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Antichità - La civiltà greca - Storia: Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 5
Antichità - La civiltà greca - Storia: Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 5
Antichità - La civiltà greca - Storia: Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 5
E-book701 pagine9 ore

Antichità - La civiltà greca - Storia: Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 5

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Info su questo ebook

È impossibile immaginare la civiltà occidentale e in particolare la civiltà europea senza che si profili ai nostri occhi il “miracolo greco” in tutta la sua compiutezza: scultura, architettura, letteratura, filosofia e scienza. Se la cultura europea è stata permeata dal pensiero giudaico-cristiano, questa influenza è passata attraverso il filtro della grecità.
Quasi due millenni trascorrono dagli inizi della fase palaziale della civiltà minoica alla fine della guerra acaica, ultimo tentativo di ribellione aperta ai Romani. Una realtà polifonica costituita da città indipendenti con un forte senso di identità civile e un’alta consapevolezza di sé.
Una storia scandita da periodi dalle forti specificità ma con altrettanti elementi di continuità: l’età minoica e micenea, l’età arcaica, in cui nasce un nuovo modo di vivere insieme (la polis e la politica), un nuovo modo di scrivere (l’alfabeto), nuovi mezzi di scambio (la moneta) e infinite altre innovazioni che fanno di questo periodo un’age of experiments; l’età classica e quella ellenistica, risorta oggi grazie all’eccezionale messe di scavi archeologici con le migliaia di testimonianze epigrafiche che sono venute alla luce, e altro ancora.
Un volume che propone in forma organica, sistematica, e approfondita la storia greca tra rigore metodologico e piacevolezza del racconto, con un’attenzione peculiare ai rapporti di contemporaneità e alla contestualizzazione di fatti e personaggi sia sotto il profilo temporale sia geografico. Un prezioso strumento di studio per comprendere appieno le complesse dinamiche che hanno coinvolto il mondo greco e le ripercussioni che hanno avuto su tutto il mondo occidentale. Per capire fino a che punto e in cosa siamo debitori di questa gloriosa civiltà.
LinguaItaliano
Data di uscita1 ott 2014
ISBN9788897514411
Antichità - La civiltà greca - Storia: Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 5

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    Anteprima del libro

    Antichità - La civiltà greca - Storia - Umberto Eco

    copertina

    Antichità - La civiltà greca - Storia

    Storia della civiltà europea

    a cura di Umberto Eco

    Comitato scientifico

    Coordinatore: Umberto Eco

    Per l’Antichità

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Lucio Milano (Storia politica, economica e sociale – Vicino Oriente) Marco Bettalli (Storia politica, economica e sociale – Grecia e Roma); Maurizio Bettini (Letteratura, Mito e religione); Giuseppe Pucci (Arti visive); Pietro Corsi (Scienze e tecniche); Eva Cantarella (Diritto) Giovanni Manetti (Semiotica); Luca Marconi, Eleonora Rocconi (Musica)

    Coordinatori di sezione:

    Simone Beta (Letteratura greca); Donatella Puliga (Letteratura latina); Giovanni Di Pasquale (Scienze e tecniche); Gilberto Corbellini, Valentina Gazzaniga (Medicina)

    Consulenze: Gabriella Pironti (Mito e religione – Grecia) Francesca Prescendi (Mito e religione – Roma)

    Medioevo

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Laura Barletta (Storia politica, economica e sociale); Anna Ottani Cavina, Valentino Pace (Arti visive); Pietro Corsi (Scienze e tecniche); Luca Marconi, Cecilia Panti (Musica); Ezio Raimondi, Marco Bazzocchi, Giuseppe Ledda (Letteratura)

    Coordinatori di sezione: Dario Ippolito (Storia politica, economica e sociale); Marcella Culatti (Arte Basso Medioevo e Quattrocento); Andrea Bernardoni, Giovanni Di Pasquale (Scienze e tecniche)

    Età moderna e contemporanea

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Umberto Eco (Comunicazione); Laura Barletta, Vittorio Beonio Brocchieri (Storia politica, economica e sociale); Anna Ottani Cavina, Marcella Culatti (Arti visive); Roberto Leydi † , Luca Marconi, Lucio Spaziante (Musica); Pietro Corsi, Gilberto Corbellini, Antonio Clericuzio (Scienze e tecniche); Ezio Raimondi, Marco Antonio Bazzocchi, Gino Cervi (Letteratura e teatro); Marco de Marinis (Teatro – Novecento); Giovanna Grignaffini (Cinema - Novecento).

    © 2014 EM Publishers s.r.l, Milano

    STORIA DELLA CIVILTÀ EUROPEA

    a cura di Umberto Eco

    Antichità

    La civiltà greca

    Storia

    logo editore

    La collana

    Un grande mosaico della Storia della civiltà europea, in 75 ebook firmati da 400 tra i più prestigiosi studiosi diretti da Umberto Eco. Un viaggio attraverso l’arte, la letteratura, i miti e le scienze che hanno forgiato la nostra identità: scegli tu il percorso, cominci dove vuoi tu, ti soffermi dove vuoi tu, cambi percorso quando vuoi tu, seguendo i tuoi interessi.

    ◼ Storia

    ◼ Scienze e tecniche

    ◼ Filosofia

    ◼ Mito e religione

    ◼ Arti visive

    ◼ Letteratura

    ◼ Musica

    Ogni ebook della collana tratta una specifica disciplina in un determinato periodo ed è quindi completo in se stesso.

    Ogni capitolo è in collegamento con la totalità dell’opera grazie a un gran numero di link che rimandano sia ad altri capitoli dello stesso ebook, sia a capitoli degli altri ebook della collana. Un insieme organico totalmente interdisciplinare, perché ogni storia è tutte le storie.

    Introduzione

    Introduzione

    Marco Bettalli

    Nelle mappe del tempo, imprecisi e opinabili strumenti che utilizziamo per orientarci quando viaggiamo nel passato, la storia greca occupa un territorio immenso: quasi due millenni trascorrono infatti dagli inizi della fase palaziale della civiltà minoica (2000 a.C. ca.) alla fine della guerra acaica, ultimo tentativo di ribellione aperta ai Romani (146 a.C.); e lasciamo da parte, in questo computo, i non del tutto irragionevoli tentativi di proseguire la storia greca ad libitum. Adottando infatti un criterio basato sul concetto, diffuso nel mondo anglosassone, di Hellenism (traducibile con grecità), certo non privo di suggestioni culturali, si potrebbe scavalcare non solo il 30 a.C. (canonica fine dell’età ellenistica con l’esaurirsi della dinastia lagide in Egitto), ma tutta la storia dell’impero romano, per giungere fino alla caduta dell’impero bizantino nel 1453, se non alla Grecia moderna! Tutto ciò, del resto, apparirà meno incredibile quando si rifletta, al di là del banale dato della lingua, sulla compattezza e alta coscienza di sé di cui ha dato prova per sei secoli l’ellenismo, e ancora di più, se si pensa a Bisanzio, la nuova Roma (Paul Veyne).

    Tali dimensioni, che la rendono, per esempio, notevolmente più lunga della stessa storia romana, non sono attribuite alla storia greca da sempre: le mappe del tempo, come quelle geografiche, vengono infatti aggiornate di continuo, a volte per motivi oggettivi (scoperte, nuove acquisizioni), più spesso per motivazioni culturali non sempre esplicitate.

    Una volta, in effetti, le mire territoriali della nostra disciplina erano assai più modeste: dopo un’impacciata introduzione relativa all’età eroica e arcaica, ci si limitava a narrare le vicende intercorse tra le riforme di Clistene ad Atene (508 a.C.) e la perdita della libertà greca a Cheronea (338 a.C.), con l’aggiunta di un bel capitolo su Alessandro Magno e pochi cenni frettolosi sul periodo successivo, tanto per riuscire a passare il testimone, con qualche fatica, ai Romani, e quindi alla storia romana: un altro territorio, più sicuro e ben conosciuto, della cui importanza e nobiltà nessuno poteva dubitare.

    Questa storia greca in formato ridotto, limitata di fatto all’età classica, è frutto di una forma mentis molto più potente di quanto non si immagini, come si conviene, peraltro, a un atteggiamento culturale che era vivo già durante l’impero romano, quando i Greci sottomessi erano soliti esaltare le gesta dei loro compatrioti dell’epoca d’oro, la cui conclusione era già fissata a Cheronea. Ancora oggi, per esempio, a livello scolastico (e, in qualche deprecabile caso, a livello universitario), complice anche il misero tempo dedicato all’insegnamento della storia, l’età micenea e, ancor più, l’età ellenistica sono palesemente sacrificate, quando non del tutto dimenticate: una visita guidata all’acropoli e alla vicina Pnice per ascoltare un discorso di Pericle sulla democrazia ateniese, invece, anche il più distratto degli insegnanti non lo farà mancare ai suoi alunni. Senza contare che appare ormai inestirpabile, anche per consolidate tradizioni accademiche, la consuetudine di considerare storia greca e romana due territori separati e autonomi, tra i quali non solo esistono dei confini – non privi, peraltro, di zone a doppia sovranità: è impossibile, per esempio, non trattare due volte, la prima nella storia greca, la seconda nella storia romana, le guerre macedoniche (III-II sec. a.C.), ugualmente va riconsiderata la distanza cronologica che pone la storia greca prima della storia romana, quando ne è, in larghissima misura, contemporanea e comunque compartecipe di una più vasta e culturalmente sensata storia del Mediterraneo antico.

    Fonti

    La tirannia dell’età classica – e, in particolare della città di Atene – sulla storia greca nasce, in ultima analisi, dall’accentrarsi sull’Atene classica di buona parte delle fonti letterarie a nostra disposizione; non va dimenticato, a questo proposito, che i tre grandi storici del V e IV secolo a.C. di cui ci è giunta l’opera completa – Erodoto, Tucidide, Senofonte – sono ateniesi, o comunque gravitano su Atene.

    Nel Seicento, e ancora nel Settecento, quando le prime cattedre incentrate sullo studio della civiltà greca (la storia non era di solito considerata una materia a sé stante) si fanno lentamente e faticosamente strada nelle università europee, la storia greca che viene insegnata coincide in buona sostanza con le narrazioni dei grandi storici e di Plutarco. Complessi di inferiorità nei confronti di nomi tanto venerati, inesistenza delle fonti alternative – quali l’archeologia – concorrevano a questo risultato.

    Certo, l’Altertumswissenschaft (scienza dell’Antichità) irradiatasi dalle università germaniche ai maggiori paesi europei nel corso dell’Ottocento, elaborò e affinò molti altri strumenti per lo studio dell’antichità classica. Ma non intaccò comunque il predominio dei testi scritti in un’ideale gerarchia delle fonti a disposizione dello storico.

    Lo spazio enorme che oggi viene presidiato – non senza qualche difficoltà – dalla storia greca è il risultato di una fondamentale differenziazione delle fonti utilizzate dagli storici per ricostruirla. Vediamone dunque i casi particolari.

    Minoici e Micenei

    Il primo allargamento della storia greca, spettacolare in termini di anni, si è verificato con l’annessione della civiltà micenea e della fase palaziale della civiltà minoica. Parlavamo di fonti: in questo caso, la frattura è palese negli strumenti che abbiamo utilizzato e utilizziamo per conoscere e interpretare il mondo minoico e miceneo; essi derivano esclusivamente dagli scavi archeologici, compresi i pochissimi documenti scritti, puramente amministrativi, conservati in tavolette di argilla, redatte in una scrittura sillabica, la cui decifrazione da parte di Michael Ventris e John Chadwick, agli inizi degli anni Cinquanta del secolo scorso, è un’epopea che ci ricorda Champollion e tante storie appassionanti che una volta leggevano i ragazzi, sognando di diventare archeologi.

    Ulteriori elementi di frattura, oltre alle fonti a disposizione, sono evidenti: i regni micenei – e ancor più la civiltà minoica – paiono distantissimi dalla Grecia soprattutto da un punto di vista che potremmo genericamente definire politico: le strutture verticistiche proprie di entrambe le civiltà, con a capo un sovrano assoluto che dialoga con i suoi pari ittiti o mesopotamici, quando non addirittura con il faraone egizio, non hanno nulla a che fare con le dimensioni e la cultura politica della polis, tendenzialmente egualitaria.

    È anche vero, però, che gli elementi di continuità sono altrettanto evidenti. Tra essi, la continuità geografica è la più immediatamente percepibile; teatro della civiltà minoica e della civiltà micenea sono il mare Egeo, di cui Creta è l’isola più grande, e poi il Peloponneso, e la Grecia tutta: la Pilo di Nestore è a pochi chilometri dalla Sparta di Menelao, e Micene non è molto distante da Atene, sulla quale si diceva avesse regnato Teseo. Ma più importante ancora è la continuità linguistica: come ha dimostrato la decifrazione delle tavolette in Lineare B, i Micenei e i Greci delle età successive parlavano sostanzialmente la stessa lingua, sia pure con differenze dialettali; e tutti sappiamo ormai come la lingua sia il fattore di gran lunga più importante per individuare un popolo, mentre DNA, fattori culturali e quant’altro non fanno che dimostrare con sempre maggiore chiarezza come i popoli siano un guazzabuglio di incroci, sovrapposizioni, mescolanze di ogni genere. Non mancano, infine, continuità culturali di grande rilievo, tra le quali è d’obbligo ricordare il fatto che Micenei e Greci avevano in comune la venerazione di molti dèi, a formare una religione politeistica viva e profondamente sentita.

    Ovviamente, la continuità linguistica – e anche certe continuità culturali, quali quella religiosa – non sono accostabili alla civiltà minoica. Ciò che rende plausibile e culturalmente imprescindibile l’inserimento dei Minoici nella storia greca è il fatto che non è possibile pensare i Micenei senza i Minoici: i primi derivano infatti molte delle loro caratteristiche – ne citiamo una sola, la più importante: l’idea di stato, il cui centro è quella struttura del tutto particolare che è il palazzo – dai secondi. Entrambi fanno parte dello stesso mondo: lo sapevano in qualche misura anche i Greci, che infatti inserivano Minosse – il mitico sovrano di Creta, da cui Arthur Evans trasse il nome della civiltà – all’interno del loro spazio mitico.

    I Greci e l’età eroica

    Le straordinarie avventure culturali che portarono, tra fine Ottocento e primissimi anni del Novecento, all’irruzione della civiltà micenea e poi della civiltà minoica nella memoria storica europea, grazie rispettivamente a Heinrich Schliemann e Evans, non ci devono far dimenticare il sottile filo che da sempre ha mantenuto viva la memoria del mondo egeo del II millennio a.C., anche tra gli stessi Greci dell’età arcaica e classica. Tale filo è costituito dalle narrazioni mitiche; in particolare, dall’Iliade e dall’Odissea.

    I Greci intrattengono con i loro antenati rapporti altrettanto complessi dei nostri, anche se completamente diversi. Non sanno quasi nulla, da un punto di vista prettamente storico, dei Micenei e tanto meno degli antichi abitatori di Creta; non sono infatti in grado di fornire nomi e cronologie sia pure vagamente attendibili. Non hanno neppure molte vestigia archeologiche da misurare e calpestare: soprattutto non possiedono gli strumenti che oggi permettono ai resti del passato di parlare. Grazie al lavoro di generazioni di archeologi, noi abbiamo sotto gli occhi molto di più, pur avendo – per così dire – 2500 anni di svantaggio.

    Ma hanno, appunto, Omero. L’Iliade e l’Odissea sono i libri sacri dei Greci, la loro enciclopedia tribale (Eric Havelock). Sono ambientati in un passato non ben precisato, che almeno in parte è identificabile con l’età micenea. Tutto ruota intorno alla guerra di Troia, che del mondo miceneo avrebbe segnato il momento più alto e insieme l’inizio della dissoluzione; come tutti sappiamo, la guerra di Troia – o meglio, un breve momento di essa – costituisce l’argomento dell’Iliade ed è sottesa a buona parte della narrazione dell’Odissea. Al contrario degli studiosi moderni, che nutrono giustificati dubbi sulla realtà storica della guerra, in un dibattito senza fine che non è il caso di riannodare in questa sede, i Greci di ogni epoca credono senza alcuna esitazione a quanto narra il sommo poeta della loro identità collettiva. Non ha dubbi in proposito neppure Tucidide, a nostra conoscenza il greco che più si è avventurato nella riflessione sul passato e sulla possibilità di ricostruirlo.

    Il fatto che le coordinate cronologiche di tale credenza fideistica siano assai poco salde, che non sia possibile in alcun modo tessere le fila di una narrazione attendibile e consequenziale, non impedisce ai Greci di attribuire enorme importanza alla loro età eroica: non solo in età classica e nelle epoche successive, quando le prove dell’influenza di Omero nella società della polis e nel sistema educativo greco sono palesi, ma anche nelle Dark Ages (il periodo di raccordo tra età micenea ed età arcaica), quando il culto degli eroi è praticato presso le tombe attribuite ai grandi antenati protagonisti delle vicende che gli aedi vanno cantando in ogni comunità sparsa nell’Egeo.

    L’età arcaica: problemi di metodo

    L’apporto dell’archeologia non si limita all’acquisizione del II millennio a.C. e delle Dark Ages nel territorio della storia greca. Essa risulta ormai decisiva anche per una riconsiderazione – più ricca e sfaccettata – dell’età arcaica (800-500 a.C. ca.). Non è un caso che i più importanti studiosi dell’età arcaica degli ultimi decenni abbiano avuto una formazione prettamente archeologica. Lo studio della ceramica, delle necropoli, degli insediamenti, dei manufatti di questo lungo periodo, venuti alla luce nelle centinaia di scavi che hanno interessato l’intero mondo egeo nel corso dell’ultimo secolo, ha permesso di scrivere pagine nuove sulla storia di questa straordinaria epoca, che ha visto la nascita e lo sviluppo di un nuovo modo di vivere insieme (la polis e la politica), di un nuovo modo di scrivere (l’alfabeto), di nuovi mezzi di scambio (la moneta) e di infinite altre innovazioni: the age of experiment, è stata giustamente chiamata da Anthony Snodgrass, uno dei grandi archeologi cui accennavamo.

    Anche le conquiste più lineari hanno i loro nodi nascosti. Il principale scontro metodologico attuale, nella storia greca (quanto meno in Italia e in altri Paesi: nel mondo anglosassone il decisivo apporto dell’archeologia è ormai scontato), risiede nel fatto che coloro che riconoscono l’importanza dell’archeologia e ne adoperano le acquisizioni per fondare una grammatica interpretativa dell’età arcaica tendono a mettere in secondo piano, quando non a disconoscere in modo aperto, l’autorità delle fonti alternative per la ricostruzione di quei secoli: stante la drammatica scarsezza dei documenti coevi, che tutti valorizzano ma che sono, appunto, pochi, e quei pochi spesso di ardua interpretazione, le fonti alternative non possono essere che gli stessi Greci che, in età successive, provarono a gettare una qualche luce sul loro passato. Qualche passo dei grandi storici, ovviamente; ma soprattutto opere come la Politica e la Costituzione degli Ateniesi di Aristotele, o, ancora, un complesso ricco e variegato – quanto drammaticamente frammentario – di fonti storiografiche locali, rivolte a dare lustro alla propria polis, ricostruendone le vicende passate.

    Ora, da un certo punto di vista non vi sarebbe motivo per una tale querelle: la documentazione è talmente carente che dovrebbe – e in qualche misura, certamente, lo è – essere utilizzata tutta, senza alcuna remora.

    Ciò non toglie che, presso alcuni storici, la vecchia abitudine di considerare l’archeologia ancillare alla storia, impiegata al più per confermare o gettare qualche ombra di dubbio sui dati letterari, che restano centrali, rimane. In forma più elegante: considerato che l’archeologia sarebbe volta a cogliere solo la lunga o la lunghissima durata, risultando così inutile per ricostruire i fatti, i personaggi; e considerato che la storia non si può limitare a nutrirsi di lunghe durate, nei casi dubbi è opportuno mettere da parte l’archeologia.

    Un caso emblematico è quello relativo all’arrivo nel mondo greco dei Dori: ormai nessuno più adotta il concetto di invasione che avrebbe portato alla fine della civiltà micenea (un’invasione da nord, ovviamente e, un po’ meno ovviamente, di uomini alti e biondi, tanto per accontentare gli studiosi ottocenteschi delusi dell’aspetto un po’ troppo mediterraneo dei Greci loro contemporanei), ma molti storici sono ancora affezionati all’identificazione dei Dori con un popolo che da marginale, attraverso un lungo e complesso processo di infiltrazione, diventa centrale nella storia di molte zone della Grecia, in primo luogo nel Peloponneso; e ne cercano le tracce negli autori antichi, inclini a utilizzare senza remore i concetti di stirpe e di popolo come realtà in grado di incidere sulle strutture sociali e politiche delle varie comunità.

    Gli archeologi, semplicemente, non credono all’esistenza dei Dori, basandosi sulla solida certezza che mai nessuno ha rinvenuto un qualsivoglia manufatto che sia attribuibile ad uno specifico popolo dorico. I Dori, in effetti, non hanno lasciato tracce materiali: da qui la sensata decisione di definirli per quello che probabilmente erano, dei Greci che parlavano un dialetto – molto riconoscibile, con le vocali più aperte – che chiamiamo appunto dorico. È questa la strada seguita anche nei testi che seguono, i quali, pur nel rispetto delle opinioni di ciascun collaboratore, prendono il meno sul serio possibile i concetti di stirpe, popolo, nonché le canoniche – una volta – divisioni tra Ioni, Dori ed Eoli e tutte le derive potenzialmente pericolose che ne possono conseguire.

    Dall’altra parte, il furore iconoclasta di quanti ritengono inaffidabili le pazienti ricerche dei Greci antichi su se stessi e considerano non solo i frammenti – tanto per fare un esempio – degli storici locali di Atene, ma anche lo stesso Aristotele, o come pedanti antiquari capaci solo di accumulare dati senza distinguere tra invenzioni, miti, realtà storiche, attualizzazioni, rielaborazioni; o – peggio – come falsari più o meno consapevoli che – primi di una lunga genia di pseudostorici – avrebbero utilizzato narrazioni incontrollate sul passato per fini politici e ideologici attinenti ai problemi contemporanei; insomma, quanti li considerano, per un motivo o per l’altro, inattendibili o comunque da maneggiarsi con estrema cautela, paiono a volte andare un po’ sopra le righe.

    Ciò non toglie che, come ricorda il grande storico Moses Finley, i Greci di età classica sapevano sulla loro età arcaica, complessivamente, molto meno di quanto ne sappiamo noi e, nonostante gli sforzi di Tucidide e pochi altri, i loro standard metodologici per quanto attiene al concetto di ricostruzione storica erano lontani dai nostri. Quindi, riteniamo che una certa cautela nell’impiego di tali fonti sia quanto meno salutare.

    L’età ellenistica

    Soffermiamoci ora sull’allargamento all’altro capo della cronologia della civiltà greca. Indubbiamente, comunque la si voglia chiamare, l’età che definiamo ellenistica, sulla scorta di Johann Gustav Droysen, non aveva bisogno di essere dissotterrata come Micene o Troia, ma recuperata da un oblio inconsapevole sì: il problema è ancora una volta legato alle fonti a nostra disposizione.

    Da una parte ci sono – li abbiamo già citati, e poi li conoscono tutti – i grandi storici della classicità, indiscussi domini del periodo aureo della storia greca, i quali coprono gli anni che giungono alla celebre battaglia di Mantinea (362 a.C.), dopo la quale il vecchio Senofonte interrompe la sua narrazione, arrendendosi alla sopravvenuta consapevolezza, come capita a molti vecchi, di non capire più il mondo nel quale vive.

    Grazie a Diodoro Siculo, soprattutto, ad Arriano e ad altri storici dell’età romana, è stato possibile allargare tale periodo agli ultimi cinquant’anni del IV secolo a.C.: sono giunte fino a noi narrazioni storiche continue fino al 301 a.C., anno in cui, con la battaglia di Ipso, scompare la grande figura di Antigono Monoftalmo.

    Dall’altra parte del filo cronologico troviamo i Romani e la conquista romana del mondo greco; storiograficamente, il cantore della conquista è Polibio, che inizia la sua narrazione a partire dal 264 a.C. (ma più analiticamente dal 220 a.C.). Per gran parte del III secolo a.C., il cuore dell’età ellenistica, è avvenuta la rottura della catena storiografica: non abbiamo infatti, per quegli anni cruciali, alcuna narrazione storica continua conservata.

    Non è un caso che tale rottura si sia verificata in un periodo debole: allo stesso modo in cui l’epoca è considerata debole nei manuali scolastici, tale fu considerata in passato, stretta com’era tra l’età classica, Alessandro e l’epoca romana.

    Ora, a partire dai lontani anni Quaranta del XX secolo, quando uscì la meravigliosamente documentata (su basi archeologiche), avvincente, quanto visionaria Social and Economic History of the Hellenistic World di Michail Rostovzev, l’epoca ellenistica è risorta, grazie a un’eccezionale messe di scavi archeologici in grado di restituirci, tra le tante cose, migliaia e migliaia di testimonianze epigrafiche, che personaggi come Louis Robert hanno contribuito a decifrare, collazionare, inserire in serie continue, capire insomma.

    Capire che il mondo ellenistico è un mondo ricchissimo, nella sua globalizzazione, di stimoli per la comprensione della nostra stessa epoca, per nulla appiattito sul ricordo di un passato glorioso ma lontano, per nulla in attesa dei Romani, un popolo barbaro fra i tanti che circondavano l’enorme distesa delle terre ormai greche per lingua e cultura.

    Ritorno all’età classica

    Sarebbe insensato, in questa presentazione, trascurare del tutto l’età classica: il fatto che esistano altri splendidi monumenti in Grecia non vuol dire che non si debba visitare l’acropoli. In questo caso, meno rivoluzioni di metodo e di fonti (anche se, per esempio, l’enorme lavoro compiuto da Mogens Herman Hansen e da altri studiosi sul materiale epigrafico di Atene ha consentito una conoscenza dei meccanismi organizzativi della democrazia impensabile qualche tempo fa), ma molte domande nuove: ogni periodo storico si inventa le sue a partire dalle istanze contemporanee, per dare nuova vita al passato.

    Al centro dell’attenzione, e non potrebbe essere diversamente, c’è l’esperimento democratico ateniese. Impossibile in una breve presentazione come la presente riassumere il dibattito storiografico sull’argomento. Almeno una domanda preliminare, però, va posta: è un esperimento che ci riguarda? Vale a dire, esiste una strada che ci permetta veramente di confrontare la democrazia ateniese di Pericle e Demostene con le moderne democrazie? Ormai quarant’anni fa, Moses Finley percorse questa strada nel suo La democrazia degli antichi e dei moderni, traendone riflessioni nobili e sempre attuali; in modo un po’ più superficiale, gli estensori della recentissima Costituzione Europea hanno ritenuto di inserire un passo del celeberrimo epitaffio di Pericle, tratto dal II libro di Tucidide (Il nostro sistema politico [...] per il fatto che il governo non è nelle mani di pochi ma della maggioranza, si chiama democrazia), nel preambolo di detta Costituzione, a impreziosirne il dettato e a suggerire una continuità che nessuno ha interesse a mettere in discussione, come invece discutibile e foriero di polemiche senza fine sarebbe stato il riferimento alle radici cristiane dell’Europa. Peccato che, come ha mostrato Luciano Canfora, la citazione relativa alla parola democrazia sia poco appropriata e si sia fatto uso di una traduzione quanto meno assai sciatta.

    Premesso che le vicende della democrazia ateniese sono di eccezionale interesse e che costituiscono senza ombra di dubbio un’esperienza in larga misura unica, capace tuttora di indurci a molte riflessioni utili per migliorare le nostre regole di convivenza e ispirare nuove soluzioni ai problemi che ci troviamo continuamente di fronte, oggi nessuno più dovrebbe sottovalutare la distanza che ci separa dall’Atene classica: in termini banalmente numerici (che si traducono nella contrapposizione democrazia diretta versus democrazia rappresentativa), ma anche, diremmo, antropologici.

    Allo stesso modo, nessuno penserà più (almeno, spero) che la battaglia di Maratona (490 a.C.) ci abbia salvato dal diventare – tutti noi europei – schiavi del despota orientale: un pensiero stupido, oltre che politicamente scorretto. O nessuno, ormai, crede – come molti credevano nell’Ottocento – che la formazione di uno stato nazionale greco sotto l’egida macedone fosse un processo storico naturale, sovrapponibile alla creazione della Germania e dell’Italia sotto l’egida della Prussia e del Piemonte più di 2000 anni dopo, con la conseguente condanna di Demostene che vi si opponeva.

    Insomma, il passato può ispirare un’interpretazione del presente, o più facilmente, è possibile comprendere il passato attraverso esempi più vicini a noi: ma è comunque una terra straniera, che non va resa artificialmente troppo familiare.

    Naufragi

    Come dobbiamo porci, oggi, nei confronti dello studio della storia greca? Quanto detto va nella direzione di considerarla, dopo tutto, una storia come tutte le altre. Per contrastare l’irritante familiarità che a volte – negli ambiti più inaspettati – alcuni manifestano nei confronti di essa, ricorderemo che la storia greca fa parte di quella che si suole chiamare storia antica e che condivide con altre storie così lontane nel tempo un’eccezionale limitatezza della documentazione.

    Forniremo solo qualche esempio degli infiniti che sarebbe possibile elencare: delle pagine di storici greci vissuti tra il V secolo a.C. e il II secolo d.C. stime molto approssimate ci suggeriscono che ne sono sopravvissute non più di una su cento, forse meno; tutta la storia della nascita e dello sviluppo delle istituzioni della polis nel mondo greco tra VIII e VI secolo a.C. – stiamo parlando di centinaia e centinaia di comunità sparse in tutto il Mediterraneo – si basa su meno di una dozzina di documenti epigrafici e accenni quasi sempre vaghissimi e controversi in fonti posteriori di molti secoli; di città di straordinaria importanza come Argo o Corinto in età classica – l’età comunque più conosciuta – per interi decenni non abbiamo alcuna notizia che ci illumini sulle istituzioni, sulle dinamiche sociali o economiche. Persino se ci volgiamo ad Atene, di gran lunga la polis a noi più familiare, storici di provatissima serietà e capacità ne hanno stimato la popolazione schiavile tra 20 mila e 400 mila esseri umani: si converrà, una forbice un po’ eccessiva, che fa cambiare totalmente – adottando un estremo o l’altro – l’immagine della società ateniese nel periodo della democrazia.

    Se questo accade per l’Atene classica, che pure possiamo dire, in qualche misura, di conoscere relativamente bene, figuriamoci quale sia lo stato delle nostre conoscenze per Sparta: se fare storia – come afferma Paul Veyne – è dare corpo alle nostre fantasie fuori dalle ore di lavoro, riguardo alla città sulle rive dell’Eurota è difficile persino fantasticare. Atene, forse, la possiamo almeno immaginare, Sparta no: i rapporti interpersonali, interni agli spartiati o tra loro e la popolazione, assai più numerosa, che li circondava, animata dal desiderio di mangiarseli crudi (lo dice Senofonte, che conosceva bene Sparta), i modi di salutarsi, i piccoli gesti, la geografia stessa di una città che non era una vera città, ma un agglomerato di villaggi sparsi, la dimensione privata di persone che vivevano pochissimo o per nulla in famiglia, rifugio confortevole della nostra immaginazione proprio perché presente in un’infinità di comunità umane in ogni tempo, tutto ci sfugge, o quasi.

    Salvare Pericle

    Eppure, questo tentativo di equiparare i Greci – per dire – ai Sumeri, pur, a nostro parere, lodevole, perché permette di chiarire molti equivoci, non ci deve far smarrire la consapevolezza, ben salda nella nostra tradizione culturale, che i Greci non sono come gli altri.

    Non è per far rientrare all’ultimo momento il ben noto concetto del miracolo greco, che sottende una considerazione smisurata per un popolo geniale: già da molto tempo è stata dimostrata la fallacia di un tale approccio, in considerazione degli infiniti debiti che i Greci hanno contratto – come tutti – con altri popoli (in primo luogo, quelli orientali) per le loro creazioni intellettuali.

    È che non possiamo dimenticare la monumentale importanza della cultura classica nel sistema educativo delle società europee, quanto meno per tutto l’Ottocento e una parte consistente del Novecento.

    In quegli anni le cosiddette classi dirigenti di una qualsiasi nazione europea conoscevano – e non superficialmente – il latino e il greco. Per queste persone, Solone, Pericle, Demostene e Alessandro erano quotidiani compagni di viaggio e protagonisti di infiniti aneddoti sempre ripetuti: questi ultimi, in particolare, erano forniti dalle Vite parallele di Plutarco, uno dei testi più fortunati della storia dell’umanità.

    È inoltre fin troppo ovvio ricordare che parole come democrazia, aristocrazia, oligarchia o come politica derivino non solo astrattamente dal greco, ma concretamente dall’esperienza quotidiana dei cittadini delle poleis (ed è su queste tematiche che abbiamo organizzato in buona parte l’indice del volume); inutile sottolineare, infine, per noi italiani, come templi, necropoli, impianti urbanistici delle poleis di Magna Grecia e Sicilia convivano tuttora con le città moderne.

    Meno scontato rammentare, visto che è di storia greca che ci occupiamo, che la parola storia ha avuto origine in Grecia: deriva da histor, il testimone, colui che ha assistito a un avvenimento e quindi è in grado di riferirne (nell’etimologia troviamo infatti la stessa radice del verbo vedere). E se uno sguardo al passato e una confusa consapevolezza che gli eventi passati possono influenzare il presente (soprattutto in termini religiosi: per esempio, la maledizione di una catastrofe naturale in seguito al mancato rispetto di giuramenti e altri accordi con la divinità) sono diffusi già nel II millennio a.C. in altre civiltà, l’indagine sul passato da parte di uno storico, svincolato da obblighi con sovrani, sacerdoti e altri rappresentanti del potere, è invenzione dei Greci; così come sono figli della società della polis Erodoto e Tucidide, veri e propri eroi fondatori delle discipline storiche, con i quali lo storico nei secoli a venire ha dovuto confrontarsi, e in qualche misura continua a farlo.

    Per concludere, la storia greca si trova in una dimensione ambigua. È, da una parte, irrimediabilmente lontana. Sono lontani i protagonisti e i semplici abitanti delle sue poleis: lontani come mentalità, come atteggiamento verso il mondo, come abitudini; la lontananza è acuita, come abbiamo ricordato, dalla irrimediabile perdita della stragrande maggioranza delle testimonianze e dalla inquietante casualità delle modalità di selezione del poco che ci è rimasto. Ma i Greci ci paiono anche pericolosamente vicini, troppo vicini: da lì partono processi non sempre condivisibili di attualizzazione di un’eredità comunque centrale nella nostra cultura.

    Già Maurizio Bettini, qualche anno fa, si soffermò sulla vicinanza/lontananza dei classici: l’evoluzione del nostro mondo sembra andare nella direzione dell’oblio indistinto, interrotto da recuperi casuali, più che dell’acquisizione di una corretta distanza, salutare per affrontare lo studio della storia greca come qualsiasi altra storia, specie così remota cronologicamente. E questo non può essere un bene: salvare Pericle dall’oblio, senza pensarlo come un politico dei nostri tempi (non converrebbe né a noi, né, soprattutto, a lui...), è un compito difficile, ma forse non impossibile.

    L’Egeo nel II millennio

    Alle origini della civiltà greca: Minoici e Micenei

    Anna Lucia D’Agata

    Civiltà minoica, civiltà micenea e Dark Ages – i secoli compresi tra la fine della civiltà palaziale e la nascita della polis – corrispondono alle fasi della storia del mondo egeo cui è necessario guardare per comprendere la formazione della civiltà greca arcaica e classica. È un mondo rivelato dall’archeologia negli ultimi 150 anni: ai suoi inizi troviamo la civiltà minoica, fiorita a Creta nella prima metà del II millennio a.C. e considerata la più antica esperienza statale su suolo europeo.

    I Greci e il loro passato: perché Minoici e Micenei fanno parte della storia greca

    Se a un Ateniese colto dell’età di Pericle avessero chiesto di parlare della storia più antica delle città greche, egli non avrebbe avuto difficoltà a raccontare le innumerevoli leggende che circolavano al suo tempo su fatti, dèi ed eroi del glorioso passato che ogni città della Grecia antica era orgogliosa di vantare. A tale passato si attribuivano spesso costruzioni monumentali, ciclopiche, appunto, i cui resti erano in vista da secoli.

    Alla tradizione letteraria greca, da Omero in poi, era ben chiara l’esistenza di una età eroica che aveva preceduto le grandi realizzazioni dell’età classica e con la quale la Grecia di Pericle e Fidia si poneva in stretta continuità. Ne erano stati protagonisti, tra gli altri, Teseo, l’eroe ateniese che aveva sconfitto a Creta il Minotauro; Menelao, re di Sparta, e la moglie Elena, alla cui infedeltà si attribuiva lo scoppio della guerra di Troia; Agamennone, il potente re di Micene e capo dei Greci che lottarono contro Troia. La lista, com’è ovvio, potrebbe essere assai più lunga. Ma se allo stesso Ateniese colto fosse stato chiesto di indicare con esattezza a quanto indietro nel tempo risalissero eroi, leggende ed eventi narrati dal mito allora la risposta sarebbe stata assai vaga. Del loro passato più antico i Greci non coglievano né l’articolazione culturale né tantomeno la profondità cronologica, che si devono invece esclusivamente alla ricostruzione moderna. È grazie alle straordinarie scoperte archeologiche compiute a partire dalla seconda metà dell’Ottocento che oggi noi siamo in grado di collocare questo passato glorioso nel II millennio, all’interno dell’età del Bronzo.

    Come è documentato dalle tavolette in Lineare B, la scrittura dell’amministrazione dei palazzi micenei, nella seconda metà del II millennio a.C. era in uso una forma arcaica di greco. Non foss’altro che per questo – ma gli esempi relativi ad altri ambiti sono numerosi – la civiltà micenea deve essere ritenuta il punto di partenza di una linea di ininterrotta continuità culturale individuabile in Grecia tra la tarda età del Bronzo e l’età arcaica e classica. Ma la civiltà micenea, che si forma sul continente greco tra la prima e la seconda metà del II millennio a.C., trae origine per molti versi dalla civiltà minoica, che si forma a Creta pochi secoli prima e costituisce il primo esempio in Europa di entità politica e culturale complessa, cioè di entità statale. In tal modo non si vogliono negare le radicali trasformazioni che si verificarono in Grecia con la fine della civiltà palaziale, e che rappresentano un’autentica rottura nella storia di alcune regioni. Si vuole piuttosto sottolineare come una storia della Grecia antica non sia comprensibile senza porre il giusto accento su fenomeni di continuità e di frattura, i quali sia geograficamente sia cronologicamente devono essere isolati e apprezzati nella loro giusta dimensione. In definitiva l’unicità della Grecia classica si spiega con la forza di una tradizione che da una certa data in poi appare continua, e della quale lingua, memoria storica, comportamenti antropologicamente ricorrenti ed elementi artistici risultano parte integrante.

    Un mondo rivelato dall’archeologia: Schliemann, Evans e gli altri

    Che la Grecia sia stata sede di una delle più spettacolari civiltà dell’età del Bronzo è un’acquisizione recente: ha infatti poco più di 100 anni e si deve a Schliemann e Evans, che inaugurano la grande stagione degli scavi archeologici nel bacino dell’Egeo. Descrizioni della Grecia e dei suoi monumenti avevano raggiunto l’Europa già a partire dal Medioevo e furono numerosi i viaggiatori che per motivi di volta in volta diversi si avventurarono in quelle terre. In Occidente, inoltre, per tutta l’età moderna la mitologia greca e gli eroi cantati da Omero hanno costituito un tema prediletto dello studio sul mondo classico, sfociato nel dibattito, tuttora in corso, sulla storicità o meno delle vicende narrate nell’Iliade e nell’Odissea. Ma è stato lo sviluppo dell’archeologia come scienza che ha consentito l’avvio dei primi scavi sistematici e la scoperta di un nuovo mondo. Autori di tale scoperta sono, appunto, Schliemann e Evans. Gli scavi da loro condotti hanno per primi rivelato come Creta sia stata, nel corso del II millennio a.C. (1900-1425 a.C.), sede di una raffinata civiltà articolata intorno a palazzi sontuosi, e come tale civiltà alla metà del II millennio a.C. abbia passato il testimone a Micene e al continente greco (1600-1200 a.C.). Sia Creta sia Micene sono state capaci di espandersi fuori dai loro confini e di intrecciare intensi rapporti commerciali con altri stati e città del Mediterraneo.

    Uomo d’ingegno, animato da un’incrollabile fiducia nella tradizione classica, il tedesco Heinrich Schliemann, dopo aver accumulato un ingente patrimonio con il commercio, mette in luce i resti di Troia, di Micene (1874) e di Tirinto (1884), seguendo le indicazioni degli autori antichi, soprattutto di Omero e di Pausania. Le tombe del Circolo A di Micene, di inusitata ricchezza, sono da lui attribuite ad Agamennone e alla dinastia degli Atridi. E poco importa, verrebbe da aggiungere, se la ricerca ha più tardi dimostrato che quelle tombe sono ben più antiche rispetto al secolo in cui potrebbe aver vissuto Agamennone. A Schliemann va il merito della scoperta della civiltà micenea, che egli così denominò dalla cittadella in Argolide che aveva messo in luce.

    A pochi anni di distanza Arthur Evans, facoltoso gentiluomo dell’Oxfordshire, riesce ad acquistare i terreni cretesi dove era stato individuato il sito di Cnosso e a iniziare lo scavo del palazzo. A Evans non va soltanto il merito di aver portato alla luce il centro cretese più influente di tutta l’età del Bronzo. A lui va riconosciuta la capacità di aver creato, e imposto su scala mondiale, una visione della civiltà che egli stesso ha denominato minoica da Minosse, il mitico sovrano di Creta menzionato dagli storici della Grecia antica. A tal fine Evans promuove i restauri, ancora oggi visibili, del palazzo di Cnosso, e compone The Palace of Minos, un’opera monumentale in cinque tomi, apparsa tra il 1921 e il 1935: ad essa egli affida la sua ricostruzione, modellata sull’organizzazione dell’impero britannico di età tardo-vittoriana, della civiltà minoica. Esito ultimo della geniale invenzione evansiana è che il palazzo di Cnosso assurge rapidamente a grande mito della cultura mondiale, mentre l’attività di ricerca degli Inglesi a Creta si trasforma in un indiscusso primato nazionale.

    Sulla scia di Evans e Schliemann sono innumerevoli gli studiosi che dai primi anni del Novecento hanno contribuito alla scoperta delle civiltà preclassiche della Grecia. Christos Tsountas a Micene, Joseph Hazzidakis a Mallia, Federico Halbherr a Festòs, Harriet Boyd a Gournià, la cui attività si pone ancora entro i primi anni del Novecento, sono da considerare, al pari di Evans e Schliemann, autentici pionieri di quella grande stagione di scavo. Una seconda generazione è impersonata dall’americano Carl Blegen, che alla fine degli anni Trenta del Novecento inizia gli scavi del palazzo di Pilo in Messenia, e dai greci George Mylonas e Nikolaos Platon che negli anni Cinquanta mettono in luce rispettivamente un nuovo circolo di tombe, denominato B, a Micene, e il palazzo di Zakros all’estremità orientale dell’isola di Creta. Nello stesso torno di tempo arriva la decifrazione della Lineare B, la scrittura dei Micenei, da parte dell’inglese Michael Ventris, che la identifica come una forma arcaica di greco, rivelando l’ininterrotta linea di continuità culturale esistente tra la civiltà micenea e la Grecia classica. Agli anni Cinquanta risale anche la ripresa degli scavi di Festòs da parte di Doro Levi, che dal 1947 al 1977 dirigerà la Scuola Archeologica Italiana di Atene.

    Iniziati nel 1967 da Spiridon Marinatos, gli scavi spettacolari del sito di Akrotiri sull’isoletta di Santorini hanno rivelato l’esistenza di una nuova Pompei, una città strettamente legata alla Creta minoica e distrutta dall’esplosione del vulcano omonimo agli inizi della tarda età del Bronzo.

    A Creta gli scavi di Iannis Sakellarakis ad Archanes, quelli del canadese Joseph Shaw a Kommos e di Iannis Tzedakis ad Armenoi, hanno enormemente contribuito, nel corso degli anni Settanta, ad ampliare la conoscenza dell’età del Bronzo nell’isola. Allo stesso modo, la ripresa degli scavi di Tirinto da parte di Klaus Kilian, scavi ancora oggi in corso sotto la direzione di Joseph Maran, ha consentito di avere una visione generale del più importante centro portuale della Grecia micenea. Per sottolineare come il suolo cretese riservi ancora grandi sorprese è il caso infine di ricordare lo scavo che Iannis Sakellarakis ha avviato a Zominthos, l’unico sito minoico di montagna, collocato a 1200 metri di altezza, finora scavato.

    Infine, negli ultimi trent’anni, grazie all’adozione di tecniche e metodologie importate dalle scienze esatte, l’archeologia egea ha enormemente ampliato le metodologie e i paradigmi di ricerca. Oggi lo scavo archeologico non è più sufficiente, da solo, alla comprensione di un sito o all’indagine su un territorio. La ricostruzione contestuale dell’ambiente naturale, le trasformazioni che tale ambiente ha subito sia naturalmente sia per mano dell’uomo, e lo sfruttamento delle risorse naturali sono diventati parte integrante della ricerca archeologica. Il caso della scoperta del porto miceneo di Pilo in Messenia costituisce un eccellente esempio della trasformazione metodologica dell’archeologia egea.

    La formazione dello stato in Grecia: la civiltà minoica (1900-1425 a.C.)

    Meglio definibile come un continente in miniatura, Creta è dopo Cipro la più grande delle isole del Mediterraneo orientale e la regione nella quale per prima si è formata, in Egeo, una società complessa.

    Con la civiltà dei palazzi minoici a Creta emerge la più antica esperienza statale che sia mai fiorita su suolo europeo. Organizzazioni statali e imperiali erano già formate nel Vicino Oriente nel III millennio a.C. e avevano dato luogo a un complesso sistema di relazioni, alleanze e contatti, che includeva anche il controllo delle rotte di comunicazione e di approvvigionamento di materie prime all’interno del Mediterraneo. Nel II millennio a.C. di questo sistema entrano a far parte, sebbene perifericamente, Creta prima, con la formazione della civiltà minoica, e il continente greco dopo, con gli stati micenei. Creta e la Grecia, dunque, nel II millennio a.C. rappresentano le estreme propaggini occidentali del sistema economico e culturale creato e sviluppatosi, nel corso di più di due millenni, nel Vicino Oriente.

    L’uso del termine palazzo per l’età del Bronzo cretese si deve ad Arthur Evans e consente di cogliere bene tutto il retroterra culturale di stampo vittoriano del grande studioso a cui si deve la scoperta di Cnosso. Un palazzo evoca subito l’idea di un re e di una regina, e a Evans risale infatti l’idea che i palazzi cretesi fossero la residenza dinastica del re-sacerdote, che stava a capo di una struttura di potere organizzata gerarchicamente. La nascita dei più antichi palazzi a Creta – quelli di Cnosso, Festòs e Mallia – deve essere considerata come l’evento principale della media età del Bronzo. L’organizzazione sociale responsabile della costruzione dei palazzi prende forma intorno al 1900 a.C., mentre l’edificio come tale – una struttura architettonica monumentale articolata intorno a una grande corte centrale – ha nell’isola una storia molto più antica, che inizia nel III millennio a.C. La fondazione del palazzo coincide dunque con la formazione di un’élite in grado di trasformare la società locale da un’organizzazione fondata sui clan in una entità politica complessa, articolata in senso gerarchico e urbanizzata. Tale processo formativo sembra essere stato piuttosto rapido. A Cnosso la fondazione del palazzo si traduce anche nella costruzione di una serie di opere di pubblica utilità: il terrazzamento della collina su cui sorgeva il palazzo stesso, che consentì l’urbanizzazione dell’area circostante; i grandi contenitori per l’immagazzinamento del grano a ovest del palazzo; le strade, tra cui la Royal Road, che collegavano il palazzo al territorio circostante. La presenza di documenti scritti indica inequivocabilmente l’esistenza di un’amministrazione centralizzata, e dunque di un’élite che ne era responsabile, anche se restano poco chiare le attività economiche in cui il palazzo, nella fase più antica, era coinvolto e i limiti della regione sulla quale esso esercitava un controllo.

    Gli elementi architettonici che connotano il palazzo sono la grande corte centrale, la presenza al suo interno di un’ala destinata all’immagazzinamento e la monumentalità della facciata occidentale, che fronteggia la corte occidentale e accoglie chi arriva dalla città. Tra le funzioni primarie del

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