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Il Cinquecento - Storia (44): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 45
Il Cinquecento - Storia (44): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 45
Il Cinquecento - Storia (44): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 45
E-book681 pagine7 ore

Il Cinquecento - Storia (44): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 45

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Info su questo ebook

Il passaggio da Quattrocento segna uno snodo epocale, come sottolineato da Voltaire e da Smith, uno spartiacque drammatico in una storia che solo da questo momento può essere definita veramente mondiale, perché unificata dalle imprese di Colombo e Vasco de Gama. Il 1492 è tuttora considerato istituzionalmente il terminus a quo della storia moderna non solo per l’impresa di Colombo, ma anche per altri grandiosi eventi di immediata risonanza, quali la caduta di Granada, la morte di Lorenzo il Magnifico e la calata di Carlo VIII. Le esplorazioni del Quattro-Cinquecento provocano una vera e propria rivoluzione spaziale, che si traduce contraddittoriamente sia in una vertiginosa dilatazione degli orizzonti ormai su scala planetaria, sia in una compressione degli spazi, perché i contorni del mondo appaiono ormai definiti e misurabili. Col Cinquecento si avvia così un processo planetario di integrazione economica, politica e culturale fra spazi e popoli che sfocerà, nel XIX secolo, in una vera e propria globalizzazione.

Se il 1492 rappresenta l’avvio di un processo di unificazione, per quanto discontinuo e drammatico, il 1517 segna l’inizio della dissoluzione dell’unità spirituale dell’Occidente, che richiede una ridefinizione dell’identità europea. La frattura rappresentata dall’epoca della Riforma e Controriforma non fa che accentuare la de-sacralizzazione del mondo, della società e della natura, che spalanca prospettive – o abissi – prima impensabili nella riflessione politica, filosofica e scientifica. Per quanto riguarda la dimensione politica, invece, il Cinquecento vede da un lato l’affermazione definitiva dello Stato territoriale moderno, per lo più monarchico, come modulo di base dell’Europa moderna e contemporanea, e dall’altro l’articolazione di questi Stati in un sistema organico di relazioni, in equilibrio instabile ma durevole. In questo ebook si indagano tutti i risvolti e le implicazioni dei grandi eventi del Cinquecento che hanno determinato l’ingresso dell’Europa nella modernità.
LinguaItaliano
Data di uscita26 nov 2014
ISBN9788897514688
Il Cinquecento - Storia (44): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 45

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    Anteprima del libro

    Il Cinquecento - Storia (44) - Umberto Eco

    copertina

    Il Cinquecento - Storia

    Storia della civiltà europea

    a cura di Umberto Eco

    Comitato scientifico

    Coordinatore: Umberto Eco

    Per l’Antichità

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Lucio Milano (Storia politica, economica e sociale – Vicino Oriente) Marco Bettalli (Storia politica, economica e sociale – Grecia e Roma); Maurizio Bettini (Letteratura, Mito e religione); Giuseppe Pucci (Arti visive); Pietro Corsi (Scienze e tecniche); Eva Cantarella (Diritto) Giovanni Manetti (Semiotica); Luca Marconi, Eleonora Rocconi (Musica)

    Coordinatori di sezione:

    Simone Beta (Letteratura greca); Donatella Puliga (Letteratura latina); Giovanni Di Pasquale (Scienze e tecniche); Gilberto Corbellini, Valentina Gazzaniga (Medicina)

    Consulenze: Gabriella Pironti (Mito e religione – Grecia) Francesca Prescendi (Mito e religione – Roma)

    Medioevo

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Laura Barletta (Storia politica, economica e sociale); Anna Ottani Cavina, Valentino Pace (Arti visive); Pietro Corsi (Scienze e tecniche); Luca Marconi, Cecilia Panti (Musica); Ezio Raimondi, Marco Bazzocchi, Giuseppe Ledda (Letteratura)

    Coordinatori di sezione: Dario Ippolito (Storia politica, economica e sociale); Marcella Culatti (Arte Basso Medioevo e Quattrocento); Andrea Bernardoni, Giovanni Di Pasquale (Scienze e tecniche)

    Età moderna e contemporanea

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Umberto Eco (Comunicazione); Laura Barletta, Vittorio Beonio Brocchieri (Storia politica, economica e sociale); Anna Ottani Cavina, Marcella Culatti (Arti visive); Roberto Leydi † , Luca Marconi, Lucio Spaziante (Musica); Pietro Corsi, Gilberto Corbellini, Antonio Clericuzio (Scienze e tecniche); Ezio Raimondi, Marco Antonio Bazzocchi, Gino Cervi (Letteratura e teatro); Marco de Marinis (Teatro – Novecento); Giovanna Grignaffini (Cinema - Novecento).

    © 2014 EM Publishers s.r.l, Milano

    STORIA DELLA CIVILTÀ EUROPEA

    a cura di Umberto Eco

    Il Cinquecento

    Storia

    logo editore

    La collana

    Un grande mosaico della Storia della civiltà europea, in 74 ebook firmati da 400 tra i più prestigiosi studiosi diretti da Umberto Eco. Un viaggio attraverso l’arte, la letteratura, i miti e le scienze che hanno forgiato la nostra identità: scegli tu il percorso, cominci dove vuoi tu, ti soffermi dove vuoi tu, cambi percorso quando vuoi tu, seguendo i tuoi interessi.

    ◼ Storia

    ◼ Scienze e tecniche

    ◼ Filosofia

    ◼ Mito e religione

    ◼ Arti visive

    ◼ Letteratura

    ◼ Musica

    Ogni ebook della collana tratta una specifica disciplina in un determinato periodo ed è quindi completo in se stesso.

    Ogni capitolo è in collegamento con la totalità dell’opera grazie a un gran numero di link che rimandano sia ad altri capitoli dello stesso ebook, sia a capitoli degli altri ebook della collana. Un insieme organico totalmente interdisciplinare, perché ogni storia è tutte le storie.

    Introduzione

    Introduzione alla storia del Cinquecento

    Vittorio Beonio Brocchieri

    Il Cinquecento: La storia diventa veramente interessante…

    Nelle sue Osservazioni sul modo di studiare e scrivere la storia, Voltaire suggerisce di iniziare uno studio serio della storia all’epoca nella quale essa diventa veramente interessante per noi, e quindi alla la fine del XV secolo.... E nelle righe seguenti spiega il perché la storia diventi veramente interessante a partire dai decenni fra la fine del Quattro e l’inizio del Cinquecento: l’avanzata dei Turchi e la conquista di Costantinopoli, la fioritura artistica e letteraria del Rinascimento, la diffusione della stampa, la scoperta dell’America e di nuove rotte per l’Asia circumnavigando l’Africa, la Riforma protestante e la conseguente lacerazione della cristianità occidentale, la costituzione di un sistema organico degli Stati europei nel quale tutte le parti sono fra loro legate da una corrispondenza costante, nonostante le guerre suscitate dalle ambizioni dei sovrani o dal fanatismo religioso.

    Quello che Voltaire vuol dire è, in sostanza, che il Cinquecento è il primo secolo moderno, durante cui comincia a prendere forma il mondo come lui lo conosceva. Tra noi e Voltaire è trascorso un lasso di tempo grosso modo pari a quello che separa Voltaire da Colombo, circa 250 anni in entrambi e casi. Il nostro punto di osservazione è ovviamente molto diverso da quello del filosofo illuminista, eppure il suo giudizio rimane sostanzialmente condivisibile, e condivisibile mi sembra anche la scelta degli eventi e dei fenomeni che contribuiscono a fare del Cinquecento, e in particolare dei suoi primi decenni, uno spartiacque decisivo: mondializzazione della storia, divisione della cristianità occidentale, Rinascimento e avvio della rivoluzione scientifica, costruzione di un sistema pluricentrico di Stati sovrani.

    Un secolo di transizione quindi? Ovviamente sì, come del resto tutti gli altri. Tuttavia il mutamento storico, anche se incessante, non è un moto rettilineo uniforme. Conosce lunghe fasi di relativa stabilità interrotte da improvvise accelerazioni, seguite talvolta da rallentamenti e anche involuzioni. Periodizzare, cioè individuare, nel flusso continuo del tempo, fasi storiche dotate di una fisionomia specifica, è un esercizio difficile ma una responsabilità alla quale lo storico non può abdicare. Sono le sfasature e le asincronie a rendere questo compiuto particolarmente arduo. I diversi aspetti del mondo storico – economia, religione, società, cultura… – non mutano con lo stessa velocità. Una periodizzazione proposta a partire dai ritmi della storia politica o religiosa può risultare poco pertinente se applicata alle vicende economiche o culturali. La concomitanza cronologica di discontinuità radicali in ambiti diversi –e la loro interconnessione – è una delle ragioni per le quali è forse meno banale di quanto non sembri l’affermazione secondo cui il Cinquecento è un secolo che segna una svolta – o per lo meno l’avvio di una svolta – decisiva per i destini dell’Europa e del mondo.

    El mundo es poco: la rivoluzione colombiana

    Qualche anno dopo le osservazioni di Voltaire, un altro esponente di primo piano dell’Illuminismo, il filosofo ed economista scozzese Adam Smith individua anch’egli nello snodo fra Quattro e Cinquecento un momento di svolta epocale, uno spartiacque drammatico in una storia che solo da questo momento può essere definita veramente mondiale, perché unificata dalle imprese di Colombo e Vasco de Gama: la scoperta dell’America e quella della via verso le Indie Orientali attraverso il Capo di Buona Speranza sono i due avvenimenti più grandiosi e significativi che gli annali della storia umana ricordino.

    Il 1492 è tuttora considerato istituzionalmente il terminus a quo della storia moderna ed è una delle date che meglio resistono alla progressiva dissoluzione, nel corso della vita, delle nozioni apprese a scuola. In verità, negli ultimi decenni si è spesso preferito ridimensionare il significato di questa svolta, asserendo che il 1492 è stato una falsa frattura storica, perché per gli uomini del tempo sono stati altri gli avvenimenti che hanno avuto maggior risonanza immediata: la caduta di Granada, la morte di Lorenzo il Magnifico o la calata di Carlo VIII. Forse è vero, ma l’idea di subordinare interamente l’interpretazione a posteriori ad opera dello storico all’immediatezza della percezione del vissuto dei contemporanei non convince.

    E comunque fin dai decenni del Cinquecento gli osservatori più attenti avevano realizzato che la scoperta di un Nuovo Mondo da parte degli Europei implicava l’ingresso in un tempo nuovo: Siamo entrati in questo nostro tempo così nuovo e così diverso da ogni altro, scriveva ad esempio Bartolomé de Las Casas.

    Le esplorazioni del Quattro-Cinquecento provocano una vera e propria rivoluzione spaziale che si traduce, contraddittoriamente, sia in una vertiginosa dilatazione degli orizzonti, perché destini individuali e collettivi si giocano ormai su scala planetaria, sia una compressione degli spazi, perché le dimensioni e i contorni del mondo appaiono ormai definiti e misurabili: A partire dal 1492 – scrive Tzvetan Todorov – il mondo è chiuso… Gli uomini hanno scoperto la totalità di cui fanno parte, mentre sino a quel momento essi erano una parte senza un tutto. El mundo es poco, come aveva già intuito Colombo, ingannandosi sulle sue dimensioni fisiche ma cogliendo in fondo nel giusto. Almeno nell’ambito del Vecchio Mondo – Asia, Europa, Africa –contatti culturali, rapporti politici e scambi commerciali non erano mai mancati, nel corso dei millenni, e la storia di ciascuna delle grandi civiltà non è comprensibile se non si tengono presenti le interazioni con le altre. Tuttavia, con i viaggi e le scoperte del Quattro e Cinquecento, vi è un salto di qualità, un’accelerazione senza precedenti verso una storia effettivamente mondiale. Il senso forse più profondo del Cinquecento risiede forse proprio nell’avvio di un processo planetario di integrazione economica, politica e culturale fra spazi e popoli che sfocerà, nel XIX secolo, in una vera e propria globalizzazione.

    La Riforma

    Se il 1492 rappresenta l’avvio di un processo di unificazione, per quanto discontinuo e drammatico, il 1517 segna al contrario l’inizio della dissoluzione dell’unità spirituale della Res Publica Christiana. Per oltre mille anni quella entità che noi definiamo oggi Europa o Occidente si era definita e pensata innanzitutto come cristianità, riconoscendo nella dimensione religiosa l’aspetto qualificante della sua identità verso l’esterno e della sua pur problematica unità interna. E ancora, almeno nei primi due secoli dell’età moderna, gli Europei non immaginano il versante culturale e ideologico della loro espansione mondiale come un’opera di civilizzazione – sarà così più tardi, nel Sette e Ottocento – ma come dovere di evangelizzazione, di diffusione di una Rivelazione vissuta come verità ultima. Al di là degli oceani, gli Europei, oltre alle spezie, cercano, secondo la celebre frase forse apocrifa di de Gama, cristiani. Cristiani antichi e perduti con i quali ricongiungersi, come quelli del mitico regno di Prete Gianni o cristiani nuovi, ovvero pagani e idolatri da conquistare alla vera fede e da condurre alla salvezza. La perdita dell’unità religiosa comporta quindi una ridefinizione dell’identità europea e il fatto che la rottura di questa unità all’inizio del Cinquecento sia il precipitare di tensioni da tempo operanti nella cristianità, nulla toglie al suo carattere drammatico.

    Ma non è solo l’unità dell’Europa a essere messa in questione. Oggi, al di là delle contrapposizioni confessionali, si tende a vedere nella Riforma protestante e nella Controriforma e Riforma cattolica, due risposte diverse, più rivoluzionarie o riformistiche […], a un unico problema, quello della modernità, in un processo che vede nella sfera privata l’affermarsi di un nuovo rapporto tra la coscienza e il sacro. Privato della sua inserzione tradizionale nel cosmo, l’uomo-individuo moderno pone in primo piano il problema della ‘salvezza’ individuale, il problema teologico della ‘grazia’ che diventa centrale nei secoli dell’età moderna, sia nei paesi cattolici […] sia nei paesi riformati: l’uomo si salva per i propri meriti, per le proprie buone opere, o la corruzione dovuta al peccato originale impone l’abbandono alla predestinazione o a un’imperscrutabile misericordia divina", scrive lo storico Paolo Prodi in Introduzione allo studio della storia moderna. La frattura rappresentata dall’epoca della Riforma e Controriforma rappresenta in questa prospettiva un’altra accelerazione drammatica di processi più che secolari, quella verso una sempre maggiore trascendenza, separatezza di Dio rispetto alla Creazione, dell’uomo rispetto al Cosmo. Questa de-sacralizzazione del mondo – e quindi anche della società e della natura – spalanca prospettive – o abissi – prima impensabili nellla riflessione politica, filosofica e scientifica.

    Lo Stato e il sistema degli Stati

    Per quanto riguarda la dimensione politica, il Cinquecento vede da un lato l’affermazione definitiva dello Stato territoriale moderno – per lo più in forma monarchica, come modulo di base dell’Europa moderna e contemporanea, e dall’altro l’articolazione di questi Stati in un sistema organico di relazioni, in equilibrio certamente instabile, ma comunque durevole. Anche in questo caso gli sviluppi cinquecenteschi sono il punto d’arrivo di processi con radici profonde, e inoltre, come per le scoperte geografiche e la Riforma, la discontinuità rispetto ai secoli precedenti è netta. Il Cinquecento chiude una fase plurisecolare, quella feudale e dei poteri con aspirazioni universali – papato e impero – e ne apre un’altra destinata a durare anch’essa alcuni secoli e che forse solo ora sta tramontando: l’era appunto del sistema degli Stati nazionali, prima europeo e poi globale.

    Almeno nell’Europa occidentale, nel Cinquecento, le monarchie territoriali impongono, verso l’esterno e verso l’interno, la loro sovranità, parola chiave di questo secolo. Sul primo versante, la partita in fondo è già stata decisa, tra la XIII e XIV secolo, con le crisi concomitanti del papato e dell’impero, anche se proprio nella prima parte del Cinquecento, l’elezione di Carlo V nel 1519 era sembrata per un po’ ridare corpo al fantasma imperiale.

    Sul fronte interno gli sviluppi sono più contrastati. L’aristocrazia, i patriziati e la Chiesa riescono a conservare gran parte della loro influenza sociale, della ricchezza economica e anche una porzione certo non irrilevante del potere politico. Il Cinquecento e parte del Seicento sono punteggiati da sollevazioni e rivolte nobiliari o cittadine – promosse e guidate cioè dalle oligarchie urbane – variamente intrecciate con altre istanze, soprattutto religiose, dalla rivolta dei comuneros alla Fronda, passando attraverso il Pellegrinaggio di Grazia o le guerre di religione in Francia. Ma ognuna di queste crisi si risolve di fatto in un rafforzamento dell’autorità centrale e del potere della corona. E in ogni caso il diritto/dovere di rivolta al quale l’aristocrazia non intende rinunciare si declina ormai comunque all’ìnterno dello Stato. La posta in gioco di queste sollevazioni non è la distruzione delle istituzioni centrali ma la loro conquista.

    Ma se ormai ogni regno è un impero, per parafrasare l’ Act of Restraint of Appeals del 1533, attraverso il quale l’Inghilterra afferma la sua piena sovranità e indipendenza da ogni istanza esterna, ciò non significa che ogni idea dell’esistenza di una dimensione sovranazionale sia andata perduta con il declino dell’impero e la divisione confessionale. Questa dimensione, a partire dall’ultimo scorcio del Quattrocento si concretizza in un sistema di Stati: La grande importanza storica dell’impresa italiana di Carlo VIII di Francia nel 1494-95 – ha scritto Giuseppe Galasso – stette, appunto, nell’aver dato avvio al moderno sistema degli Stati europei […] che, stretto allora non si sarebbe più dissolto, ma si sarebbe alla fine trasformato in un sistema mondiale.

    L’orgoglio dei moderni

    Il sistema degli Stati europei ha il suo corrispettivo culturale nella Respublica literaria europea che prende forma all’inizio del Cinquecento, anch’essa, secondo lo spirito dei tempi, in forma monarchica, quando Erasmo da Rotterdam viene incoronato monarca di tutta la Repubblica delle Lettere (Amerbach).

    Questo spazio europeo di confronto intellettuale è tanto più necessario dopo la frattura confessionale che ha diviso l’Europa in campi contrapposti. Proprio questa frattura e la crisi della Riforma, insieme alla crisi del sapere europeo provocata dall’ampliamento degli orizzonti geografici e antropologici, è all’origine di quel sovvertimento intellettuale etichettato solitamente come rivoluzione scientifica. Quest’ultima viene per lo più accreditata al Seicento, e con buone ragioni, ma le precondizioni intellettuali e spirituali che la rendono possibile (e a dire il vero anche alcune delle sue prime decisive acquisizioni, basti pensare a Copernico) sono cinquecentesche.

    Come nel campo della politica, l’accentuata trascendenza apre spazi all’autonomia della riflessione e della pratica politica, così in quello della filosofia naturale il fatto che Dio sia visto non tanto come colui che interviene continuamente nel destino dell’uomo, quanto come creatore di un mondo da lui dotato di leggi sue proprie (Prodi), incoraggia e legittima l’indipendenza dell’indagine scientifica, che ha per oggetto appunto la scoperta di queste leggi, dall’annuncio della verità rivelata.

    Il sapere ereditato dalla triplice antichità – greca, romana e giudaico-cristiana – su cui l’Europa medievale e umanistica si era fondata, viene nel frattempo messo profondamente in discussione dalla sbalorditiva ondata di novità che sommerge l’Europa in seguito alle scoperte: Né solo – scrive Francesco Guicciardini – ha questa navigazione confuso molte cose affermate dagli scrittori delle cose terrene, ma dato, oltre a ciò, qualche anzietà agli interpreti della Sacra Scrittura…. Né la sapienza degli autori classici – fonte primaria di ispirazione per gli scrittori di cose terrene, né la Rivelazione offrono lumi per interpretare la nuova realtà, anzi, sono da essa messe in discussione.

    Il ridimensionamento del valore indiscutibile del sapere della tradizione non genera comunque solo incertezza, disorientamento e inquietudine. È anche il movente per un nuovo orgoglio dei moderni. La querelle des Anciens et des Modernes è anch’essa un episodio che appartiene al Seicento, ma la consapevolezza di vivere un’epoca e un’esperienza senza precedenti è già diffusa tra gli uomini del Cinquecento: Acquistiamo più conoscenza in un giorno grazie ai portoghesi… che in cent’anni grazie ai romani.

    Panorama del secolo

    L’uomo e il cosmo

    Corrado Vivanti

    Dopo che nei primi secoli del Medioevo erano prevalse descrizioni fantastiche del cosmo, ispirate al libro biblico della Genesi (e ai dotti dell’epoca non poche difficoltà erano state poste dai versetti in cui si parla di acque superiori, trattenute dal cadere sulla terra mediante una distesa in cui sono incastonate le stelle, il sole e la luna), la teoria dell’universo geocentrico fu reintrodotta in Europa occidentale nel XIII secolo, grazie alle traduzioni dall’arabo delle opere di Aristotele e dell’epitome che dell’Almagesto di Tolomeo aveva composto al-Farghânî (Alfraganus). Un’esposizione elementare del sistema tolemaico viene redatta a metà del XIII secolo da Giovanni di Sacrobosco nel suo trattato De sphaera, per quasi quattro secoli il principale testo di astronomia elementare, base dell’insegnamento accademico ancora quando Galileo viene assunto dall’università di Padova e fra i compiti assegnatigli vi sarà appunto quello di spiegare ai suoi studenti quell’opera.

    La nuova teoria copernicana dell’universo

    La descrizione dell’universo che troviamo nel De sphaera ci è ancora abbastanza familiare, poiché su di essa si fonda la visione del cosmo della Commedia di Dante: la sfera del primo mobile imprime la rotazione a un armonico sistema di sfere concentriche e racchiude la sfera delle stelle fisse, all’interno della quale sono le sette sfere dei sette pianeti; al loro centro sta immota la Terra.

    Le osservazioni che vengono compiute mettono tuttavia in luce fenomeni che non si conciliano con tale ordinamento celeste, e i diversi tentativi di spiegazione dati dagli studiosi non sono privi di gravi incongruenze. Proprio le controversie fra i "mathematici" inducono il canonico polacco Nicolò Copernico – addottoratosi a Cracovia e successivamente a Bologna, a Padova e a Ferrara – a studiare gli scritti degli antichi pensatori greci che hanno parlato del moto della Terra, e a esaminare in via di ipotesi se tale moto non consenta di dare una spiegazione migliore, arrivando a concludere che l’errore fino allora compiuto è consistito nel fare della Terra il centro dei movimenti celesti. La sua nuova teoria dell’universo viene esposta nel De revolutionibus orbium cælestium, pubblicato a Norimberga nel 1543, ma l’elaborazione di questo testo fondamentale per la nuova astronomia dura molti anni: da ciò che scrive Copernico stesso, sembra che egli abbia sviluppato le prime riflessioni su tali problemi alla fine del suo soggiorno all’università di Padova nel 1506, e la stesura del trattato deve essersi conclusa fra il 1529 e il 1531.

    Tuttavia, consapevole di avere portato a termine un lavoro rivoluzionario, si convince a darlo alle stampe – non senza cautelarsi – soltanto dopo che un suo discepolo, Georg Joachim Retico, ha messo in circolazione un rapporto riassuntivo delle sue teorie. Andreas Osiander, il teologo luterano incaricato di curare la pubblicazione, premette al testo un avvertimento al lettore, in cui spiega che l’astronomo non ha il compito di ricercare le cause sconosciute o i movimenti reali dei corpi celesti: è sufficiente che colleghi le proprie osservazioni mediante ipotesi atte a far calcolare le posizioni visibili degli astri; né tali ipotesi devono essere necessariamente vere o verosimili: basta che siano comode e semplici spiegazioni dei fenomeni, ossia di ciò che appare (questo è appunto il significato del termine derivato dal greco). Anche Copernico, che per precauzione dedica l’opera al papa, afferma di aver voluto avanzare soltanto un’ipotesi, ma le sue parole sono senza dubbio più ardite: egli dichiara di non curarsi "dei mataiológoi (chiacchieroni) che, ignoranti di matematiche, si arrogheranno un giudizio su di esse, e in base a qualche passo della Scrittura, malamente distorto a loro comodo, ardiranno biasimarmi e diffamare questa impresa".

    Copernico cita Lattanzio, il padre della Chiesa vissuto nel IV secolo, che parlò in modo del tutto puerile della forma della Terra, e conclude: "mathemata mathematicis scribuntur", la scienza è riservata agli scienziati, una distinzione fra teologia e studio della natura che invano verrà invocata vari decenni dopo da Galileo.

    Considerazioni e critiche alla teoria copernicana

    Se l’acquisizione di una nuova concezione della geografia terrestre procede senza gravi intoppi, in campo astronomico le cose vanno diversamente. Certo, anche riguardo alla visione del globo terrestre molte credenze e inveterate concezioni resistono a lungo, e con difficoltà anche i dotti arrivano a prendere coscienza della frattura operatasi con il vecchio sapere; per decenni, insieme alle moderne conoscenze convivono antiche dottrine, ormai superate: le fasce climatiche non tollerabili per la vita umana, le carte dell’atlante di Tolomeo con l’Africa congiunta alla Terra Australis e, ovviamente, il mappamondo senza l’America e perfino un oltretomba situato nell’emisfero meridionale. In ambito geografico, però, le nuove idee sono più facilmente accettabili rispetto a una teoria che contrasta non solo con i dettami di autorità quali Aristotele e Tolomeo, ma anche con il presunto buonsenso: infinite volte viene ripetuto l’argomento che, se la Terra si muove, chi lancia una freccia perpendicolarmente in alto, non potrebbe raccoglierla. D’altra parte, in anni in cui l’osservazione del firmamento è affidata esclusivamente allo sguardo umano, senza l’ausilio di alcuno strumento, come dare conto dell’asserzione che non è la Terra al centro dell’universo, ma il Sole, e che anch’essa, come gli altri pianeti, ruota intorno al grande astro luminoso? Non senza difficoltà lo stesso Copernico arriva a formulare la sua ipotesi. In effetti il suo è un procedimento prevalentemente di deduzione intellettuale, fondato sullo studio di testi antichi, a cui sono applicati i criteri della nuova scienza umanistica, la filologia, appresa da Copernico insieme al greco fin dagli anni bolognesi: da quelle letture trae elementi essenziali per elaborare la sua teoria, che deve invece assai poco a osservazioni dirette del cielo. Il suo universo, pertanto, non è ancora lo spazio infinito, ma è "globosum, interamente compreso entro la sfera delle stelle fisse, la prima e la più alta di tutte, che contiene se stessa e tutte le cose (libro I, cap. IX). All’interno di questa sfera, il primo dei pianeti è Saturno, che compie il suo circuito in trent’anni; segue Giove, che si muove con una rivoluzione di dodici anni; poi Marte, che ruota in un biennio. Occupa il quarto luogo nell’ordine la rivoluzione annua in cui [...] è contenuta la Terra, con l’orbe lunare come epiciclo. Nel quinto luogo Venere ritorna in nove mesi. Mercurio finalmente occupa il sesto luogo, girando intorno nello spazio di ottanta giorni. In mezzo a tutti sta il Sole: chi infatti in questo bellissimo tempio porrà questa lampada in un altro luogo, migliore di quello da cui può illuminare tutto nello stesso tempo? [...]. Così certamente, come assiso su un soglio regale, il Sole governa la famiglia degli astri che lo attornia".

    Concettualmente, la visione del cosmo di Copernico non appare molto diversa da quella tolemaica. Certo, la Terra, lungi dall’essere immobile, conosce un duplice moto: di rotazione su se stessa e di rivoluzione intorno al Sole, e gli elementi principali delle orbite planetarie vengono descritti in modo nuovo. Tuttavia –come ha notato Alexandre Koyré (1970), un grande storico del pensiero scientifico –l’astronomia moderna sembra avere progredito negando taluni principî asseriti proprio da Copernico: si è cominciato col rifiutare il principio fondamentale dei moti circolari uniformi, per giungere addirittura a rinunciare alla circolarità del moto degli astri; si sono soppressi gli orbi planetari, e persino la volta celeste, nonché l’idea che l’universo abbia un centro, non più occupato dalla Terra, ma dal Sole. Ma un altro studioso, J.L.E. Dreyer, ha osservato (1970) che il sistema di Copernico appare suscettibile di essere ulteriormente sviluppato non appena un infaticabile osservatore avesse concepito la necessità di sottoporre con perseveranza i cieli a osservazioni minuziosissime. È quanto accade con il danese Tycho Brahe e soprattutto con Galileo che, grazie al cannocchiale (costruito dopo avere sentito parlare di uno strumento con due lenti poste a una certa distanza, adoperato in Olanda per avvistare le navi, ma da lui usato per esaminare la volta celeste), procede a una serie di osservazioni di cui darà notizia nel Sidereus nuncius (1610). I quattro satelliti di Giove da lui scoperti, le macchie della luna e le fasi di Venere gli dimostrano la fondatezza delle idee copernicane e al tempo stesso gli offrono un’immagine del tutto nuova dell’universo.

    Il primo allarme per l’ipotesi copernicana viene lanciato nel mondo protestante. Già Lutero, in uno dei suoi discorsi a tavola, si scaglia contro quel nuovo astrologo che va cianciando del moto della Terra. Il folle vuole sconvolgere la scienza dell’astronomia, ma, come la Sacra Scrittura mostra, fu al Sole e non alla Terra che Giosuè ordinò di fermarsi.

    Per parte sua, il dotto Melantone, grande ammiratore dell’opera di Sacrobosco, accusa Copernico – in uno scritto dedicato alla doctrina physica – di mancanza di onestà e di dignità per le sue insensate teorie che contraddicono ciò che mostrano i sensi e le Sacre Scritture.

    La rivoluzione copernicana e la condanna della Chiesa di Roma

    Calvino, nel suo commento alla Genesi, pone a sua volta la questione: Chi avrà l’ardire di porre l’autorità di Copernico al di sopra di quella dello Spirito Santo? Tuttavia le Chiese riformate non dispongono di strumenti repressivi efficienti su larga scala per combattere quelle idee, come ne ha invece la Chiesa di Roma. In quanto istituzione, essa non prende subito posizione nei confronti dell’astronomo polacco e, anzi, nel mondo cattolico le discussioni si sviluppano a tal punto da illudere Galileo di poter far riconoscere la teoria copernicana allo stesso pontefice. Le cose andranno diversamente; forse, proprio il passaggio dal campo delle ipotesi all’enunciato teorico, reso possibile grazie alle osservazioni di Galileo, nel 1616 spingerà il Sant’Uffizio a pronunciare la condanna di quella dottrina, giudicata incompatibile con la fede cattolica.

    Viene fatto di domandarsi perché la cosmologia della Genesi non abbia impedito l’adozione del sistema tolemaico, mentre alcuni passi della Scrittura che si limitano ad accennare al Sole in movimento o alla Terra immobile e che possono essere interpretati come modi figurati di esprimersi adatti alla comprensione umana –alla stessa stregua di quando nella Bibbia si parla della mano o dei piedi di Dio, del suo pentimento ecc. sono stati giudicati testi fondamentali per la fede. In realtà, il sistema copernicano comporta un sovvertimento profondo nel rapporto fra l’uomo, il creato e la divinità, dal momento che la Terra diventa un pianeta come gli altri, e il dettato della Genesi viene trascurato o quanto meno interpretato allegoricamente. Se la Terra non è che uno dei pianeti, la stessa storia della caduta e della redenzione dell’uomo può essere discussa, perché altri mondi potrebbero essere abitati. Già è stato arduo accettare l’umanità degli indigeni americani, ma ancor più pericolosa è l’ipotesi di una vita fuori della Terra. Inoltre l’uomo, insieme alla Terra, viene a perdere la sua posizione centrale nel creato; non solo, o la Terra partecipa della natura dei corpi celesti, e non può dunque essere quel mondo di perdizione in cui Satana, almeno temporaneamente, è in grado di prevalere, oppure anche i cieli perdono la loro purezza e non possono essere indicati come la dimora divina. Giordano Bruno, che parla De l’infinito universo e mondi, dà la misura delle conseguenze a cui il copernicanesimo, da lui abbracciato, può portare. Proprio il passaggio da un cosmo chiuso all’universo infinito idea – avanzata, oltre che nell’opera di Bruno, in quelle di astronomi sempre più arditi nell’ampliare le concezioni da cui sono state sconvolte le dottrine tradizionali – appare intollerabile alla Chiesa, in anni che la vedono impegnata a condurre una battaglia senza esclusione di colpi contro tutto ciò che può attentare al dogma. Oggi lo stesso pontefice dichiara erroneo quel giudizio e la Chiesa tende a mostrare Galileo come uno scienziato pio e ossequiente nei confronti dei dettati cattolici. Si tratta però di capire come la rivoluzione astronomica iniziata da Copernico abbia provocato una crisi inarrestabile nelle idee che erano alla base del pensiero tradizionale, a cominciare dall’aristotelismo, su cui il Concilio tridentino fonda tanta parte delle sue enunciazioni da far diffondere la leggenda che al centro di quell’assemblea di vescovi e teologi fosse stata collocata la Summa theologiae di Tommaso d’Aquino.

    Il senso di smarrimento probabilmente provato dagli uomini colti del tempo viene espresso dal poeta inglese John Donne: la nuova filosofia pone tutto in dubbio. L’elemento del fuoco è affatto spento. Il Sole è perduto, e la Terra [...]. Quel che è peggio è che la stessa gerarchia su cui si reggono le società viene scossa dalle fondamenta: Tutto quanto a pezzi, ogni coesione scomparsa, ogni giusta provvista e ogni rapporto: principe, suddito, padre, figlio, sono cose dimenticate, perché ogni uomo da solo pensa che ha ottenuto di essere una fenice. In effetti l’idea dell’universo infinito libera l’uomo da inveterate costrizioni e gli insegna a volare alto.

    Ludovico Ariosto

    A Messer Annibale Malegucio (V)

    Satire

    Da tutti li altri amici, Annibale, odo;

    fuor che da te, che sei per pigliar moglie:

    mi duol che ’l celi a me, che ’l facci lodo.

    Forse mel celi perché alle tue voglie

    pensi che oppor mi debbia, come io danni,

    non l’avendo tolta io, s’altri la toglie.

    Se pensi di me questo, tu te inganni:

    ben che senza io ne sia, non però accuso

    se Piero l’ha, Martin, Polo e Giovanni.

    Mi duol di non l’avere, e me ne iscuso

    sopra varii accidenti che lo effetto

    sempre dal buon voler tennero escluso;

    ma fui di parer sempre, e così detto

    l’ho più volte, che senza moglie a lato

    non puote uomo in bontade esser perfetto.

    Né senza si può star senza peccato;

    che chi non ha del suo, fuor accattarne,

    mendicando o rubandolo, è sforzato;

    e chi s’usa a beccar de l’altrui carne,

    diventa giotto, et oggi tordo o quaglia,

    diman fagiani, uno altro di vuol starne;

    non sa quel che sia amor, non sa che vaglia

    la caritade: e quindi avien che i preti

    sono sì ingorda e sì crudel canaglia.

    Che lupi sieno e che asini indiscreti

    mel dovreste saper dir voi da Reggio,

    se già il timor non vi tenesse cheti.

    Ma senza che ’l dicate, io me ne aveggio;

    de la ostinata Modona non parlo,

    che, tutto che stia mal, merta star peggio.

    Pigliala, se la vuoi; fa, se déi farlo;

    e non voler, come il dottor Buonleo,

    alla estrema vecchiezza prolungarlo.

    Quella età più al servizio di Lieo

    che di Vener conviensi: si dipinge

    giovane fresco, e non vecchio, Imeneo.

    Il vecchio, allora che ’l desir lo spinge,

    di sé prosume e spera far gran cose;

    si sganna poi che al paragon si stringe.

    in Tutte le opere di Ludovico Ariosto, a cura di C. Segre, Milano, Mondadori, 1984

    Rimandi

    Esplorazioni e scoperte

    La rivoluzione religiosa

    Volume 45: Cosmologia e astronomia

    Volume 45: Niccolò Copernico

    Volume 45: Tycho Brahe

    Volume 51: L’astronomia

    Volume 57: Il catalogo del mondo

    Volume 63: Nuovi pianeti e satelliti

    L’identità europea

    Laura Barletta

    L’idea che l’Europa costituisca un insieme di popoli che si riconoscono in un’unica civiltà si afferma a partire dalla fine del XV secolo. I confini del continente sono però ancora mobili e incerti. Le rappresentazioni di Turchi, Cinesi e soprattutto delle popolazioni del Nuovo Mondo contribuiscono alla definizione dell’autocoscienza degli Europei, che si va formando come effetto di un insieme di trasformazioni culturali, tecniche, economiche e politiche.

    Dai Greci al XV secolo

    Già in epoca greca l’Europa, rappresentante la civiltà, viene contrapposta all’Asia, rappresentante la barbarie. All’epoca l’Europa corrisponde a un ambito geografico incerto: è costituita dalla sola Grecia, oppure dai popoli che hanno rapporti costanti con essa, quindi soprattutto dalle genti del Mediterraneo; oppure, ad esempio per Aristotele, dalla Scizia – l’area a nord del Mar Nero – distinta dalla Grecia come dall’Asia e abitata da genti coraggiose ma poco industriose, che si distinguono dagli orientali, intelligenti ma non sufficientemente animosi. Le conquiste di Alessandro Magno e l’Impero romano cancellano queste contrapposizioni e delineano invece la divisione tra Romani e barbari, che nell’epoca medievale sarà ricompresa nella grande cesura fra cristiani e pagani. Infatti, nel Medioevo il termine Europa è sostituito con "Christiana communitas, Christiana societas, Christiana respublica, Christianitas", per riapparire solo alla fine del periodo e indicare ormai un’area in cui sono entrate a fare parte le regioni centro-settentrionali del continente in virtù della fede cristiana recentemente acquisita, e da cui escono invece alcune zone orientali, soprattutto la vecchia culla della civiltà, la Grecia, accusata di orientamenti ereticali e i cui popoli diventano esempi delle qualità negative attribuite agli asiatici – perfidia, vigliaccheria, inaffidabilità – contrapposte alla lealtà, al coraggio, all’onestà degli Europei. La caduta dell’Impero d’Oriente e la conquista turca, sebbene provochino un temporaneo sentimento di solidarietà in Europa, finiscono con il sancire l’allontanamento delle regioni sud-orientali del continente e il loro ingresso nella sfera asiatica.

    I confini dell’Europa

    Le frontiere europee appaiono caratterizzate non da barriere geografiche, piuttosto dagli spostamenti delle popolazioni, dalle loro tradizioni e istituzioni, dalle relazioni commerciali e politiche: sono frontiere che variano nel tempo e costituiscono vaste aree di confine più che linee nette. Persino i mari, che circondano il continente da tre lati, rappresentano vie di comunicazione piuttosto che elementi di separazione: basti pensare al Mediterraneo, percorso da pirati, pellegrini, commercianti, conquistatori e centro di un intreccio di civiltà. D’altra parte, regioni periferiche come la Scozia, o quelle poste all’estremo nord del continente, sono molto poco conosciute. Ancora meno definita è la frontiera orientale dal Mar Bianco al Mar Nero che può essere individuata attorno al corso del Don e del Volga (e non agli Urali), dove interi Paesi assumono una collocazione incerta rispetto al cuore dell’Europa.

    Ancora in un’edizione della Geografia di Tolomeo, pubblicata a Venezia nel 1548, la Sarmazia, il territorio a est della Vistola, nell’attuale Polonia, viene raffigurato da un animale selvatico. E solo nella seconda metà del XVI secolo Polonia, Ungheria e Transilvania entrano a fare chiaramente parte del continente europeo, come baluardi della cristianità nei confronti dei popoli pagani, Tartari e Turchi, mentre le popolazioni artiche dell’est, i Samoiedi, continuano a essere considerate idolatre e selvagge, e la Moscovia è solo a stento collocata all’estrema periferia dell’Europa. Del resto non è che nella prima metà dell’Ottocento, dopo un lungo periodo di trasformazioni –di cui sono tappe fondamentali le riforme settecentesche in Russia e l’occidentalizzazione della letteratura slava – che si concluderà lo spostamento dei confini europei agli Urali. Già nel Cinquecento si intensificano i viaggi e le relazioni di diplomatici, mercanti e semplici viaggiatori che si interrogano sui confini dell’Europa, segno di un nuova coscienza dei popoli del continente di appartenere a una sola civiltà e a un sistema politico unitario, mentre il termine europeo fa per la prima volta la sua comparsa nelle lingue volgari, prima fra tutte il francese, in cui l’uso di questa parola si diffonde nella seconda metà del secolo.

    I Turchi

    Se la penisola balcanica conquistata dai Turchi appare un luogo di barbarie, al termine del suo attraversamento i viaggiatori scoprono Costantinopoli, centro di un impero ricco e potente. La rappresentazione dei Turchi ha quindi caratteri ambivalenti: da un lato essi riuniscono le peggiori qualità già attribuite agli orientali, dall’altro non è possibile disconoscere che la concentrazione di un potere dispotico nelle mani del sultano, la crudeltà delle pene, la ferocia e il lusso smodato, la barbarie insomma, abbiano come contraltare la forza militare, la disciplina sociale, l’equità nell’impartire la giustizia e l’efficienza amministrativa. Quello che caratterizza l’immagine dell’Impero ottomano è comunque l’eccesso, sia nel disprezzo sia nell’ammirazione, eccesso che segna il superamento di una soglia oltre la quale inizia un mondo diverso e nemico. E se l’immagine negativa del Turco evidenzia per contrasto le qualità degli Europei, quella positiva finisce per ottenere lo stesso scopo confrontando questi ultimi con un avversario forte e temibile.

    Anche la descrizione usuale di Costantinopoli collocata in uno dei più belli e comodi siti che la natura formasse mai, favorita da una quasi continua primavera, ornata dalla più grande varietà de’ fiori – come scrive l’ambasciatore veneto Giovanni Moro al Senato nel 1590 – disegna una sorta di paradiso terrestre dal significato ambiguo, in quanto gli abitanti non si dimostrano degni di tanta perfezione e non raggiungono in ogni caso l’eccellenza che questa dovizia di mezzi permetterebbe loro, restando così al di sotto delle capacità dimostrate dagli Europei.

    Il Nuovo Mondo

    Ma è soprattutto con la scoperta del Nuovo Mondo che l’Europa prende coscienza della propria identità. In verità, in un primo momento, le pubblicazioni dedicate al continente americano sono nettamente minoritarie rispetto a quelle che si occupano di altre zone lontane ma già note, come la Turchia o la Cina, e molti testi di argomento geografico trascurano la nuova zona. Inoltre la novità delle terre recentemente scoperte è sistematicamente ridotta dallo sforzo di inscriverle in categorie note. Così Colombo ritiene di proseguire la lotta agli infedeli, che nella penisola iberica si era conclusa con la cacciata dei Mori da Granada nel 1492, e di compiere la profezia della predicazione universale del Vangelo. Altri si sforzano di individuare negli Indios popolazioni bibliche, come chi li ritiene discendenti delle dieci tribù disperse di Israele, o cercano di dimostrare che si tratta di popoli già raggiunti dalla predicazione di san Tommaso d’Aquino; altri ancora riconoscono in essi gli abitanti delle Esperidi, terra mitologica all’estremo Occidente – come lo storico spagnolo Oviedo y Valdés che intende in questo modo rivendicarne il possesso della Spagna, dove avrebbe regnato Espero, indipendentemente dalla concessione papale – oppure popolazioni scoperte dal visigoto Roderico, dal gaelico Madoc, o da Gomer, capostipite dei Galli, per affermare l’appartenenza dell’America rispettivamente al Portogallo, all’Inghilterra o alla Francia; altri ancora si richiamano all’Atlantide di Platone o alle terre che i Cartaginesi avrebbero toccato al di là delle colonne d’Ercole. Queste discussioni finiscono con il mettere in dubbio il dettato delle Sacre Scritture e, insieme al dibattito sull’umanità degli Indios e sul diritto dei coloni a ridurli in schiavitù – che ha da un lato, a paladini dei diritti degli indigeni, Antonio da Montesinos e Bartolomé de Las Casas e, dall’altro, Luís de Sepulveda che li dichiara homunculi, più simili a scimmie che a esseri umani – aprono la via a una laicizzazione del pensiero, contribuendo così alla costruzione di un’autocoscienza europea fondata su valori secolari. Per conciliare l’evidenza del Nuovo Mondo con la verità religiosa, il filosofo inglese Francis Bacon deve ipotizzare un secondo diluvio universale e Giordano Bruno finisce col rilevare esplicitamente l’assurdità di una teoria che obbliga a credere i bianchi, i neri e gli uomini dalla pelle rossa come discendenti tutti dal solo Adamo.

    Non meno importante per la consapevolezza degli Europei di appartenere a una civiltà distinta e migliore delle altre è l’impulso dato dalle scoperte geografiche al superamento del senso di reverenza verso gli antichi. L’Europa appare ai contemporanei come l’artefice di imprese rispetto alle quali quelle delle epoche precedenti impallidiscono, mentre la rivelazione delle imprecisioni e dei tratti fantastici delle conoscenze classiche favorisce una nuova fiducia nel presente che sfocerà nella querelle des anciens

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