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Giocare Agli Indiani: Tutto Renato dalla A allo Zero
Giocare Agli Indiani: Tutto Renato dalla A allo Zero
Giocare Agli Indiani: Tutto Renato dalla A allo Zero
E-book224 pagine2 ore

Giocare Agli Indiani: Tutto Renato dalla A allo Zero

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Info su questo ebook

La drammatica vita, scandita nei dischi e nelle singole canzoni, dell'Artista più imprevedibile e incontrollabile della scena italiana. I grandi successi, le crisi, i passi falsi, le risalite, le contraddizioni. Tutto in un Canzoniere come uno specchio, unico per ammissioni e rivelazioni, per raccontare di una identità sempre cercata, sempre cancellata, sempre riscritta. Una Favola incredibile, che non finisce mai. NUOVA EDIZIONE AMPLIATA E AGGIORNATA ALL'ULTIMO ALBUM E AL TOUR "ZEROVSKIJ"

LinguaItaliano
Data di uscita8 apr 2016
ISBN9781310818141
Giocare Agli Indiani: Tutto Renato dalla A allo Zero
Autore

Massimo Del Papa

Faccio il giornalista dal 1990. Ho scritto alcuni libri, di preferenza in formato ebook.

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    Anteprima del libro

    Giocare Agli Indiani - Massimo Del Papa

    L'indovina disse il vero

    Non dev'essere facile essere Renato Zero: uno che per tutta la vita si protende a diventare ciò che è, senza averne idea lui per primo. Uno spaesamento cantato per tutta la vita: Se dopo tanti ruoli mi chiedessi: tu chi sei?; Quel che cerco, quel che voglio, lo sa solo Dio. Una canzone la intitola addirittura così, Chi Sei, e non è difficile capire che, dietro la porta, c'è il se stesso che sfugge, che si palesa per mascherarsi. Ingombrante e insicuro, timidamente egocentrico. Ci fa anche un film, ingenuo ma per finta, sul doppelganger di sé, sul doppio ruolo che per tutta la vita lo perseguiterà: mandare in frantumi lo specchio serve a poco, è la catarsi di un attimo, subito la maschera riprende il sopravvento. Benedette maledette maschere: tante, troppe, a un certo punto si incontra anche il vero volto, ma subito scompare, si confonde, inghiottito da altre maschere. Nella sua terza, o quarta, o ennesima vita artistica, Zero tenterà di fare affiorare la sua essenza, niente più carnevalate, sempre quel nero che appesantisce, vagamente lugubre, ma il gioco degli specchi continua, perché lui non può fare a meno di evocare il giovane Pierrot dei tempi arrembanti, tanto più quanto pare rinnegarlo.

    Lui ha passato la vita ad essere Renato Zero dice Piero Pintucci, il musicista che come nessuno ha valorizzato l'anima dell'istrionico performer della Montagnola, e quando alla fine di uno spettacolo urla al pubblico 'Vi amo!', quando soffre e piange e sembra morirci, su quel palco, beh, ci crede davvero: in quel momento va dove nessuno può seguirlo, in un posto che conosce solo lui.

    Incantesimi d'artista. Di uno condannato a diventare ciò che è, senza avere chiaro fino in fondo chi sarà, fin da piccino: la foto del bebé di sessant'anni prima che apriva i concerti del Sei Zero Tour, ha già scritto sulla faccina un destino: un piccolino simpatico ma dai tratti vagamente sfuggenti, par quasi affiorare una malizia candida nello sguardo, par di vedere i tratti di una maturità complicata, contorta, forse efebica - Dicevano che ero gay già a due anni.... E qualcosa di quella fanciullezza maliziosa, scafata ma pur sempre infantile, se la porterà appresso crescendo, sempre, come un personaggio del Giudizio Universale del Beato Angelico. Un bambino che mai sarà grande, ancorato al Sogno e alle sue tirannidi, anche se proprio girata la boa dei sessanta, potrà permettersi il lusso di cantare Evviva la maturità; tuttavia non esce, non può farlo, da quella dimensione affatata, da quel nonluogo fuori dal tempo che è il palcoscenico. E come un continuo ricostruirsi, una perenne rigenerazione intenderà la sua carriera, fatta di cicli, nel segno di un candore vagheggiato, complicato da ricombinare con l'esperienza di una vita fuori misura. Renato, ri-nato.

    Un predestinato: A te sì che te andrà bene nella vita, fijetto mio... esclama, secondo la leggenda, la veggente nel leggere la mano al ragazzino che quasi per scherzo si era fermato, guidato da una acerba e già irresistibile curiosità per tutto ciò che è magico, sfuggente, possibile. L'indovina disse il vero, omettendo però, discreta, pietosa, di stabilire i prezzi: cari, salatissimi, nella vita e nella musica. Non sarà facile costruire Renato Zero, diventare Renato Zero, e soprattutto restarlo.

    Un predestinato. Aveva una parola per tutti, già a 18 anni ricorda Mimma Gaspari, che, da discografica – e un sacco di altre cose – la crisalide Renatino la vide fiorire in farfalla. La gente si confidava con lui, gli affidava i suoi problemi come si fa con un giovane guru. È un dono di pochi, quello di suscitare istintiva fiducia e simpatia. Perché siamo tutti volgari, tutti in qualche misura estranei all'altro. Ma qualcuno ha il dono di accorciare le distanze, crisma che può diventare una condanna, come inesorabilmente capiterà allo Zero campione, santone, che non potrà evitare di compromettere l'arte con l'esistenza, traendo linfa creativa dalle infinite traversie che, da protagonista o spettatore, si trova a attraversare. Diventare ciò che si è. Negare ciò che si è diventati. Ricercare quel che si è negato. E alla fine mettere tutto insieme, solo per scoprire quello che si è sempre saputo, che i conti non tornano mai, non possono tornare. C'è solo uno Zero, enigmatico, transgenico come il sorriso della Gioconda. Anche nell'età della ragione e oltre.

    Certi punti, sia come sia, restano fermi. Non è vero, anzitutto, che il piccolo Renato Fiacchini cresca in una casa di stenti, in uno scenario dickensiano. Proletario se vuoi, sottoproletario proprio no. Padre poliziotto, madre infermiera, sorelle e un fratello in ordine sparso, una scelta precocemente obbligata: via dalla scuola, conseguita la licenza media, per seguire le sirene. Cosa che Domenico e Ada, genitori di una famiglia sul crinale fra proletaria e piccoloborghese, in una casa dove afflati di giustizia sociale si mescolano a venerato timor d'Iddio, non può tanto piacere: nei ricordi del domani, Zero oscillerà spesso tra l'insofferenza domestica, perfino anagrafica - Ho scelto Zero come nome d'arte perché Fiacchini era decisamente squallido - e la riconoscenza filiale di chi rende il dovuto merito a due genitori comprensivi, adorabili, straordinari, che non l'hanno mai ostacolato, che hanno sempre creduto in lui. Forse c'è esagerazione da entrambi i lati, forse tutta questa gioia di avere, per diretta memoria, un figlio che, ogni due per tre, ti pioveva in commissariato per qualche retata, magari vestito da donna, comunque in modo preoccupante, il babbo tutore dell'ordine, tra colleghi sbirri, faticava un po' a rintracciarla; per certo la comprensione avrà dovuto essere attinta a piene mani, a maggior ragione in quegli anni '50 più che mai vaticani, in una Roma storicamente rotta a tutto, ma che ancora aspettava il definitivo sdoganamento della cultura pop, della dolce vita, della trasgressione (e depravazione) come regola sociale.

    Mettici anche che, in quel tempo, avere un figlio che si gioca la carta dell'arte, dello spettacolo anziché del posto da usciere o magari proprio in Polizia, sulle tracce del babbo, è di per sé un trauma, l'azzardo di chi, senza santi in paradiso, fatalmente è destinato a buttarsi via. Renatino però, se pure le idee chiare non le ha su chi diventare, nondimeno le conserva su chi non sarà mai: Un impiegato della Sip, come scriverà tra qualche anno in un deliziosamente delirante comunicato agli addetti ai lavori per sponsorizzarsi il suo secondo disco. Almeno questo, quei bravi genitori, quella brava gente di Roma, devono averlo capito se il piccolo Fiacchini già a quattordici, quindici anni bazzica i locali della Roma alternativa che sta esplodendo, su tutti il Piper aperto, figuratevi un po', da un ex parà, Alberigo Crocetta. Un incursore a fare da tramite fra l'America, Londra e la Roma eterna provinciale! Qui un giovanotto efebico e sgambettante si mette in luce sera dopo sera, assorbendo i balli di domani, lo shake, il twist, e i suoni che arrivano, a folate, da Oltreoceano e Oltremanica. Qui sbarcano tutti quelli che contano, dagli Stones ai Pink Floyd, da Frank Zappa a Hendrix, gli Who, i Genesis, i Procol Harum, i Beatles ciascuno per suo conto, all'entourage di Mc Cartney si accoda una acerba Romina Power, ninfetta del decadente Stash, vizioso rampollo del pittore Balthus, ma poi c'è anche la compagna di Keith Richards, Anita Pallenberg, già al centro del jet set mondano, levatrice della piccola Romina ai primi paradisi artificiali... Anche l'altra femme fatale dei Rolling Stones, Marianne Faithfull, compagna di Jagger, non manca su queste tavole, e nel letto del pittore maledetto Mario Schifano (Ti sei ficcata nel letto di un mandolinaro! le ringhierà addosso il furibondo Mick). Quindi la scena jazz, da Duke Ellington a Louis Armstrong, ma sono solo due esempi. Manca qualcuno? Sì, Ike & Tina Turner, Sly & Family Stone, Small Faces..., l'elenco sarebbe inutilmente tedioso; non mancano giovani agguerriti, arrabbiati, decisi nella loro ingenuità a scuotere le fondamenta di una Caput Mundi incrostata su se stessa: ci sono Patti Pravo, Teo Teocoli, un insospettabile Giuliano Ferrara, Mita Medici, che per alcuni è la madre di tutte le veline, la scena beat e rock della penisola prima o dopo fa un salto sulle tavole del Piper, ci sono le sorelle Bertè, con le quali Renato stringe una fratellanza, più volte rievocata e da ultimo ben raccontata proprio da Loredana Bertè nel suo libro Traslocando. Lei e Mimì in fuga da una famiglia tutta sbagliata, alla ricerca del successo, e in mezzo Renato, che dorme con loro e fra loro, fratello, amico, padre, e chissà che altro. Innumerevoli e infiniti sono gli aneddoti, anche pericolosi, che li porteranno a sfidare le convenzioni e il perbenismo della Roma popolana e borghese, ma anche, spesso, violenta e addirittura criminale: le sorelle Berté sono due bellezze diverse, Loredana è provocante, sfacciata e si attira le attenzioni pesanti degli uomini, verso le quali il giovanotto allampanato si erge con urbana educazione, in modo pateticamente eroico: Lasci stare mia sorella, sa?. E non lo massacrano solo perché sarebbe troppo facile.

    Ma niente li ferma. Potranno, con le loro provocazioni anche tenere, con i loro eccessi affettuosi, ma non per questo meno sfacciati, colpire addetti alla televisione, discografici (Andate via, la risposta è NO!), perfino vecchi lupi del cinema e del teatro come Raf Vallone. Lei, Loredana, armata di un fisico mozzafiato, generosamente esibito; lui con le sue collane di ossa, il look da indiano metropolitano, però inclassificabile, e una cifra sessuale morbosa perché sfuggente, adorabilmente arrogante: effemminato, ma di una aggressività che mette in crisi, che destabilizza. Ce ne volle per lui ricorda ancora la Gaspari ma, per quanto duri fossero quei rifiuti, non l'ho mai visto abbattersi: incassata e ripartiva, certo che prima o poi sarebbe giunto il suo momento. Diventare ciò che si è.

    In questi anni di balli, di Piper, di incontri, come quando, secondo la Bertè, lei e Renato si portano a spasso per la Roma del 1967 un Hendrix estasiato, e chissà come avranno fatto a intendersi, e poi di audizioni, come quando don Lurio li pesca da una miriade di aspiranti ballerini, proprio loro due: Tu, and tu: presentatevi domattina. Il caro, simpatico, piccolo, affabile don Lurio che ci prendeva a seggiolate, ricorda Loredana. E già arriva Rita Pavone, nei cui Collettoni e collettine i due si dimenano, e tante altre piccole opportunità e comparsate televisive, vestiti in modo assurdo, armati di grinta e di speranze, che, è chiaro, non possono bastare. Siamo alla gavetta, necessaria, fondamentale – allora ancora si usava, adesso ci sono queste truffe chiamate talent. Siamo allo sgrezzamento del talento, ma, ancora una volta, non è vero che il Renato prima di Zero, prima del successo, fosse un diseredato, destinato a mangiare aria e fili d'erba: quando partecipa all'Orfeo Nove di Tito Schipa Jr, considerata la prima rock opera al mondo, mentre lo fu sicuramente in Italia, Renatino, che vi ha il ruolo di tutto rispetto del Venditore di Felicità, uno spacciatore, fa la spola tra Genova e Roma, in aereo, più volte durante la settimana: è insostituibile e lo sa, Schipa jr a un certo punto pensa a Memé Perlini come alternativa, un'ottima opzione ma senza la vocalità, l'aggressività musicale di Zero. Che, alla fine, resta per restare in eterno nell'immaginario di quell'opera avventurosa e acerba.

    Siamo nel 1970, lui ha vent'anni appena ma già la sicurezza, la forza di chi mette in gioco tutto se stesso, quel che ci vuole ci vuole. E sono già cinque anni che si sbatte per disavventure artistiche, e ha già cominciato, magari da intruso, da non invitato, a bazzicare i posti che contano, gli studi discografici, la Rai che non lo vuole mai, i produttori e i compositori. Insomma cresce, sbanda ma cresce. Costruisce le avvisaglie di una carriera con magnetismo e cocciutaggine, con simpatia e sfrontatezza; come minimo, il suo nome tra gli addetti ai lavori non è un suono sconosciuto, la sua cifra, Zero, è la promessa di qualcosa che non si sa cosa sarà, ma si sa che avverrà. I colleghi del tempo, come quelli dello Spectres Group, lo ricordano molto determinato e istintivamente esperto nel canto, uno che sapeva cosa tirar fuori da un microfono e capiva subito come porsi su un palco: perfettamente a suo agio con la melanconica Universal Soldier, della canadese Buffy Sainte-Marie, così come in una torrida versione di Fire di Jimi Hendrix. Anche molto convinto quanto a trovate sceniche, invenzioni, fantasie assortite. Mentre i cantautori politicizzati giocano in sottrazione, inseguendo tutti il modello Bob Dylan, lui capisce che la sua vocazione è altra, sono i rapporti personali, i sentimenti di sempre, però da dipingere, tele in attesa dei colori: e senza quei colori, non si va da nessuna parte: allora, cosa di meglio che recitare se stesso, invitare sul palco la propria autenticità, diventare chi si è? Mi sono sempre vestito in modo stravagante, immaginando e cucendo da me i miei costumi, e non è mai stato un problema, anzi quella era la mia vera pelle. Mi cambiavo negli androni dei palazzi, poi uscivo per Roma e mi prendevo gli sguardi e spesso gli insulti, perfino i gavettoni di chi non mi accettava.

    Un Clark Kent che invece della cabina telefonica usa il buio di un sottoscala, possibilmente senza portineria, anche se, molti anni dopo, proprio alla sua portiera Angelina dedicherà una canzone grondante nostalgia.

    La schizofrenia tra vita familiare e evasione esistenziale continua, si accentua, diventa patologia feconda: L'educazione impartitami mi rendeva insofferente e pieno di rabbia, Sono uscito per reazione, Mi sentivo frenato dall'atmosfera francescana in cui vivevo. Fortuna che era una famiglia accogliente e comprensiva, con tanto di zie suore e zii frati! Passa il '68, lo lambisce appena, perché A ferirmi erano soprattutto le bandiere sul palco. Mentre io stesso ero bandiera, sui marciapiedi, ribellandomi a certe regole e finendo in commissariato, a volte proprio davanti a mio padre: che, da parte sua, mi tranquillizzava: 'E' normale...'. Le barricate non sono per gli individualisti. Individualisti si nasce. A vent'anni io ero già produttore e regista di me stesso, non accettavo direzioni dall'alto.

    La formazione cresce, le porte in faccia non si contano, la RAI, sorda allo sconcerto e alla curiosità suscitata da questo giovane di allegra ma problematica follia, rifiuta recisamente di richiamarlo: andrà avanti così per anni, il cerchio del sospetto lo spezzerà solo Gianni Ravera, storico patron di Sanremo, quando ormai sarà impossibile fare a meno di un simile personaggio in televisione, sconfitti i ricordi feriti delle visite dal promoter Aragozzini a stendergli invano le scheletriche gambette stivalate sul tavolo, Cocco, mi vuoi?. Già, il Fiacchini che nel 1967 si ribattezza Zero, grazie alla trovata, pare, di Gianni Boncompagni, che lo ha notato agitarsi tra il pubblico di Per Voi Giovani, storica trasmissione radiofonica insieme a Renzo Arbore, il Renatino implume non ha mai smesso di coltivarsi. A dire il vero, la prima ipotesi di nome d'arte sarebbe un improbabile Renatino Zero Zero, che grazie al cielo viene riveduta e corretta: Renato Zero invece suona bene, è aggressivo e enigmatico, fatto apposta per le ipotesi di Renato che verranno, dal clown mortale di Zerofobia al gallo impiumato di Zerolandia, alla battona triste di EroZero, al trovatore medievale di Tregua e via cantando. Tutto serve e tutto si frequenta, anche il cinema, con ospitate estemporanee ma formative, da La Bambolona con Ugo Tognazzi, del 1969, al noir poliziesco La Mala Ordina, del 1972, ai felliniani Satyricon e Roma, con lui che ha l'ardire di scarrozzare il Maestro per la città in Vespa o in sidecar, fino ad abbozzi di prime canzoni (Carosello verrà incisa da Wilma Goich, compagna di Edoardo Vianello, uno dei primi ad accorgersi dell'imberbe Zero), ad incursioni teatrali, da Hair alla citata Orfeo 9 dove, oltre ad avere un ruolo di primo piano accanto al regista e protagonista Tito Schipa Jr, esegue due brani molto impegnativi, sul filo di un progressive allucinato e contaminato: La Città Fatta a Inferno è un incubo metropolitano in cui Renato subentra nella seconda parte, letteralmente trasfigurando il brano; Il Venditore di Felicità oscilla tra rock-funky e progressive, e rappresenta, nella sua violenta cifra teatrale, una sorta di prova generale, anche nel testo, per Mi Vendo, con cui Zero, raggiunto, almeno provvisoriamente, chi doveva essere", fa crollare tutti i muri: di Jerico, della diffidenza, della RCA e perfino della Rai, Radiotelevisione Italiana.

    Se io non sono come vuoi

    Durerà fatica, un Renato Zero giovane, non più giovanissimo, a spuntare finalmente, anno di grazia 1972, il primo contratto discografico. Lui spingeva per suonare nei locali, la RCA non lo riteneva ancora maturo, forse confusa da quel suo essere così spiazzante e in anticipo sui tempi ricorderà Lilli Greco, il discografico scomparso nell'ottobre del 2012 al quale grandissima parte del cantautorato nazionale deve le sue fortune. Greco aveva già colto, e raccolto sotto l'ala protettrice, il sedicenne Fiacchini che si barcamenava tra i primi tentativi melodici, fin dal 45 giri d'esordio, Non basta sai, scritta, pensa un po', da Jimmy Fontana, e che sul lato B aveva una cover di un pezzo americano tradotta da Gianni Boncompagni e ribattezzata In mezzo ai guai. A Boncompagni il giovane Zero deve più di qualcosa: è lui che lo individua tra i ragazzini di Per Voi Giovani, lui che gli ispira il nome d'arte, ancora lui che lo presenta a Lilli Greco, e che gli produce il primo dischettino nel 1967. In questo periodo l'artista a caccia di una immagine ricorda molto la star francese Antoine, baffettini da pittore di Montparnasse d'ordinanza. Intanto, non si calma: Roberto d'Agostino, compagno di scorribande al Piper, ricorda la volta in cui, stretti

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