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Seduttori Seriali - Storia di un'epoca mai raccontata
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E-book248 pagine2 ore

Seduttori Seriali - Storia di un'epoca mai raccontata

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Info su questo ebook

“Seduttori seriali” racconta le giornate di un gio-vane praticante playboy negli anni del grande successo del night “Number one” e di alcuni amatori professionisti, conosciuti in tutto il mondo come i Moschettieri o les Italiens.
Quel periodo di follie e di lussi sfrenati, di donne bellissime e di giocatori tramontò in pochi istanti, mentre il “Number one” chiudeva ed il “Jackie’O” trionfava, e con esso terminò l’epopea dei grandi playboy destinati ad estinguersi senza lasciare eredi.
Di quel periodo non rimangono tracce che abbia-no un minimo valore, solo fotografie animate di volti e corpi festeggianti in un ambiente che non poteva essere definito decadente ma semmai surreale. Infatti la decadenza presuppone una discesa dall’alto, mentre i nostri playboy percorre-vano un cammino piatto, vuoto, distaccato dalla società e dagli accadimenti. Non erano padroni di un vissuto, ma strumenti di uno scorrere del tem-po legato all’essere visti e non all’essere.
LinguaItaliano
Data di uscita20 lug 2016
ISBN9788890397677
Seduttori Seriali - Storia di un'epoca mai raccontata

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    Seduttori Seriali - Storia di un'epoca mai raccontata - Michele Lo Foco

    Michele Lo Foco

    Seduttori Seriali - Storia di un'epoca mai raccontata

    UUID: f9212de0-4e7d-11e6-83b8-0f7870795abd

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com)

    un prodotto di Simplicissimus Book Farm

    Indice dei contenuti

    PREFAZIONE

    Nota dell’autore

    Seduttori serialiracconta le giornate di un giovane praticante playboy negli anni del grande successo del night Number one e di alcuni amatori professionisti, conosciuti in tutto il mondo come i Moschettieri o les Italiens.

    Quel periodo di follie e di lussi sfrenati, di donne bellissime e di giocatori tramontò in pochi istanti, mentre il Number one chiudeva ed il Jackie’O trionfava, e con esso terminò l’epopea dei grandi playboy destinati ad estinguersi senza lasciare eredi.

    Di quel periodo non rimangono tracce che abbiano un minimo valore, solo fotografie animate di volti e corpi festeggianti in un ambiente che non poteva essere definito decadente ma semmai surreale. Infatti la decadenza presuppone una discesa dall’alto, mentre i nostri playboy percorrevano un cammino piatto, vuoto, distaccato dalla società e dagli accadimenti. Non erano padroni di un vissuto, ma strumenti di uno scorrere del tempo legato all’essere visti e non all’essere.

    Carlo Prinzhofer

    Il sotto titolo dell’ultimo libro scritto da M.L.F: Storia di un epoca mai raccontata, esprime subito una verità. Qualcuno ci ha provato, ma non ho memoria, però, di qualcuno che sia riuscito a narrare bene, in maniera lucida e ordinata, con una corretta visione, quei tempi ludici, e per certi versi così unici. Il motivo potrebbe essere, forse, che solo pochi sono riusciti a capire quale fosse in realtà il fil-rouge che teneva insieme tutti quei contraddittori elementi che caratterizzarono l’epoca. Descrivere certe particolari atmosfere emotive, sappiamo, è difficile. Quando poi queste sono anche esistenziali, tanto da avvolgere in un velo accadimenti e personaggi curiosi, debordanti, esibizionisti, divertenti, e molto dinamici, allora l’impresa può diventare davvero ardua. Si entra in territori misteriosi, un po’ magici, e sicuramente inusuali. M.L. F. (chi lo conosce lo sa bene) è uomo che sa’ rischiare, ha frequentato con successo la materia di cui parla, e sa usare con perizia uno strumento a lui congeniale: una scrittura essenziale, che non indulge mai a possibili (e comprensibili) compiacimenti romantici. Così l’autore non ha esitato a trasferire con le mot – juste (la flaubertiana parola perfetta), il significato di ciò che voleva raccontare con il significante, ottenendo quindi suggestive espressioni visive che rappresentano bene il carattere e l’atmosfera di quel periodo, in un rapporto equilibrato tra fatti e personaggi. Risultato non da poco, considerando la particolare materia scivolosa della narrazione. L’autore centra l’obiettivo grazie alla dimestichezza che ha con la poesia; la quale, appunto, in spazi di termini ristretti sa esprimere compiutamente sensazioni ed emozioni vissute in prima persona. La poesia, infatti, obbliga chi la pratica ad ottenere un risultato di senso compiuto, quello che è l’altro in relazione con ciò che sono gli altri, all’interno di dinamiche che riportano (osmoticamente) il passato al presente e viceversa, in un’equa e misurata critica – estetica. M.L.F. non ha inteso proporre alcuna contrapposizione di valori, ne’ tanto meno ha voluto incitare ad una semplificata analisi storica. Quello che piacevolmente stupisce in questo libro è la descrizione filmica di una certa gioventù (tra i 25 ed i 35 anni ) e dei suoi comportamenti, il tutto alloggiato in luoghi privilegiati, in particolari e curiosi ambienti sociali, dove i confini non sono mai rigorosamente marcati, perché i protagonisti descritti hanno un denominatore comune: un’ insaziabile curiosità. Questo il fil-rouge di cui parlavo. Una vorace voglia di spiare la vita da ogni angolazione possibile. Questo permetteva ai giovani di quella generazione di giustificare allegramente tutte le mosse (dico tutte) da farsi in quello che era un grande gioco al massacro, per dimostrare una malintesa superiorità dell’uno sull’altro. Cacciatori che aggiungevano ogni volta una tacca in più dell’altro sul fucile in una competizione barbaramente divertente e selvaggia in cui poteva succedere di tutto ed il contrario di tutto, ma le cui regole erano note. Così come comuni erano certe scambievoli trepidazioni adrenaliniche dell’anima, che tenevano sospeso il fiato. M.L.F., coglie bene gli elementi generali dei protagonisti di quegli anni, che vivevano solo in funzione delle grandi emozioni. C’è da sottolineare però che esisteva un turbamento esistenziale diffuso anche tra i non protagonisti di quell’epoca, partecipanti alla bolgia festosa che contraddistinse quel periodo, tanto da far dire un po’ a tutti: c’ero anch’io. La scommessa vinta da M.L.F., è stata quella di riuscire ad descrivere alcuni aspetti di quell’epoca, decontaminandola dal pericolo dell’autoreferenzialità, che poteva esserci affrontando la dicotomia tra passato e presente. L’autore ha essiccato il racconto per non correre il rischio di restaurare, rivisitandoli oggi, i ricordi personali di allora. Tutto ciò poteva trasformarsi in legittimo romanticismo. Cosa ci sarebbe stato di peggio che convertire ricordi allegri e gioiosi in racconti malinconici se non addirittura tristi?. In quegli anni andavano a braccetto in bianco e nero, l’impegno e l’edonismo, la tradizione e la rivoluzione copernicana del prima e del dopo, la cultura cosiddetta alta in avanti e quella bassa all’indietro. Il tutto mischiato insieme con estrema disinvoltura. Si poteva andare a vedere l’Orlando Furioso o il Marat-Sade, oppure i cabarettisti di moda e le ballerine del teatro di rivista. Erano anni che ricordiamo come fantastici, perché tutto era magnificamente nuovo e possibile. Dove stupirsi e stupire erano due facce di una stessa medaglia. Vinceva, chi, nel divertente gioco delle parti riusciva ad accaparrarsi, in un modo o nell’altro quella migliore e più importante. Era una splendida avventura vissuta giorno per giorno ( o meglio notte per notte ) così come capitava, di gioco in gioco, cambiando in corsa, di volta in volta, regole e partecipanti. Un autentico meraviglioso massacro esistenziale. Erano gli anni in cui trionfava il sesso libero, finalmente affrancato dai vecchi pregiudizi. Il sesso la faceva da padrone. Tempi privilegiati senza il terrore per le malattie da trasmissione sessuale. Tutto era ancora molto lontano da venire. Anni fortunati quelli, per gli amanti delle trasgressioni. Quali che fossero. Trasgressioni e piacere se la giocavano, testa a testa, per il primo posto nella graduatoria del godimento, quello vero, senza se e senza ma, da pescare nel mare dei desideri, quando questi non erano ancora sinonimo di malintese ambizioni. Il tutto in contrapposizione al solito comune buon senso borghese. Questo e’ il vero motivo scatenante che annodava insieme protagonisti e spettatori di quell’epoca; la disobbedienza. La ribellione alle regole imposte da anonimi burocrati di un ambiguo potere allora imperante. Autorità senza autorevolezza che inventarono quel perverso meccanismo chiamato di sistema, basato sulle consuetudini, che escludeva dai salotti buoni chiunque non soggiacesse ai suoi capricci. In molti si ribellarono. Ognuno a modo suo, secondo la propria personale sensibilità, rivendicando una libertà (nel bene e nel male) totale, assoluta, giusta o sbagliata che fosse. Le due parole d’ordine più in voga furono: La fantasia al potere e Una risata vi seppellirà, nelle loro molteplici e contraddittorie interpretazioni. M.L.F. capisce subito le difficoltà di rinchiudere quel mondo così variegato, scivoloso come un pesce fuor d’acqua, e assolutamente contraddittorio, (proprio come lo è la vita stessa), in un recinto di parole; ben sapendo che nemmeno l’arte della poesia, da sola, poteva riuscire a saltare nel cerchio di fuoco di una obbligata narrazione di sintesi per poter ben rappresentare sentimenti divergenti e fatti realmente accaduti, difficili da storicizzare, a causa del loro improvvisato confuso procedere. L’autore, inventa allora, dicevo, un lessico essenziale, sincopato, con un suo preciso peso specifico. Esistenziale. Sartriano. Scrittura che riecheggia certe atmosfere rarefatte che si possono ritrovare nelle immagini di un certo cinema, sopratutto francese e italiano, degli anni 50/60/70, che M.L.F. da cinefilo di razza, conosce bene. Film con un fondo di poesia come in quelli di Marcel Carné e Mauro Bolognini o quelli di F. Truffaut e del primo F. Fellini, che descrivono con maestria quegli stessi turbamenti che si possono ritrovare anche in alcune canzoni di Juliette Grèco e Jacques Brel, così come in quelle di Luigi Tenco, Fabrizio De Andrè e Gino Paoli, o nelle poesie di Jacques Prevert. Immagini di parole in bianco e nero, molto prima che il colore dell’ovvio e del banale imbrattasse, a caso, la tela della letteratura del mondo attuale, che letteratura non è, perché racconta, male, una rappresentazione dell’universo quotidiano che mondo non è. Cogliere al volo le emozioni di una vita che fuggiva, correndo veloce dagli schemi obbligati, era davvero un difficile impegno. Responsabilità che la scrittura di M.L.F., nè cinica nè indifferente, ma prepotentemente fuoriuscita più che dai suoi ricordi dal suo vissuto, assolve dettata da una insopprimibile onesta curiosità intellettuale.

    Michele

    Lo Foco

    Seduttori seriali

    Storia di un’epoca mai raccontata

    Michele

    Lo Foco

    Seduttori seriali

    Storia di un’epoca mai raccontata

    Man mano che i colpi si facevano più forti il membro si ritirava su se stesso finché non scivolò all'esterno.

    Lei continuò la sua cavalcata per qualche secondo, poi si arrotolò di fianco senza dire nulla e dopo qualche secondo dormiva.

    A Mirco sembrò la pace assoluta, anche se sapeva che lei non sarebbe stata contenta. Era la terza sera che entrava di nascosto, dalla finestra, nella casa di Magda, e la prima che non riusciva a soddisfarla.

    Ma non avrebbe saputo dove passare la notte, perché la stanza dove aveva lasciato i bagagli era occupata dalla legittima moglie di Aldo Della Gatta, il suo amico giocatore professionista di carte che gli consentiva di abusare del suo letto mentre lui intratteneva mitiche partite di poker con industriali ricchi e viziosi. Per lui era un lavoro, e lo faceva scrupolosamente.

    Mirco non conosceva la casa di Magda, era sempre entrato al buio.

    La moquette era alta e chiara, tra il beige e il bianco, le lenzuola certamente di seta, il letto alto, di legno scuro con la testata imbottita; di fronte, di foggia antica, un divanetto due posti di colore rosso fuoco con un piccolo tavolinetto di cristallo che Mirco aveva travolto andando nel bagno, tutto di marmo nero, con rubinetteria dorata.

    Lei, focosa signora spagnola di circa trentacinque anni mora, alta, era l'amante di un ricchissimo signore milanese che andava in vacanza a Porto Rotondo con la moglie, ma si portava anche l'alternativa, sia per poterne approfittare, all'occorrenza, sia per gelosia, ma soprattutto per far comprendere le sue capacità gestionali.

    Tutti sapevano della doppia dislocazione, e lui faceva la figura dell'uomo di mondo potente e generoso.

    In cambio Magda, per mantenersi in esercizio e passare il tempo, la sera si trastullava con i ragazzi che le sembravano adatti nei locali alla moda. Durante il giorno usciva in barca con qualcuno, aspettava a casa la massaggiatrice, curava la pelle e i capelli. Mirco le era stato davanti tutta la sera e lei, presa da un visibile entusiasmo, alle tre del mattino, lo aveva invitato direttamente a casa, senza nemmeno un minimo di convenevoli; avevano bevuto a sufficienza e non c'era bisogno di altro.

    Gli spiegò la strada e gli lasciò la finestra aperta, doveva entrare di lì perché il portone era pericoloso, c'erano le telecamere.

    Le stradine di Porto Rotondo erano tutte uguali, graziose sinuose ma prive di autenticità, sembravano un set di Cinecittà tirato a lucido. L'Aga Khan si era inventato quel posto con l’aiuto di architetti famosi, scenografi, pittori e scultori verso la metà degli anni sessanta e dopo qualche anno il finto borgo aveva una sua configurazione.

    Le case erano leziose, fiori sui balconi, pizzi, gradini arrotondati, piccole piazzole, il massimo per chi volesse far finta di trovarsi in un nucleo abitativo senza il disturbo della vetustà delle strutture. Il grande fascino di quel posto era il mare e la concentrazione di gente ricca, una specie di circolo privato con un canone di ingresso molto caro.

    Tempo di sollevarsi con il busto e di appoggiarsi alla balaustra, lei gli aveva già sfilato la camicia, e quando mise il primo piede nella stanza aveva i calzoni calati, e così rimasero.

    Non riuscì a togliersi le scarpe che dopo aver affrontato il primo turno, malauguratamente in piedi. Lei lo aveva già radiografato al locale, sapeva che era molto magro, con un bel sedere, mentre lui fu sorpreso dalla grandezza dei seni che esplosero non appena toccato il gancetto.

    Aveva una pelle morbida, e un buon profumo volgare, di quelli che ricordi a lungo; per Mirco era troppo massiccia, nonostante il punto vita da adolescente.

    Le gambe erano lunghe ma non plastiche, con caviglie sottili e piedi perfettamente curati e smaltati di rosso fuoco, piedi da mangiatrice di caimani, avrebbe detto Marquez. Il sedere oblungo si raccordava con la schiena in alto, creando una sensazione di solidità.

    Era una di quelle donne che se fossero ingrassate di cinque chili sarebbero sembrate in over-dose, e a molti uomini piacevano proprio per quello, potevano affogare la testa nella loro carne e toccare a volontà.

    La moglie di Muti era dello stesso genere, meno bella, ma anch’essa prosperosa, e si sa che certi uomini in fondo vanno sempre con lo stesso tipo di donna, soprattutto se sono di gusti semplici.

    L'impeto era pari alla massa, sembrava una formula di Einstein, e per Mirco non c'era di peggio.

    Amava le donne dotate di un erotismo naturale, silenziose e detestava le furie che travolgevano tutto ansimando e urlando. Lei non poteva urlare, evidentemente, ma lo faceva lo stesso coprendosi la bocca con il lenzuolo e sotto il cuscino, gli chiudeva gli occhi con una mano e con l'altra lo penetrava in bocca, fino alla gola, poi cercava di stuprarlo girandolo di peso.

    Per fortuna di Mirco, quest'insieme di acrobazie sessuali avevano un effetto ritardante, per cui la prima volta fece la figura da amante di razza e si accreditò per le fasi successive.

    Il problema era capire quanto sarebbe rimasta a Porto Rotondo la moglie di Della Gatta, perché Mirco certamente non era in condizione di proseguire oltre con Magda.

    Quando uscì dalla finestra erano appena le sette. Non c'era un'anima per strada, non poteva tornare in albergo ed era vestito come la sera prima, jeans neri e camicia bianca, stivaletti neri, soltanto più stropicciato, spettinato e stanco.

    In quei momenti, capitavano spesso, si domandava se valesse la pena vivere in quel modo. Il senso di vuoto che accompagnava la sensazione di essere sporco e senza riferimenti aveva talvolta la meglio sul desiderio di stare al centro di un microcosmo magico abitato da donne bellissime e da gente che contava. Mirco voleva esserci, riteneva di avere i numeri per affermarsi e sentiva in profondità il richiamo di quell'erotismo borghese di cui era sempre stato prigioniero, fin da bambino.

    Decise di andare nella spiaggetta ai limiti del paese, sabbia leggera come seta che si toglieva al primo tocco, frequentata prevalentemente da filippini e donne di servizio, ma a quell'ora deserta.

    Lì si spogliò completamente, non c'era nessuno, e fece un bagno che lo riportò in vita. Rimase nell'acqua più di un quarto d'ora, con il sole che cominciava il suo corso, milioni di stelline luccicanti sulle onde e un leggero venticello di maestrale. Magda era scomparsa dalla sua mente.

    Tornando a riva si accorse che un signore vestito elegantemente, giacca blu foulard, pantaloni bianchi, calvo, con un cagnetto al guinzaglio, lo stava guardando con un'espressione sorridente.

    Gli chiese se era sempre così mattiniero, e lui gli spiegò, rimanendo nudo visto che non sembrava scandalizzare nessuno, che era appena uscito dalla casa di una ragazza e che non poteva tornare in albergo perché un suo amico era nella stanza con la fidanzata. Gli raccontò in definitiva la verità, con piccoli aggiustamenti.

    L'uomo si presentò, si chiamava Paolo Mondini, ed era il proprietario di una famosa industria di cera della quale Mirco non aveva mai sentito parlare. Era un uomo distinto, si capiva dall'intonazione della voce e dagli occhietti neri e vispi che muoveva in continuazione. Si doveva alzare per forza alle sette, la cagnetta Lulù usciva solo con lui e non con i domestici: schiavitù terribile, ma Lulù era una specie di figlia, viziata e affettuosa. Ormai poi l'abitudine lo condizionava a tal punto che si svegliava alle sette anche se andava a dormire alle sei.

    Mondini lo invitò a fare una doccia a casa sua, esattamente venti metri dalla spiaggia, visto che non poteva tornare in albergo. La gentilezza sapeva di ipocrisia lontano un miglio, ma togliersi da quel posto prima che arrivassero i bagnanti era più forte del sospetto.

    Si avviarono, Mirco a piedi scalzi con le scarpe in mano, lungo il sentierino sterrato che terminava sul cemento di un garbato slargo aerodinamico nel quale si affacciavano due costruzioni identiche con enormi vetrate. Entrarono in quella di destra e presero un ascensore completamente metallizzato e molto veloce.

    Dopo cinque minuti Mirco era sotto una doccia calda che gli sembrò la più bella della sua vita. L'erogatore dell'acqua era tondo e larghissimo, sembrava piovesse.

    Un filippino silenzioso nel frattempo gli aveva preso i vestiti e lasciato in cambio un accappatoio azzurro.

    Uscì rinfrancato e cercò di orizzontarsi nella casa.

    Il corridoio era di moquette azzurrina, piacevole al contatto. Seguì il suono delle voci e si ritrovò sulla soglia di un salotto invaso di luce, completamente bianco, pareti, divano, mobili, pavimento di legno chiarissimo, dove Paolo parlava con un signore corpulento, capelli brizzolati e camicia di lino azzurro, poteva avere sessantacinque anni. Gli ricordava vagamente suo padre, ma era più grosso e più simpatico a giudicare dal sorriso.

    Mirco chiese scusa comparendo solo con la testa dallo stipite della porta ma fu accolto con fragorosi inviti a far colazione.

    Lo fecero sedere ad angolo tra di loro e gli offrirono una tazza di the.

    Le presentazioni erano inutili, Mirco non si ricordava nemmeno i nomi più semplici, ma seppe che Antonio abitava esattamente al piano di sotto, che avevano comprato

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