come questa ch’io considero quasi come una disgrazia famigliare. Pare che la mia presenza sia stata ritenuta intollerabile dopo il mio gesto di solidarietà con De Gasperi. Infatti, come avrai visto, quello stesso gesto mi ha procurato dei vilipendi che sono andati a toccare persino la venerata memoria di mio Nonno. Fortuna che certe figure sono al di sopra degli insulti! [76]
Le dimissioni di De Gasperi da segretario lasciarono libero il campo al tentativo di rientro alla Camera promosso in extremis dal direttorio del Gruppo parlamentare – di cui Jacini era membro con Mario Cingolani, Giulio Rodinò, Ugo Guarienti e Giorgio Montini – e ratificato a maggioranza, l’8 gennaio 1926, dall’assemblea dei deputati popolari: a fornirne l’occasione fu la commemorazione in aula della regina madre Margherita di Savoia, ai cui funerali la rappresentanza popolare aveva già ufficialmente partecipato [77] . Si intrecciarono, nell’iniziativa, due tendenze ben distinte e irriducibili, accomunate soltanto dall’illusione che la solennità commemorativa bastasse a evitare ritorsioni contro i deputati ex-aventiniani del PPI: da un lato, la volontà di offrire un’estrema testimonianza legalitaria di opposizione al regime, come quella appunto auspicata da Jacini, tanto critica dell’Aventino quanto nettamente antifascista; e, dall’altro, la più opportunistica e dialogante strategia di adattamento che finalizzava il reingresso alla normalizzazione della presenza popolare nella Camera fascista [78] . Il 16 gennaio 1926 Jacini fece parte della pattuglia di deputati popolari che, a seduta già iniziata, riguadagnarono senza resistenze i banchi parlamentari, ma furono poi aggrediti e percossi all’uscita dell’emiciclo dai deputati della maggioranza [79] . Lo stesso Jacini rimase ferito in quegli incidenti e fu accusato di averli provocati con la presunta (ma da lui smentita) richiesta della parola in aula dopo l’intervento del presidente della Camera Antonio Casertano [80] . Proprio allora, come risulta dalla successiva sua ricostruzione dell’episodio, egli si convinse che la premeditata violenza fascista avrebbe reso definitivamente impraticabile qualsiasi diritto di tribuna parlamentare delle opposizioni, anche e soprattutto «costituzionali» come quella popolare:
obbedendo ad una parola d’ordine, la maggioranza fascista si getta sullo sparuto gruppo dei popolari, e fra una tempesta di insulti comincia quello che volgarmente, in termine squadrista, si chiamava il pestaggio: l’on. Merlin ha gli occhiali spezzati da un pugno, che minaccia di fargli perdere un occhio; chi scrive riporta una ferita lacero-contusa al naso, giudicata guaribile in dieci giorni, che causa una abbondante emorragia; e così dal più al meno di tutti gli altri. In tal modo i deputati aventiniani venivano espulsi dall’aula, a seduta chiusa, e quindi senza che gli atti della Camera conservassero traccia della odiosa scenata. Il partito fascista ebbe cura di appostare sentinelle ai vari ingressi, perché il tentativo non si ripetesse il giorno successivo. Ma il gruppo ritenne che non valesse la pena di ritentare la prova. Inutile soggiungere che, sui giornali asserviti dal partito fascista, quella dei popolari venne dipinta come una inaudita provocazione; si disse anche – e non era esatto – che chi scrive avesse osato chiedere la parola [81] .
Questo estremo tentativo di ritorno alla Camera, gestito in totale autonomia dal Gruppo popolare, venne particolarmente disapprovato da De Gasperi, che non ne condivise le responsabilità ed evitò di imputarle allo stesso Jacini, ma lo definì senza mezzi termini a Sturzo una «corbelleria» e vide confermate, dal suo fallimento, le riserve già espresse come segretario rispetto a screditanti e ormai inutili manovre parlamentari [82] . Anche altri dirigenti di primo piano del PPI si risentirono per l’iniziativa di cui Jacini era stato protagonista e la giudicarono, come Gronchi, che le si era opposto in sede di Gruppo parlamentare, una sconfessione della «politica di non-cooperazione, di resistenza immobile, di silenzio dignitoso, di fermezza tenace» sperimentata dall’Aventino: «il vero dissenso» – scrisse a Sturzo il 19 gennaio 1926 – «non sta nella tattica occasionale (discendere o meno), ma nel resistere e nel serbare dignitosa coerenza alle responsabilità del passato» [83] . Lo stesso Sturzo censurò da Londra la «tendenza dei compromessi, delle mezze misure, degli equivoci», che stava riemergendo in un Gruppo popolare «oramai liberato dall’influenza e dalla posizione di Alcide» e tentato di lasciarsi alle spalle l’intransigenza antifascista pregiudicata alla Camera [84] .
La definitiva uscita dal Parlamento obbligò il PPI a collaudare, nella sua fase terminale, una strategia di opposizione extraistituzionale e già quasi «catacombale», che ebbe il proprio centro di riferimento nella Commissione straordinaria di cinque esponenti istituita dal Consiglio Nazionale del 14 dicembre 1925, alla quale furono temporaneamente trasferiti i poteri degli organi statutari del partito dopo le dimissioni di De Gasperi. Questa sorta di direzione collegiale, succeduta alla carica del segretario, avrebbe dovuto controbilanciare gli eventuali sbandamenti parlamentari e, sulla base delle raccomandazioni degasperiane, attingere a «non deputati per creare al di fuori delle sorti del gruppo un ricettacolo al partito» [85] . Le consegne del segretario uscente vennero disapplicate nel caso di Jacini, che fu l’unico deputato chiamato a far parte della «pentarchia» incaricata di assicurare la sopravvivenza del PPI con «sedute pellegrine» nelle diverse città di provenienza dei componenti [86] . Egli assunse così un ruolo di coordinamento nell’ultima fase di resistenza antifascista del partito, sottoposta a stringente vigilanza poliziesca e praticamente ridotta allo ius mormorandi delle riunioni domestiche, che consentirono soltanto di prolungare un’attività politica ormai puramente informale e testimoniale. In veste di «pentarca» Jacini tenne la relazione politica nell’assemblea dei dirigenti e parlamentari del PPI, che si svolse a Roma il 27 e 28 giugno 1926 [87] e fissò per la fine di novembre la riconvocazione del Congresso Nazionale, al quale la Commissione straordinaria avrebbe dovuto restituire il mandato e consentire il rinnovo delle cariche con l’elezione di un nuovo segretario [88] . Fino alla fine la «pentarchia» respinse le pressioni per lo scioglimento del PPI e cercò di rilanciarne la normale iniziativa politica: in una sua «movimentatissima» seduta milanese, presieduta da Jacini il 2 e 3 ottobre 1926 e allargata ai