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I monumenti esoterici d'Italia
I monumenti esoterici d'Italia
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E-book443 pagine9 ore

I monumenti esoterici d'Italia

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Info su questo ebook

Uno straordinario itinerario alla scoperta degli antichi segreti del nostro Paese

Misteri, leggende, simbolismo, alchimia, enigmi… In ogni angolo d’Italia, ne troviamo tracce. Il nostro Paese ha un patrimonio artistico senza confronti nel mondo, e spesso proprio nei monumenti, nei dipinti, nelle architetture custodite dalle nostre città, si celano segreti di un passato lontano. Enigmi decifrabili solo per gli iniziati di epoche remote, ma che oggi sfuggono alla nostra comprensione. Torino, Roma, Napoli, Venezia… è impossibile visitare queste città senza imbattersi in una triplice cinta, in un chiostro ricco di misteri, in cunicoli che celano verità ancora inviolate o chiese cariche di simbolismo. Fabrizio Falconi ci aiuta a guardare il volto esoterico dell’Italia di ieri e di oggi, accompagnandoci in un viaggio che parte dal Castello Miramare a Trieste e attraversa l’intero stivale, passando per la basilica di Sant’Ambrogio a Milano, la tomba di Romeo e Giulietta a Verona, la chiesa templare di San Bevignate a Perugia, le rovine di Cuma in Campania, per oltrepassare infine il mare e mostrarci i misteri delle due grandi isole. Un itinerario alla scoperta della conoscenza divina, segreta e iniziatica.

Hanno detto di I fantasmi di Roma:

«È un libro che interesserà tutti gli appassionati di storia e di tradizioni.»
Carlo Gallucci, La Lettura-TG5

Tra i monumenti esoterici da scoprire:

La basilica di Sant’Ambrogio a Milano
La tomba di Giulietta a Verona
La chiesa della Gran Madre di Dio a Torino
La caverna delle arene candide a Finale Ligure e lo scheletro del giovane principe
La tomba di Ilaria del Carretto e la cattedrale di San Martino a Lucca
Il parco dei mostri di Bomarzo, in provincia di Viterbo
La porta magica di Piazza Vittorio a Roma
La fortezza di Castel del Monte, in Puglia
I sotterranei di Napoli
Le rovine di Cuma, in provincia di Napoli, con l’antica grotta della profetessa
Il quadrato magico di Pompei
L’abbazia di Thelema a Cefalù e il castello di via Serradifalco a Palermo


Fabrizio Falconi
nato a Roma, è caporedattore per la testata News Mediaset e il canale All news Tgcom24. Oltre a un testo contenuto nella raccolta Il valore della Parola, ha scritto i saggi Osama Bin Laden. Il terrore dell’Occidente (con Antonello Sette), Dieci Luoghi dell’Anima, In Hoc Vinces (con Bruno Carboniero) e i romanzi Il giorno più bello per incontrarti, Cieli come questo, Per dirmi che sei fuoco. Saggi e articoli di argomento storico e archeologico sono apparsi su varie riviste italiane. Con la Newton Compton Editori ha pubblicato I Fantasmi di Roma e I monumenti esoterici d'Italia.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854153257
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    Anteprima del libro

    I monumenti esoterici d'Italia - Fabrizio Falconi

    1. Il castello Miramare a Trieste

    Il barone Bernard Cyril Freyberg è uno di quei personaggi che hanno attraversato pagine cruciali della storia da protagonisti, ma senza lasciare, per strani motivi, tracce memorabili. Pochi sanno che fu proprio questo generale neozelandese a guidare le operazioni, dopo aver partecipato alle campagne di Creta e del Nordafrica, del controverso bombardamento dell’abbazia di Montecassino, insieme al generale Clark, nel febbraio del 1944. Il parziale fallimento di quella operazione – l’abbazia non nascondeva truppe tedesche come si credeva – non compromise l’avanzata delle truppe alleate e la progressiva conquista dell’Italia da sud a nord.

    I primi giorni di maggio del 1945, le truppe neozelandesi sono in Friuli. Passano il Tagliamento, poi l’Isonzo all’alba del 2 maggio, trovandosi di fronte le truppe dei partigiani jugoslavi del generale Tito, che provenendo da nord sono già entrate a Trieste. I neozelandesi formano due colonne, una prende la via interna attraversando il Carso, l’altra segue la strada costiera e raggiunge il castello Miramare a mezzogiorno.

    Alle quattro del pomeriggio, anche le truppe neozelandesi sono a Trieste, accolte in strada dalla popolazione. I tedeschi si arrendono. A loro penseranno gli jugoslavi, con esecuzioni sommarie nelle famigerate foibe. Il comando neozelandese si installa all’Hotel de Ville, in pieno centro. Ma, dopo aver parlato con il comandante jugoslavo Vodopivez, il generale Freyberg, che comanda le truppe neozelandesi, fa ritorno al castello Miramare: in quel luogo, di cui ha sentito così tanto parlare, ha deciso di porre il suo quartiere generale.

    Quando però, la mattina dopo, gli attendenti jugoslavi lo vanno a cercare, per comunicargli che Vodopivez ha assunto il comando generale della città di Trieste, si trovano di fronte la scena del barone Freyberg che anziché accogliergli nelle sale del castello, li riceve fuori da una rudimentale tenda da campo allestita nei giardini.

    Dopo molti giorni di cammino e di battaglie, è piuttosto strano vedere questo generale – di alto lignaggio, di nobili natali, e approdato in una residenza principesca – dormire in una tenda da campo.

    Sarà lo stesso Freyberg a spiegare la scelta ai suoi luogotenenti: quel bellissimo luogo, il castello Miramare, ha una fama sinistra. Chiunque vi abiti, spiega il barone, è destinato a morire prematuramente e in terra straniera.

    È il motivo per cui, lui che tiene molto a tornare sano e salvo alla fine della guerra dalla sua famiglia che lo aspetta agli antipodi in Nuova Zelanda, preferisce evitare di soggiornare tra le mura del castello.

    Ma come poteva un generale neozelandese, nel pieno della guerra, essere al corrente di una storia come quella, così distante, così lontana nello spazio e nel tempo?

    Evidentemente, il castello Miramare di Trieste aveva già fatto parlare di sé e non doveva essere estraneo a questo comportamento del generale Freyberg il fatto che egli fosse un veterano della rivoluzione messicana. Era probabilmente proprio lì, in Messico, che aveva sentito nominare per la prima volta il castello Miramare, la residenza fatta costruire dall’imperatore Massimiliano d’Asburgo, che proprio al di là dell’Oceano, in Messico aveva trovato il suo regno e la sua fine ignominiosa, fucilato come un qualsiasi traditore o rivoltoso il 19 giugno del 1867 a Santiago de Querétaro.

    In realtà, come vedremo, la fama sinistra del castello, non era legata soltanto a Massimiliano, ma anche ad altri principi che transitarono successivamente per quei luoghi.

    Ma certamente la leggenda nera scaturita dal castello Miramare è dovuta alla sfortunata, tragica vicenda dell’imperatore Massimiliano e della sua consorte Carlotta. Una coppia di sovrani per molto tempo senza trono, romanticamente uniti, illuminati, simbolo di quel potere assoluto mitteleuropeo che, disgregandosi, preparava il terreno ai nefasti avvenimenti che portarono alle due grandi guerre mondiali del Novecento.

    Il castello Miramare (o meglio Miramar, com’era il nome esatto immaginato da Massimiliano d’Asburgo), oggi accoglie il visitatore con la stessa sobria eleganza che ne ha fatto una delle più belle residenze principesche d’Europa, per la vista e la posizione incomparabile e per la purezza delle linee architettoniche e del giardino botanico all’italiana (di più di venti ettari) che degrada dolcemente verso il mare Adriatico.

    Una costruzione iniziata nel 1856, che il suo committente, il principe Massimiliano, non riuscì a vedere terminata e che costò la cifra record di 600.000 fiorini.

    La storia di questo luogo è intimamente legata a quella del suo fondatore. Molte sono le leggende ispirate al motivo che spinse l’arciduca Massimiliano a sceglierlo per edificare il suo castello. Sembra che fu un’avventura in mare – il principe era ufficiale della marina austriaca e risiedeva a Trieste, presso la villa Lazarovich, sul colle San Vito, già dal 1852 – durante la quale la nave su cui era imbarcato, la Madonna della Salute, aveva trovato un provvidenziale riparo, a fargli scoprire il fascino di Punta Grignano. Stregato da quel luogo e conquistato dal fascino dello sperone di roccia che offriva una vista sconfinata sul golfo di Trieste, decise di costruirvi la sua principesca dimora.

    Massimiliano era nato a Vienna il 6 luglio del 1832, nientemeno che nel maestoso castello di Schonbrunn, residenza dei principi della casa d’Asburgo, una delle più potenti d’Europa, secondogenito dell’arciduca Francesco Carlo.

    Suo fratello maggiore, Francesco Giuseppe, divenne imperatore d’Austria nel 1848, rubando inevitabilmente la scena a Massimiliano, che – più dotato intellettualmente e sensibile emotivamente – sviluppò probabilmente un complesso d’inferiorità nei confronti del potente fratello e cominciò a ritagliarsi interessi alternativi nel campo dello studio delle arti e delle scienze e nel campo della carriera di comandante di Marina, che gli dava l’occasione di compiere viaggi lungo il Mediterraneo a bordo della fregata Novara, nel corso dei quali redasse minuziosi diari sugli usi e costumi delle popolazioni che incontrava, sui paesaggi che vedeva, sulle piante – che da esperto conoscitore di botanica – esaminava e catalogava.

    Quando arrivò a Trieste, l’illuminato principe sentì scattare un’immediata intimità con quei luoghi. Il carattere umbratile del paesaggio, i colori netti e decisi, l’inclinazione alla riservatezza dei triestini, bene si conciliavano con la predisposizione malinconica del principe.

    Massimiliano a Trieste cominciò a sentirsi a casa. Iniziati i lavori per la costruzione del castello a Punta Grignano, coronò anche il suo desiderio d’amore, convolando a nozze con una delle più belle e ambite principesse d’Europa, incontrata durante un viaggio diplomatico: Carlotta di Sassonia, figlia di Leopoldo i re del Belgio e di Maria Luisa d’Orleans.

    I due sposi, nell’attesa che il Miramare fosse terminato o quanto meno abitabile, stabilirono la loro residenza a villa Lazarovich. L’arciduca però non smetteva di interessarsi maniacalmente alla costruzione del suo castello, che procedeva molto lentamente anche a causa delle minuziose pretese del suo proprietario: solo per fare un esempio, la pietra bianca che ancora oggi è il segno distintivo del Miramare proveniva dalle cave di Orsera, nell’Istria meridionale, e doveva compiere un lungo viaggio per giungere a destinazione e poter essere utilizzata.

    Massimiliano – affidandosi all’architetto Karl Junker – si occupò di ogni cosa, dalla planimetria alla sistemazione degli arredi, dal giardino botanico alla decorazione interna.

    Il destino però era già in agguato: per l’arciduca, a trentacinque anni, si spalancano finalmente le porte di un regno. Nel 1857, infatti, alla morte del maresciallo Radetzky, diventa viceré del Lombardo-Veneto. È stato suo fratello maggiore, l’imperatore Francesco Giuseppe, a candidarlo per quel delicato ruolo, insieme a Leopoldo, suocero di Massimiliano, ben contento che il genero abbia finalmente un ruolo degno del suo rango.

    Massimiliano e Carlotta entrano a Milano nel settembre di quell’anno. L’arciduca, di propensione liberale, cerca, senza successo, di ricavarsi un ruolo di mediatore per frenare le spinte indipendentiste che hanno già causato i violenti moti del 1848 nel capoluogo lombardo. Dal potere centrale, da Vienna, dal fratello Francesco Giuseppe, arrivano chiusure, irrigidimenti, delusioni, immediate smentite di ogni possibile apertura o concessione.

    Queste amarezze per Massimiliano si aggiungono a un altro e più privato cruccio: Carlotta non riesce a restare incinta, probabilmente nessun erede arriverà mai.

    L’esperienza milanese si concluse molto velocemente, in appena due anni. Nell’aprile del 1859 il principe fece mestamente ritorno a Trieste.

    Il Miramare però non era ancora pronto. Dopo un anno trascorso nel cosiddetto castelletto, finalmente i principi riuscirono a entrarvi nella notte di Natale del 1860. Il ricordo di quella notte, della gioia di Massimiliano e Carlotta, del grande banchetto per gli ospiti, della consegna dei doni natalizi e della messa di mezzanotte nella piccola cappella, è custodito nei manoscritti conservati nel Museo del castello.

    Seguirono tre anni di relativa tranquillità per Massimiliano, libero da impegni di governo. L’arciduca poté dedicarsi alle sue passioni: lo studio, la scrittura, i viaggi, le conversazioni con le menti più illuminate della società triestina dell’epoca. Anche Carlotta ebbe modo di concedersi all’amata pittura e allo studio del pianoforte. Insieme intrapresero anche lunghi viaggi via mare. A bordo della Fantasia e della Elisabetta si trasferirono frequentemente nell’isola di Lacroma, al largo dell’odierna Dubrovnik, di proprietà degli Asburgo, poi, nel 1861, intrapresero un lungo viaggio che li portò prima a Madera e poi fino in Brasile, dove Massimiliano guidò una missione scientifica nelle foreste del Mato Grosso alla ricerca di nuove specie di piante esotiche da catalogare e impiantare nel giardino del Miramare.

    L’intervallo bucolico e contemplativo nella vita di Massimiliano, però, durò ben poco. Di nuovo il destino aveva in serbo una nuova e difficilissima prova per lui, che sarà poi fatale.

    Il lontano Messico era nel caos. Una delle regioni più ricche del nuovo mondo – e ancora in gran parte inesplorata – che faceva gola ai governi europei sempre alla ricerca di nuove risorse da sfruttare.

    Dopo la liberazione dal dominio spagnolo e l’indipendenza proclamata nel 1821, era iniziato un periodo di spaventose guerre civili, che avevano indotto le potenze europee – Francia, Inghilterra e Spagna – a intervenire. Il 10 giugno del 1863 le truppe francesi avevano fatto il loro ingresso, per ristabilire l’ordine, a Città del Messico.

    I governi europei avevano però bisogno di un regnante, da sistemare su quel precario trono, per garantirlo dai cataclismi interni e assicurare stabilità: è così che nacque l’idea di affidare proprio al secondogenito della prestigiosa casa d’Asburgo la corona di imperatore del Messico.

    Massimiliano, all’inizio del tutto recalcitrante, finì per accettare la proposta che gli fu consegnata personalmente da una delegazione messicana, comandata dal nobile don Gutierrez de Estrada, giunta e ricevuta con tutti gli onori al castello Miramare il 3 ottobre del 1863.

    Il principe, dopo aver ascoltato la proposta, prese tempo. Si consultò con i principali regnanti europei, ricevendo i consigli (interessati) più disparati: di accettare, di rinunciare. Anche il fratello Francesco Giuseppe gli concesse un appoggio ambiguo: in cambio dell’appoggio alla corona messicana, gli impose di rinunciare a tutti i titoli che gli competevano presso la casa regnante d’Asburgo (Massimiliano era ancora a tutti gli effetti il principe ereditario), passo che l’arciduca si deciderà a compiere il 10 aprile del 1864, durante una memorabile visita di Francesco Giuseppe al castello Miramare.

    Massimiliano, incoraggiato anche dal plebiscito che nel frattempo era stato indetto nelle regioni messicane e che ovviamente aveva promosso la sua incoronazione, si decise finalmente ad accettare e quattro giorni dopo, il 14 aprile, salpò insieme a Carlotta dal molo del Castello, a bordo del Novara, alla volta del lontano Messico, lasciando un autentico rimpianto tra i triestini, preoccupati dall’idea di perdere la protezione dell’illuminato principe.

    Raggiunta Veracruz dopo un mese e mezzo di navigazione, Massimiliano sbarcò tra l’entusiasmo dei messicani venuti ad accoglierlo. Un’accoglienza però, del tutto illusoria.

    In breve tempo Massimiliano si rese conto del ginepraio senza via d’uscita con il quale aveva a che fare: l’ampio movimento fedele al regime repubblicano di Benito Juarez vedeva il principe d’Asburgo come un invasore e un impostore; gli aiuti che dovevano giungere dall’Europa tardavano; gli Stati Uniti, infastiditi dall’ingerenza francese, cominciarono a sostenere le truppe repubblicane, sempre più forti.

    Massimiliano, che aveva posto la sua residenza nel castello sulla di collina di Chapultepec, luogo sacro agli aztechi – altra scelta molto rischiosa, da un punto di vista esoterico, visti i legami di questo popolo con i riti magici – si ritrovò ben presto isolato, con l’unico conforto degli intellettuali progressisti che riconoscevano in lui l’onestà e gli intenti liberali, insieme a Carlotta e ai due ragazzi che insieme avevano adottato: Agustìn e Salvador, figlio e nipote del precedente e ultimo imperatore del Messico Agustin i, fucilato nel 1823.

    Rendendosi conto dell’imminente pericolo, Massimiliano tentò un’ultima carta disperata, inviando Carlotta a intercedere per lui presso le corti europee. Era forse anche un modo per proteggerla.

    I due sposi non si vedranno più.

    La missione di Carlotta andò malissimo: nessuno le diede ascolto, né a Parigi, né a Vienna e neppure a Roma, dove il pontefice, papa Pio ix, le concesse soltanto risposte evasive.

    Carlotta, stroncata dalla delusione, cadde profondamente malata, rifugiandosi proprio al castello Miramare. Quel luogo però, non la aiutò a ritrovare le forze, tutt’altro: i medici le diagnosticarono un grave disturbo psichico e le proibirono di fare ritorno in Messico. Riparò in Belgio, presso la corte paterna, dove trascorse lunghi anni, fino alla morte avvenuta all’età di ottantasette anni, nel 1927, quando il suo sposo Massimiliano già da lungo tempo riposava nella cripta imperiale di Vienna.

    A Massimiliano, infatti, dopo il fallimento della missione della consorte, restò ben poco da vivere. Il colpo di grazia fu la decisione di Napoleone iii, a seguito delle pressioni internazionali, di ritirare le truppe francesi dal Messico. Sentendosi ormai in pericolo, Massimiliano decise di abbandonare la capitale e rifugiarsi a Querétaro, a duecento chilometri di distanza.

    Circondato però dalle forze ribelli che conquistarono la città, venne fatto prigioniero il 14 maggio del 1867 e, dopo un rapido processo, condannato a morte per alto tradimento.

    La gara di solidarietà scattata a quel punto in mezzo mondo, che coinvolse ipocritamente molti sovrani d’Europa – gli stessi che pure avevano decretato la fine di Massimiliano, lasciandolo solo – e personalità di ogni genere e rango come Giuseppe Garibaldi e Victor Hugo, non servì a nulla: Massimiliano viene fucilato da un drappello di sette soldati il 19 giugno del 1867, uno shock per la comunità internazionale, rappresentato con tutta la sua potenza emotiva dalla celeberrima opera di Edouard Manet, oggi esposta alla Kunsthalle di Mannheim, in Germania.

    La notizia della morte di Massimiliano giunse a Trieste ai primi di luglio e sconvolse la città, la quale si preparò ad accogliere le spoglie dello sfortunato sovrano, che ritornarono a bordo della stessa contrammiraglia con cui era partito, il Novara, nel gennaio dell’anno seguente.

    Tre anni dopo, ironia della sorte, verrà posta l’ultima pietra sul castello Miramare, finalmente terminato.

    Una vicenda così sfortunata, con Carlotta superstite, vedova e relegata nel suo deliquio di follia, suscitò omaggi musicali e letterari: tra questi il carme che Giosuè Carducci inserì nelle Odi barbare e che intitolò proprio con il nome del castello funesto, teatro dei sogni e delle illusioni dell’arciduca sconfitto: Miramar, che inizia con versi lugubri:

    O Miramare, a le tue bianche torri

    attediate per lo ciel piovorno

    fosche con volo di sinistri augelli

    vengon le nubi.

    O Miramare contro i tuoi graniti

    grige dal torvo pelago salendo

    con un rimbrotto d’anime crucciose

    battono l’onde.

    È la stessa atmosfera che si respira oggi, se si arriva in un giorno d’inverno, con i forti venti di bora, a visitare il castello.

    Attraversando le sontuose sale, perfettamente conservate con gli arredi dell’epoca, non si può fare a meno di sostare partecipi nella cosiddetta Saletta Novara, intitolata alla nave funesta che riportò le spoglie dell’arciduca e che era lo studio di Massimiliano, dove egli trascorse lunghe ore immerso nei suoi studi umanistici e nei suoi progetti di gloria.

    Qui, ai tempi di Carducci, e la cosa doveva certamente aver scosso il poeta quando visitò il castello, insieme ai due ritratti di Dante e di Goethe – che il principe Massimiliano considerava i suoi numi tutelari – c’era, aperto sulla scrivania, un libro di un’antica edizione che, come scrive Carducci, «parmi di ricordare assai rara e stampata ne’ Paesi Bassi, di romanze castigliane». Circostanza che colpì il poeta, insieme a una delle sentenze latine, che trovò iscritta, evidentemente per volontà del principe, nella vicina sala maggiore:

    Si fortuna iuvata caveto tolli

    Saepe sub dulci melle venena latent

    Non ad astra mollis e terris via

    Vivitur ingenio, caetera mortis erunt.

    Ovvero:

    Se la sorte ti è favorevole, non innalzarti

    Spesso sotto il dolce miele si nascondono veleni

    Non è agevole la via dalla terra agli astri

    Si vive per il talento, tutto il resto sarà della morte.

    La sentenza, di Decimo Magno Ausonio, sembra davvero descrivere, come meglio non si potrebbe, la parabola di Massimiliano e il suo destino.

    Poco distante dalla sala, la visita al castello può procedere con gli appartamenti del duca d’Aosta, recentemente riaperti al pubblico, dal 1996, con il recupero dei mobili d’epoca di gusto razionalista.

    La vicenda del duca Amedeo, quasi un secolo dopo quella di Massimiliano, accrebbe, come scriviamo all’inizio del capitolo, la leggenda nera del Miramare.

    Nel 1930, infatti, il governo italiano destinò il castello Miramare a residenza del principe Amedeo, figlio di Emanuele Filiberto, erede del nobile ducato d’Aosta, che, dopo aver compiuto gli studi nelle migliori scuole inglesi dell’epoca e dopo essersi distinto nei combattimenti della prima guerra mondiale, era stato poi allontanato dalla corte a causa di una pesante battuta che aveva fatto in pubblico all’indirizzo del Re, Vittorio Emanuele. Dal carattere forte e ribelle e forzosamente trasferito in Congo, il duca pensò bene di farsi assumere in una fabbrica di sapone, nascondendo la sua vera identità.

    Anche il duca, come Massimiliano dunque, oltre ad amare i viaggi e l’avventura era autenticamente attratto dai costumi di lontane popolazioni e dalle problematiche legate alla colonizzazione.

    Quando tornò in Italia, Amedeo aveva riscattato totalmente la sua immagine con le missioni aeree che aveva compiuto in Libia. Al duca di ferro, come era stato ribattezzato, fu dunque consegnata una residenza adeguata al suo rango.

    All’architetto Riccoboni fu affidato il progetto di ristrutturazione architettonica del Miramare, che doveva essere adeguato alle esigenze di modernità del duca. Comparvero due ascensori, linee telefoniche, un impianto di illuminazione al neon, acqua corrente e termosifoni.

    Le stanze del castello persero alcune delle decorazioni più ridondanti mentre furono aperti e adattati nuovi vani, compreso il mezzanin, all’ultimo piano.

    Amedeo, al Miramare, si trovò bene: vi dimorò per sei anni, dal 1931 fino al 1937, anno in cui ebbe la nomina di viceré d’Etiopia, mentre la moglie Anna d’Orléans e le figlie Margherita e Maria Cristina (la secondogenita era nata al castello nel 1933) continuarono ad abitarvi, seppure saltuariamente, fino alla prima metà del 1943.

    Nel ’37, Amedeo andò incontro al suo destino: nominato governatore generale dell’Africa Orientale e quindi comandante in capo, si trovò a fronteggiare l’avanzata degli inglesi in Abissinia. Superiori negli uomini e nei mezzi, gli inglesi presero il sopravvento, costringendo le truppe italiane a ripiegare e ritirarsi sulla montagna dell’Amba Alagi, che era già stata teatro funesto della battaglia del 1895, quando l’esercito italiano, durante la guerra d’Abissinia, era stato sbaragliato dagli etiopi.

    Nel 1941, alla guida dei suoi uomini, Amedeo trattò – o cercò di trattare – un’onorevole resa. Rispettato dagli inglesi per il suo valore e la sua lealtà, ad Amedeo fu concesso l’onore delle armi. Trasferito però al campo di Sabòuk, in Kenya, agli inizi di novembre si ammalò, manifestando i sintomi della malaria.

    Morì il 3 marzo dell’anno seguente all’ospedale militare di Nairobi. Venne sepolto – per sua espressa volontà – insieme ai suoi uomini nel sacrario militare di Nyeri, in Kenya.

    Si avverava dunque nuovamente la circostanza di un altro nobile principe che andava a morire in un Paese straniero, molto lontano da quel castello, dove invano l’avevano aspettato la moglie e i figli.

    Un monumento in bronzo – la figura intera stagliata in piedi con lo sguardo perso all’orizzonte – opera dello scultore triestino Mascherini è sistemato oggi nel parco del Miramare, poco distante dal monumento realizzato da Schilling nel 1875, raffigurante l’imperatore Massimiliano. Accomunati dunque non solo dal destino, ma anche dalla collocazione post-mortem in quel parco (affidato ai grandi giardinieri boemi Joseph Laube e Anton Jelinek) che il principe d’Asburgo volle tra i più lussureggianti d’Europa, con alberi e piante uniche che si possono ancora oggi ammirare: sequoie della California, librocedri, lecci, cipressi di Monterey, provenienti direttamente dal Messico, picee, frassini, maestosi cedri.

    Per completare la leggenda nera intorno al bellissimo Miramare e ai suoi effetti così esplicitamente ritenuti nefasti, dobbiamo tornare al nostro barone neozelandese di cui abbiamo parlato all’inizio del capitolo. Se dunque il comandante Freyberg fu così prudente da accamparsi all’aperto, in una tenda, ed evitare di soggiornare nel castello, vista la sua fama, non altrettanto accadde ad altri ospiti di quel periodo, di cui le cronache riferiscono i destini.

    Prima dell’arrivo di Freyberg e della liberazione da parte degli alleati, infatti, il Miramare aveva ospitato il quartier generale delle truppe di occupazione tedesche, comandate dal colonnello Friedrich Rainer, nominato Gauleiter dell’Adriatisches Kusteland, ovvero commissario superiore del litorale adriatico. Fuggito all’avanzata delle truppe alleate, cercò di rifugiarsi nei boschi della Carinzia, ma fu catturato dalle truppe americane e consegnato alle truppe jugoslave del generale Tito, che lo impiccarono nel luglio del 1947.

    Non andò meglio, con l’uguale destino di morire in un Paese straniero, lontano da casa, ad altri due ospiti di quel periodo: i generali americani Charles Moor e Vernice Musgrave McFadden, di stanza al Miramare nei giorni dell’immediato dopoguerra. Il primo morì in Corea, il secondo in un incidente stradale a Livorno, mentre stava per imbarcarsi sulla nave che avrebbe dovuto riportarlo negli Stati Uniti.

    Senza contare poi, tornando più indietro nel tempo, a quella che forse è stata l’ospite più illustre del Castello, che visitò e nel quale soggiornò in molte occasioni, tra il 1869 e il 1896 (appena due anni prima di morire): la principessa Elisabetta Amalia Eugenia di Wittelsbach, che tutto il mondo conosce con il nomignolo di principessa Sissi e che altri non era se non la cognata di Massimiliano, visto che il suo consorte era l’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe.

    La sua vicenda infelice – che ha generato una miriade di testi e di opere di fiction – comprende anche numerose visite a Trieste e al Miramare, ospite dei cognati e di Carlotta, con la quale si instaurò lungo gli anni un inevitabile rapporto di rivalità.

    Sissi, ossessionata dalla bellezza, imprigionata nel suo ruolo aristocratico, visse amarissimamente gli ultimi anni della sua vita. Dopo il suicidio dell’amato figlio Rodolfo, l’erede al trono, che si tolse la vita a Meyerling insieme alla sua amante, Maria Vetsera, quasi impazzì dal dolore, continuando a viaggiare, in preda a forti crisi depressive, fino a quel fatale giorno, il 10 settembre del 1898, quando sul lungolago di Ginevra, ancora vestita a lutto stretto e con la veletta sul viso, fu accoltellata a morte dall’anarchico Luigi Lucheni.

    Nei suoi Diari poetici, pubblicati integralmente di recente, la principessa scriveva di augurarsi e di desiderare di morire «improvvisamente, rapidamente, e se possibile all’estero».

    Una circostanza – è il nome che diamo spesso all’inspiegabile – che, a quanto pare, quel castello nel quale anch’essa aveva così a lungo soggiornato e che l’aveva ospitata al culmine della sua bellezza, non poteva evidentemente non concederle.

    2. Ca’ Dario a Venezia

    Quando nella calda estate del 1993, in pieno scandalo Tangentopoli, le agenzie di stampa diffusero la notizia del suicidio dell’imprenditore Raul Gardini, da mesi al centro delle inchieste per le vicende del crac Enimont, furono in molti a ricordarsi immediatamente della cosiddetta maledizione di Ca’ Dario, che sembrava dunque aver prodotto una nuova, illustre vittima.

    Raul Gardini aveva messo fine ai suoi giorni sparandosi un colpo di pistola alla testa nel suo palazzo Belgioioso di Milano, terribilmente scosso dalla notizia della morte in carcere di Gabriele Cagliari – l’industriale rivale e coinvolto anch’esso nello scandalo – che nelle docce di San Vittore si era suicidato infilando la testa in un sacchetto di plastica.

    Fu quasi immediato quel giorno – il 23 luglio – alla notizia della morte di Gardini, mettere in relazione la sua epopea di industriale, inarrestabile, colma di successi nel mondo, corredata di ricchezza e di una vita particolarmente agiata, con la tragica fine della sua epopea e con un piccolo, non irrilevante particolare, che metteva l’imprenditore ravennate all’ultimo posto di un lungo, incredibile elenco di disgrazie legate a un particolare luogo.

    Pianta di Venezia, con Lido sulla destra, in un’incisione cinquecentesca.

    I giornali dell’epoca ebbero dunque gioco facile nel tornare a occuparsi, dopo il suicidio di Gardini, della maledizione che sembrerebbe perseguitare ferocemente gli inquilini di Ca’ Dario, lo splendido palazzo veneziano affacciato sul Canal Grande.

    Anche Raul Gardini, infatti, da qualche anno aveva scelto l’edificio, comperato nel 1985, come sua residenza in Laguna, poco tempo dopo aver acquisito la Bavaria Assicurazioni, poi confluita in Fondiaria.

    Gardini, non essendo uno sprovveduto, era pienamente al corrente della sciagurata fama di Ca’ Dario che, come vedremo, si trasmette nel corso dei secoli, ma, come tanti prima di lui, non seppe resistere al fascino di quel gioiello quattrocentesco, di quel palazzo che Gabriele D’Annunzio aveva definito «una vecchia cortigiana piegata sotto il peso dei suoi monili».

    Una descrizione che ben si addice a Ca’ Dario e che è possibile condividere quando vi si passa davanti, navigando il maestoso Canal Grande di Venezia. È in effetti come se tutto il fascino decadente della città e anche la sua malia e la sua magia fossero racchiusi nell’aspetto di questo palazzo che si presenta visibilmente inclinato da un lato, con la sua splendida facciata ornata da mille decorazioni policrome che formano geometrie e cerchi inconfondibili.

    Il fatto che il palazzo, uno dei più antichi e nobili di Venezia, sia attualmente chiuso al pubblico e in cerca di un proprietario (diverse agenzie immobiliari specializzate nella compravendita di edifici di pregio hanno dovuto rimettere il mandato per l’impossibilità di trovare un acquirente) la dice lunga sulla leggenda nera associata all’edificio e sui suoi influssi negativi. Per spiegare il lungo elenco di disgrazie e la sorte terribile toccata a molti dei proprietari, c’è dunque chi ha tirato in ballo la tradizione esoterica legata alla città di Venezia e le presunte correnti o linee energetiche che si svilupperebbero sotto di essa e sopra le quali essa è stata costruita nel corso dei secoli. In particolare, le proprietà non benevole collegate allo stesso tracciato del Canal Grande, il cui percorso, secondo alcune interpretazioni legate al feng shui, l’arte geomantica cinese, ricalcherebbe il Grande Drago, composto di un caput (draconis) con valenza positiva e una cauda (draconis) con valenze del tutto negative.

    Queste proprietà esoteriche avrebbero dunque fortemente influenzato il destino della città e originato la fama di molte vicende misteriose: dalla leggenda legata a Giordano Bruno e al suo fantasma che aleggerebbe ancora Ca’ Mocenigo, dove soggiornò prima di essere denunciato come magus ed essere costretto a fuggire a Roma, alle altre presenze esoteriche legate al transito veneziano di Giacomo Casanova, di Cagliostro, del fantomatico conte di Saint-Germain, del massone Wolfang Amadeus Mozart, fino alla stretta contaminazione, nel corso dei secoli, della cultura veneziana dei dogi con quella ebraica (basti pensare all’isola della Giudecca, che fu il loro quartiere per molto tempo e alla grande tradizione della Qabbalah che vi si praticava) e con quella turco-musulmana, testimoniata dagli scambi mercantili, dalla produzione artistica, da molti esempi architettonici.

    Tornando dunque a Ca’ Dario, però, oltre alle teorie esoteriche legate più in generale alla città di Venezia e al Canal Grande, c’è da dire che a influenzare (e forse a generare) la sua leggenda ha contribuito anche il fatto che l’edificio fu costruito sopra un cimitero dismesso, che fonti storiche non accertate vorrebbero addirittura di proprietà dei cavalieri templari.

    Sicuramente il suolo colmo di cavità su cui fu costruito il palazzo, nel 1479, è la causa della sua inclinazione, dovuta a un progressivo, lento smottamento delle fondamenta, fermato dai recenti restauri.

    Le notizie certe riguardo a Ca’ Dario, invece, ci raccontano che fu edificato per volere di un nobile veneziano di origini dalmate, Giovanni Dario, che commissionò a uno dei più valenti architetti dell’epoca, Pietro Lombardo, la costruzione di un sontuoso palazzo sulla riva del sestiere Dorsoduro, direttamente affacciato sul Canal Grande.

    L’edificio, nelle intenzioni di Giovanni Dario, doveva costituire la degna dote della figlia Marietta, prossima alle nozze con Vincenzo Barbaro, ricco mercante veneziano proprietario di un grande palazzo nobiliare in Campo San Vio.

    Purtroppo furono proprio i novelli sposi a inaugurare la leggenda nera di Ca’ Dario. Il palazzo infatti, alla morte di Giovanni, avvenuta nel 1494, passò in eredità a Marietta, ma nell’arco di poco tempo una serie di tragedie si abbatté sulla famiglia. Vincenzo Barbaro, trovandosi in cattivi affari, fu accoltellato a morte; il rovescio finanziario che ne seguì depresse a tal punto la moglie da portarla al suicidio. Perfino il loro unico figlio morì vittima di un agguato, mentre si trovava in missione per la Serenissima a Creta.

    Tanto bastò per influenzare la fantasia dei veneziani, colpiti dalla rovina di una delle famiglie più in vista della città, i quali si sbizzarrirono nel trovare nuovi spunti o spiegazioni più o meno irrazionali a quel ch’era capitato.

    È nota, in particolare, la circostanza che portò qualcuno a identificare l’inquietante anagramma nascosto proprio nell’iscrizione bene in vista sulla facciata del palazzo. Giovanni Dario aveva infatti, al momento della costruzione, ordinato al suo architetto di apporre un motto sul frontone principale: Urbis genio Ioannes Darius, e cioè – come era usanza – "Giovanni Dario, in onore del genio della città [di Venezia, n.d.a.]". Fu sicuramente con grande scalpore che si scoprì che la frase di quattro parole poteva essere anagrammata in un’altra, sempre di quattro parole: Sub ruina insidiosa genero e cioè: Io genero sotto una insidiosa rovina.

    Gli eventi negativi trovavano dunque, una spiegazione: il motto rovesciato aderiva bene a un edificio bellissimo, ma dal fascino sempre inquietante che nel corso dei secoli ha finito per attrarre magneticamente grandi artisti, come John Ruskin, che nella sua celebre opera Le pietre di Venezia (The Stones of Venice, 1853) descrisse minuziosamente le decorazioni di Ca’ Dario, da cui era enormemente suggestionato, o Claude Monet, che sviluppò per questo edificio una sorta di ossessione: ritraendolo, dal settembre al dicembre del 1908, molte volte, nelle diverse ore del giorno, con giochi di luce sempre diversi.

    La maledizione di questo luogo, ai tempi di Ruskin e di Monet, aveva nel frattempo mietuto altre vittime. Rimasta in possesso della famiglia Barbaro fino ai primi dell’Ottocento, Ca’ Dario era stata finalmente venduta dall’ultimo degli eredi, Alessandro (morto nel 1839), a un certo Arbit Abdoll, ricco commerciante di pietre preziose di origini armene.

    Ma anche a lui Ca’ Dario non portò fortuna: perse tutto nel giro di pochi anni e, prima di finire in miseria, fu costretto nel 1838 a vendere il palazzo per 480 sterline a un gentiluomo inglese studioso di Venezia, Rawdon Brown. Stessa sorte toccò però anche a quest’ultimo: finì in rovina, anche a causa degli ingenti finanziamenti per il restauro di Ca’ Dario, e soltanto quattro anni dopo, nel 1842, fu costretto a vendere la casa a un conte ungherese. Brown si trasferì nel palazzo Gussoni Grimani dove rimase fino alla morte avvenuta nel 1883 (non si suicidò affatto insieme al compagno, come la leggenda nera, falsa, recitò negli anni seguenti).

    Tra l’Ottocento e il Novecento, il palazzo ospitò poi il poeta simbolista Henri de Régnier e anche a lui portò molta sfortuna. Qui contrasse infatti una grave malattia che lo costrinse ad abbandonare Venezia e a far ritorno a Parigi, dove scoprì che la moglie, già dalla fine del 1897, intratteneva una

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