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E-book341 pagine4 ore

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Info su questo ebook

Erano amanti nel tempo che fu. Quel tempo che li divise per secoli fino a ritrovar se stessi. Nella splendida Parigi in festa, un capodanno permise di aprire le porte al mondo dei sogni, la ricerca di soluzioni per sciogliere le questioni irrisolte della vita. L'amore osteggiato da anime contrastanti libere da ogni oscurità. Ritrovarsi fu la chiave del tutto. Un viaggio nella psiche dei protagonisti in un mondo fantastico dove gli eventi lasciano spazio ad una visione surreale di se stessi, il rifugio dalle proprie paure. Incastri di vite in un sogno lungo una vita, spalmato su anime che fan perdere la testa. Uno specchio che rende luce ad un'unica verità, che amare se stessi fa vivere il sogno più bello.
LinguaItaliano
Data di uscita6 ott 2021
ISBN9791220362146
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    Anteprima del libro

    Prima di un nuovo giorno - Giovanni Floccari

    Indice

    Titolo

    Dati

    Introduzione

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Nota dell'Autore

    Contatti

    GIOVANNI FLOCCARI

    PRIMA DI

    UN NUOVO GIORNO

    Romanzo e poesia

    Opere dello stesso Autore:

    2015 Quelle inaspettate sensazioni Youcanprint

    2017 I passi del silenzio Youcanprint

    Titolo | Prima di un nuovo giorno

    Autore | Giovanni Floccari

    mail | giovanni.floccari@libero.it

    Immagine di copertina: Giovanni Floccari

    ISBN | 979-12-20362-14-6

    © 2021 I Edizione. Tutti i diritti riservati all’Autore

    Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta senza il preventivo assenso dell’Autore.

    Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono il prodotto dell’immaginazione dell’autore e, se reali, sono utilizzati in modo fittizio. Ogni riferimento a fatti e persone viventi o scomparse è del tutto casuale.

    A mia figlia

    Quando vuoi sognare

    guarda dentro di te,

    è lì che si nasconde il vero amore.

    Introduzione

    Se fosse un sogno, ti ci farei entrare… cita l’autore in una delle sue poesie. Ma se non fosse un sogno? Se fosse un mondo parallelo, vissuto in stato di trance ipnotica, dove realtà e fantasia si intrecciano continuamente fino a confondersi? Vi trovereste immersi nel misterioso mondo surreale dell’inconscio di Giovanni Floccari. L’autore in questo suo terzo libro, attraverso tutti i personaggi, con i loro tormenti interiori, le loro relazioni complicate, le loro forti emozioni spesso difficili da gestire, i loro desideri inespressi e le loro forti passioni, compie un complicato viaggio dentro di sé, riconoscendo e comprendendo parti ancora a lui sconosciute. Nel suo mondo conosceremo Gabriel, ma anche tutti gli altri personaggi, che racconteranno in prima persona e senza freni inibitori le proprie vite con le proprie difficoltà e problematiche relazionali, spesso non comprese nella vita reale e che facendo un lavoro psicologico su se stessi, arriveranno ad un cambiamento e ad un’evoluzione personale. La grande abilità dell’autore è di riuscire a mettersi perfettamente nei panni di ogni personaggio, anche di quelli femminili. Basti pensare che la protagonista che narra gli eventi e che attraverso questi riscopre se stessa, è proprio la psicologa Jeanne, una figura molto importante nel romanzo, come lo sono anche Vivienne e la giovane Marianne. Sicuramente la capacità empatica dell’autore verso i personaggi porta il lettore ad identificarsi con ognuno di essi, a ritrovare in loro le medesime difficoltà e fragilità psichiche, permettendogli quindi di comprendere meglio anche il proprio mondo interno; riesce infatti abilmente ad analizzare con riflessioni profonde le emozioni provate dai personaggi, che poi sono le stesse che ogni persona prova prima o poi nella propria vita. Per questo motivo definirei questo romanzo psicologico, nel quale viene anche utilizzata la tecnica dell’ipnosi per far entrare i personaggi in uno stato di trance, per liberare la loro mente, portarli successivamente ad uno stato di profondo benessere psicofisico e farli andare in un mondo immaginario, quello di Giovanni Floccari. Ovviamente l’ipnosi, che viene utilizzata nella realtà in ambito psicologico e medico per gestire efficacemente tutti gli stati d’ansia e i conseguenti disturbi psicosomatici, nel romanzo viene utilizzata dall’autore con la sua fervida fantasia in maniera surreale per dare accesso a ciò che sta oltre il visibile, creando così, un alone di mistero quasi fantascientifico.

    Fin dalle prime pagine ci si rende conto di leggere un romanzo non solo psicologico, ma anche sentimentale e passionale, contornato da una vena poetica che introdurrà ogni capitolo e accompagnerà il lettore fino alle ultime righe. Saranno proprio le poesie a valorizzare l’autore in questo romanzo, con una forza espressiva capace di passare da versi che fan sognare: Vivrai questo sogno, se vorrai tenermi la mano… a versi travolgenti e passionali: Tu, la mia unica trasgressione ed io, irrefrenabile nel sentirmi femmina… per dare, infine, quel velo noir che lo distingue: avverto ancora il tuo respiro, il silenzio della tua ombra…

    Il romanzo è dominato dal mistero, dove la suspense ed i colpi di scena non mancano mai fino alla fine; così come il pathos, l’intrigo, la passione e l’erotismo che contraddistinguono tutti i romanzi dell’autore, con quell’attenzione ad non eccedere cadendo nella volgarità.

    Adesso non vi resta che entrare anche voi nella mente e nell’inconscio dell’autore. Fate un bel respiro profondo e buon viaggio!

    Dott.ssa Daniela Florio

    Psicologa Clinica e Ipnologa

    Il mio sogno

    Chiudi gli occhi

    e ascoltami

    Ti voglio far vivere un sogno

    uno di quelli belli, sai?

    Di quelli che ti fan battere il cuore

    Quelli che quando ti svegli

    ti fan mancare il respiro

    Quelli che ti fanno sorridere

    e lacrimare di gioia,

    quella musica del cuore

    che ascolti dentro

    Vivrai questo sogno,

    se vorrai tenermi la mano

    e aspettare con me,

    il calar del sole.

    Capitolo 1

    Quella notte mi svegliai di soprassalto, con la tachicardia a mille, avevo gli occhi sbarrati ed ero completamente sudata per lo spavento e l’agitazione di un incubo che avevo fatto. Avevo vissuto quella brutta sensazione di morire, cadendo nel vuoto, chissà da quale altezza. Ma prima, ricordo di essermi trovata accerchiata da tanti medici su un letto di un ospedale di un’altra epoca. Antoine, mio marito, non si accorse di nulla e dormiva beatamente girato su un fianco, dandomi le spalle, mentre io ero seduta sul letto cercando di riprendermi dal brutto spavento. Era un periodo che non stavo molto bene, facevo fatica ad addormentarmi e spesso nella notte facevo brutti incubi. Al mattino non dissi nulla ad Antoine, il nostro rapporto negli ultimi anni andava sempre di più sgretolandosi. Dopo quasi vent’anni di matrimonio non c’era più vita di coppia, entrambi impegnati totalmente nel proprio lavoro e nelle proprie passioni. Eravamo cambiati, maturati ma in modo diverso e questo quando eravamo giovani non potevamo saperlo. Antoine non riusciva a capire le mie esigenze, neanche quelle più semplici come le piccole attenzioni. Negli ultimi anni i miei interessi erano cambiati mentre i suoi erano sempre gli stessi. La nostra complicità era diventata una forma di egoismo dove ognuno pensava solo a se stesso. Quello che ci teneva ancora uniti, in una ipotetica famiglia, era l’amore per nostra figlia, Elisabette, ma a lei a quanto pareva, non importava molto del fatto che recitassimo la bella famiglia felice. Più volte intervenne nelle nostre litigate implorandoci di separarci. Detto da una figlia è come ricevere una coltellata, ma forse era la cosa più giusta e sana da fare. Il problema era che nessuno dei due aveva mai avuto il coraggio di prendere quella decisione.

    Mi chiamo Jeanne Gauthier e sono Dottoressa Psicologa, Psicoterapeuta e Ipnologa. Ho quarantotto anni e vivo fin dalla nascita nella bellissima Parigi. Scrivo dal mio studio che si trova ad un isolato da casa, esattamente in Avenue d’Eylau nel quartiere Porte-Dauphine. Quando mi sporgo sul balconcino, sulla mia sinistra, ho una bellissima visuale della Tour Eiffel. Svolgo questo lavoro da più di vent’anni e sono orgogliosa della mia scelta. Posso dire di aver dedicato parte della mia vita a questo lavoro, che per me è diventato anche una passione. Scrivo per raccontare di me, di qualcosa che mi è capitato nell’ultimo anno. Devo raccontare perché certe storie che ti colpiscono, che hai vissuto in prima persona, che ti hanno preso l’anima e cambiato la vita, credo che debbano essere raccontate e non tenute dentro come un ricordo solo tuo. Perché? Ti starai chiedendo mia cara Jeanne. Non lo so, ma credo che a distanza di un anno ho ancora emozioni e rabbia dentro che hanno bisogno di trovare una via d’uscita. Forse, scrivere, potrebbe essere l’ancora di salvezza per capire anche un po’ me stessa.

    Dovrei rilassarmi, come mi dice sempre Elisabette. Quale miglior psicologa di una figlia. Dovrei ascoltarla di più, piuttosto che rimproverarla per ogni cosa che fa o che mi dà fastidio. D’altronde avere a che fare con una figlia in piena crisi adolescenziale non è semplice. Non avrei mai creduto che un giorno sarebbe stata la mia più acerrima rivale, anche se, mi ha sempre guardato con ammirazione e preso come modello da seguire per il lavoro, per la mia femminilità e per il mio carattere un po’ duro e deciso. Poi si sa, gli adolescenti devono prendere le distanze e far vivere i propri gusti esprimendo se stessi non più come bambine ma come giovani donne. Ed è lì che poi nascono i conflitti tra gelosie, rivalità e filosofie di pensiero. Una fase un po’ difficile da accettare ma ho sempre cercato di essere con mia figlia più un’amica che una madre, forse anche sbagliando.

    Ritornando a me, quello che ho vissuto mi assilla ancora oggi e troverò, scrivendo, il modo di dare sfogo a quello che è stato il più grande incubo della mia vita, quello che nella realtà non si può spiegare. Qualcosa che va oltre l’immaginazione, qualcosa che va oltre l’amore. Forse è stato tutto frutto della mia mente. O forse solo un lungo e infinito sogno. Quello che so di certo è che io ne sono stata partecipe dall’inizio alla fine, se di fine posso parlare, perché quello che farò dopo la conclusione di questo racconto, andrà fuori da ogni mio principio, ma sarà la scelta giusta da fare.

    Il ricordo di adesso va a quella mattina. In studio avevo la sensazione che sarebbe successo qualcosa, come se quel brutto sogno fosse un presentimento ad una novità. Il fatto è che non sapevo se potesse essere una cosa bella o brutta, ma quello di cui ero certa è che quel giorno ero in attesa di un qualcosa.

    Era l’inizio di febbraio, poco più di un anno fa. Alle quindici e trenta di un gelido inverno ricevetti una telefonata dall’Hôpital Pitié Salpêtrière, uno dei centri ospedalieri più rinomati di Parigi. Era il Dott. Rolland. Mi chiese se ero la Dottoressa Jeanne Gauthier. Dopo essersi assicurato di essere al telefono con la persona giusta, mi chiese se fossi a conoscenza di una mia paziente che era stata ricoverata per un incidente la notte di capodanno, visto che, nei suoi documenti era stato trovato un mio biglietto da visita. Ed ecco la notizia che stavo aspettando. Chiesi chi fosse e come stesse, se fosse grave, se fosse cosciente e come mai avesse cercato me e non i suoi genitori, parenti o amici. Il Dottore mi disse solo che era una ragazza, che non aveva più i genitori e che non riuscivano a trovare altre persone cui contattare. Mi domandai come mai quella ragazza avesse il mio biglietto da visita. Non mi disse il suo nome ma si limitò nel chiedermi se la settimana successiva sarei potuta andare in ospedale per un incontro. Avevo il cuore che mi batteva a mille e dentro di me avvertivo un presentimento. Dissi al Dottore che sarei andata il lunedì mattina e lui ringraziandomi mi salutò. Dovetti aspettare sei giorni prima di andare in ospedale, giorni in cui non riuscivo più a dormire e mangiavo anche poco. Quel pensiero di quella ragazza in ospedale mi fece preoccupare. Tra le mie pazienti avevo quattro ragazze che seguivo in quel periodo e non avevo per niente idea chi fosse tra loro. Poteva anche essere una paziente di qualche anno prima o una ragazza che avesse avuto il mio biglietto da una mia paziente. Avrei dovuto insistere di più con il Dottore per farmi dire il nome o qualche dettaglio in più, ma sembrò molto schivo nel darmi informazioni al telefono.

    Quel lunedì uscii di casa e mi recai direttamente in ospedale. Ad accogliermi nel reparto al primo piano arrivò il Dott. Rolland, un bell’uomo, alto e con occhi penetranti. Poteva avere all’incirca qualche anno in più di me. Dopo essersi presentato mi portò nel suo studio e mi parlò dei fatti. Un brutto incidente dove rimasero coinvolti, oltre alla ragazza, i due suoi amici e il conducente dell’altra auto. Le condizioni dei suoi amici erano molto critiche, mentre la ragazza era rimasta in coma farmacologico per quattro settimane. Era stato necessario per le numerose fratture ma soprattutto per la presenza di un edema cerebrale post-traumatico. Solo da una settimana era stato sospeso il coma farmacologico e la paziente in quel momento si trovava in uno stato di minima coscienza, quindi sveglia ma in uno stato di apparente trance. Stessa sorte per l’altro conducente, rimasto anch’esso in coma ma non in pericolo di vita. Mi accompagnò lungo il corridoio del reparto di terapia intensiva. Tante stanze una dopo l’altra per arrivare poi a quella interessata. Il Dottore aprì la porta ed entrammo. Era Marianne Bertrand, la riconobbi subito. I suoi capelli lunghi, biondi e il viso che a distanza di un mese portava i segni dell’incidente. Stava dormendo e vederla circondata da tutto quel sistema per monitorarla 24 ore su 24 mi faceva impressione.

    L’avevo vista la prima volta al bar, dove andavo di solito a far colazione, prima di andare in studio. Era vicina a me e parlava con una ragazza, mentre io sorseggiavo il mio caffè al bancone. Parlava di strani sogni che le capitavano ultimamente, che ne voleva parlare con qualcuno che potesse capirla ed io non potei che origliare dalla curiosità. Quella mattina, non so perché, feci la faccia tosta e senza farmene accorgere lasciai vicino alla sua tazzina da caffè un mio biglietto da visita e me ne andai.

    Ancora oggi mi chiedo se l’abbia mai conosciuta abbastanza o se, ancora peggio, abbia mai conosciuto me stessa.

    L’ultimo incontro con Marianne l’avevo avuto la mattina del trentuno dicembre. Avevamo lavorato sull’autoipnosi, come avevamo già fatto nelle precedenti sedute. Voleva imparare a raggiungere lo stato di trance da sola, in autonomia. Eravamo riuscite a trovare il nostro contatto, dove lei, in quello stato di trance, riusciva a star bene e a volte a parlarmi liberamente. Marianne, quella povera ragazza timida che aveva visto e toccato la morte in quell’incidente, era lì, davanti ai miei occhi e quello che volevo di più in quel momento era che aprisse gli occhi e mi vedesse.

    Il Dott. Rolland mi disse che Marianne, dopo l’uscita dal coma, pur essendo cosciente, non aveva mai aperto gli occhi e il suo corpo non dava segni di vita, ma la cosa più strana era che aveva incominciato a fare dei versi nel sonno, in piena notte e a volte anche di giorno. Sembrava come se interagisse con qualcuno. Era come se il suo corpo fosse morto ma la coscienza viva. Capii subito che Marianne potesse trovarsi in uno stato di trance, in un’altra dimensione dell’universo, ma che non se ne rendesse conto.

    Ricordo bene quando venne la prima volta nel mio studio. Le avevo fissato un primo appuntamento il mercoledì della prima settimana di ottobre. Si presentò in studio vestita in modo sportivo e semplice: Jeans, scarpe da ginnastica, una maglia bianca girocollo e giubbotto tipo parka. La feci accomodare sulla poltrona in pelle che era davanti alla mia scrivania in legno. Una poltrona dalle forme decisamente classiche e foderata da una pelle giallastra segnata dall’usura del tempo, una di quelle che acquistano valore con il passare degli anni. Mi piaceva molto quella poltrona perché dava il senso di vissuto. Quando la vidi seduta lì, mi chiesi per un attimo, quante persone potessero aver avuto la fortuna di sedersi in una poltrona del genere. Forse avrei dovuto pensare a quello che in realtà aveva dovuto subire da quando fu collocata nel mio studio. Sopportare il peso di ogni persona, sempre diversa, non solo fisico ma anche mentale. Credo che sapesse più cose quella poltrona che io.

    Feci a Marianne alcune domande conoscitive, quelle di routine che si fanno di solito al primo appuntamento. Non era molto propensa nel parlare e le chiesi perché avesse deciso di contattarmi. Lei mi disse che faceva strani sogni, che vedeva l’ombra di un uomo e non riusciva più a dormire per la paura. Mi disse che quando aveva visto il mio biglietto da visita sul bancone del bar, si era voltata e mi aveva visto andar via; aveva sentito come un brivido e aveva capito che qualcosa la legava a me. Mentre parlavamo era distratta da ciò che avevo alle pareti dello studio. Notai che non le interessavano molto i quadri quanto invece l’attestato che era appeso alle mie spalle: Dott.ssa Jeanne Gauthier, Psicologa, Psicoterapeuta e specialista in trattamenti ipnotici. Forse non riusciva ad attribuire il mio volto a quella figura professionale. Eppure ai suoi occhi mi presentai come con tutti gli altri pazienti. Una donna elegante, di un’età molto più matura della sua. Capelli color biondo cenere, lisci e lunghi appena oltre la spalla. Poco trucco e il mio vissuto segnato da qualche ruga. Ma i tratti del viso erano quelli di una donna stanca, delusa e credo che lei l’avesse notato. Incominciai ad osservarla con lo scopo di studiare la sua personalità e questo fin dal primo appuntamento. Cercai di rendere la situazione più leggera di quanto lo fosse già. Cercai di instaurare un dialogo come tra amiche, senza formalità di ruoli. Le parlai di me e di qualcosa della mia vita senza andare troppo sul personale. Le raccontai del mio gattone Felix e di quanto ne fossi innamorata. Rimasi in piedi nel parlarle e lei mi ascoltava incuriosita. Ricordo che aprii il cassetto della scrivania e presi un pacchetto di sigarette. Erano di quelle senza filtro, dal pacchetto azzurro. Sicuramente quelle non erano sigarette adatte a tutti e non le trovavi così facilmente in commercio. Ebbi l’occasione di fumarne una ad una cena tra amici e ricordo ancora il suo sapore aggressivo, aspro e arcigno che mi stordì completamente.

    «Le dà fastidio se fumo?» Le chiesi quando avevo già acceso la sigaretta e appoggiata tra le labbra. Lei mi rispose di no, facendo cenno con la testa, anche se dalla sua espressione capii subito un certo disgusto nel vedermi fumare in studio. Nonostante tutto, sembrava attratta per come tenevo tra indice e medio quella sigaretta fuori dal comune, come consacrarmi una donna colta e intellettuale.

    Alla seconda seduta era quasi decisa a non venire più, quella sarebbe stata l’ultima volta. Lei era lì, davanti alla porta finestra semi aperta, quasi infastidita dalla mia solita sigaretta che a solo sentire l’odore, di quel tabacco andato in fumo, faceva venir voglia di vomitare, mentre io, seduta sulla poltrona ero ad aspettare che si decidesse nel dirmi qualcosa. Ad un tratto non so cosa le prese, mi salutò e se andò verso la porta d’uscita.

    «Ma dove sta andando?» Le chiesi con tono quasi intimidatorio. Lei si fermò e senza dire una parola ritornò sui suoi passi. Io molto frettolosamente mi alzai, spensi la sigaretta sul posacenere in cristallo sopra il davanzale e con la mano la invitai a sedersi. E così, quasi per darsi una seconda possibilità, tornò indietro senza dare spiegazioni.

    «Mi parli di questi sogni, che sembrano aver sconvolto le sue notti.» Rimanemmo un istante a guardarci negli occhi senza dire una parola e senza muovere un dito, poi andò verso la poltrona e si sedette. Dalla credenza che era alle spalle della scrivania presi una bottiglia e due bicchierini.

    «È rhum e so che non dovrei bere mentre lavoro, ma se vuole farmi compagnia…» Non lo avevo mai fatto con le altre mie pazienti ma con lei c’era qualcosa che mi diceva di non doverla far scappare. Appena fece un cenno di approvazione avevo già versato il liquore in entrambi i bicchierini.

    «È un ottimo rhum, provi ad assaporarlo annusando tutta la sua essenza. So per certo che le piacerà e l’aiuterà a sciogliersi nel parlare.» Amavo il rhum più di ogni altro liquore. Era un rhum francese invecchiato, e solo l’aspetto della bottiglia faceva intendere che non era uno da quattro soldi. La bottiglia mi era stata regalata da un amico avvocato per l’anniversario di matrimonio. Sull’etichetta portava l’anno 1997, quello in cui io e Antoine ci eravamo sposati. Aveva un bel colore ambrato e al naso emergevano note floreali e fruttate. Lo assaggiai chiudendo gli occhi. Sapore caldo e leggermente zuccherino con retrogusto legnoso. Buono, era davvero un ottimo rhum, il mio preferito. Mi misi seduta sopra la scrivania con lei di fronte e dopo aver accavallato le gambe, lei sorseggiò il suo rhum.

    «Mi parli dei sogni e dell’ombra di questo uomo.»

    «Sì, sono venuta da lei per questo, ho bisogno che in qualche modo mi aiuti. Che mi faccia capire.»

    «Incominci pure dall’inizio o da dove preferisce.» Aveva finito l’ultimo sorso rimasto nel bicchierino e allungai il braccio come per versarne ancora. Mi guardò ferma, sorridendo, e poi allungò il suo braccio verso di me. Versai ad entrambi ancora del rhum e subito, quel profumo inconfondibile, invase le mie narici fino ad arrivare al cervello.

    Mi raccontò di un sogno, sempre lo stesso. Sognava di ritrovarsi di notte, nel mezzo di una lunga strada, illuminata da quel poco di luce che rifletteva dalla luna. Tutto attorno era nero, buio, senza la possibilità di orientarsi e di vedere una fine. Una strada che le metteva ansia e voleva uscirne. Incominciava a correre lungo quella strada cercando una via d’uscita per trovare una luce, ma ad un tratto veniva travolta da un’onda gigantesca, e si ritrovava poco dopo, immersa nelle profondità del mare. Si sentiva inerme, smarrita, confusa. Quella luce che vedeva sempre di più allontanarsi dalla superfice, non la spaventava, si sentiva protetta e accolta dall’acqua di quel mondo sommerso. Affondava sempre di più negli abissi, ma stava bene, era in pace con se stessa, fino a quando qualcosa l’afferrava tirandola su fino in superfice. Era una mano, quella di un uomo, la sua àncora di salvezza che la riportava a vivere, che la riportava in quella strada dove tutto il sogno era iniziato, e infine l’ombra di quell’uomo che svaniva nel nulla. Da quel momento lei si sentiva rigenerata, una persona nuova, più forte, piena di vita, ma non riusciva a capire.

    Il risveglio da quel sogno era sempre come ricominciare con le batterie cariche ed era così, quasi tutte le notti. In quel mare lei aveva trovato il suo rifugio interiore, la sua casa, il luogo bello, sicuro, che le consentiva di stare bene e di liberare la mente.

    Provai a parlarle per la prima volta di ipnosi per vedere se nel profondo riuscisse a capire l’origine di quei sogni. Marianne all’inizio si spaventò, al sol sentire di essere ipnotizzata. Le spiegai bene come funzionasse e che non c’era nulla di cui preoccuparsi, che non l’avrei addormentata ma sarebbe solo andata in uno stato di trance profondo per liberare completamente la mente. Si fidò di me e alla terza seduta entrammo in contatto tramite ipnosi.

    Le spiegai cosa sarebbe successo, che non doveva preoccuparsi, che doveva solo ascoltare la mia voce e che per la prima volta le avrei fatto solo sentire uno stato di benessere. Le dissi di chiudere gli occhi, di fare un respiro profondo e subito dopo il suo corpo si abbandonò a se stesso. Decidemmo le tecniche per entrare ed uscire dall’ipnosi ogni qual volta lo desiderasse, come un manuale dove ne avevamo accesso solo noi. Ogni qual volta non se la sentisse di andare avanti, poteva sempre ripercorrere quella strada, quella che l’avrebbe portata nel suo luogo sicuro.

    Non aveva mai fatto un’esperienza del genere in vita sua e notai dal suo viso quanto fosse impaurita. Prima di andare avanti mi chiese di darle la mano, voleva che non la lasciassi mai sola qualunque cosa sarebbe successa. Era un gesto di fiducia ed io dovevo darle tutta la sicurezza di cui aveva bisogno. Le diedi la mano e lei con la sua la strinse ben salda, senza mai lasciarla.

    Ci fu l’ancoraggio, ero entrata nel suo inconscio. In quello stato le pulsazioni

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