Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Non ho visto farfalle a Terezìn
Non ho visto farfalle a Terezìn
Non ho visto farfalle a Terezìn
E-book856 pagine10 ore

Non ho visto farfalle a Terezìn

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Nell'ultima di Eurispes (2020) è risultato che il 15,6 per cento degli Italiani non crede all'esistenza della Shoah, contro il 2,7 per cento della rilevazione di solo quindici anni prima. Inoltre, chi è connesso alla realtà sa pure che la maggioranza è convinta che sia stato solo un “affare” nazista, ossia tedesco, di altri. Una vicenda storica il cui il nostro paese è stato solo vittima e non anche carnefice. Anni di storia falsata, di libri sui meriti del Duce, l’esaltazione che “ha fatto anche cose buone”, l‘assoluta ignoranza sul valore delle Leggi sulla Razza del 1938 e sui conseguenti campi di concentramento italiani prima e dopo l’8 settembre 1943, sui convogli partiti dalle nostre città verso i lager di sterminio, sulla colpevole indifferenza della intellighenzia italiana del momento, asservita e complice del regime, ci hanno portato inevitabilmente a questo preoccupante risultato. Cavalcato peraltro dalla politica contemporanea, o buona parte di essa. Ho sentito, quindi, il bisogno di dare anch'io il mio umile contributo contro questa inaccettabile realtà. Qui non troverete risposte: non è mio obiettivo né ambizione farlo. Ho altri scopi. A me interessa che il lettore all'ultima pagina, quando chiuderà il libro, esca con molte più domande di quante ne avesse all'inizio. Perché se si cercano le risposte, se ci si chiede il perché delle cose, a chi è convenuto, chi ci ha guadagnato, qualcosa ci resterà e non sarà poca cosa. I bambini col loro, talvolta assillante, chiedere il “perché” di tutto, diventano grandi e maturano. Da troppi anni da noi, in Italia, abbiamo perso l’abitudine di chiederci il perché delle cose. E anche questo meriterebbe una nostra personale analisi ed urgente personale risposta.
LinguaItaliano
Data di uscita7 nov 2021
ISBN9788833469034
Non ho visto farfalle a Terezìn

Leggi altro di Rinaldo Battaglia

Correlato a Non ho visto farfalle a Terezìn

Ebook correlati

Olocausto per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Non ho visto farfalle a Terezìn

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Non ho visto farfalle a Terezìn - Rinaldo Battaglia

    DEF_terezin_fronte.jpg

    Non ho visto farfalle a Terezìn

    di Rinaldo Battaglia

    Direttore di Redazione: Jason R. Forbus

    ISBN 9788833469034

    Pubblicato da Ali Ribelli Edizioni, Gaeta 2021©

    Saggistica – Storia e cultura

    www.aliribelli.com – redazione@aliribelli.com

    È severamente vietato riprodurre, in parte o nella sua interezza, il testo riportato in questo libro senza l’espressa autorizzazione dell’Editore.

    Rinaldo Battaglia

    Non ho visto farfalle a Terezìn

    Frammenti di economia nella Shoah ottant’anni dopo

    AliRibelli

    La Storia non è scritta dai vincitori

    e nemmeno dai vinti.

    La Storia è scritta dai documenti.

    Dedicato a tutte le piccole farfalle del mondo,

    che volano libere sopra i fili spinati

    e sui boccioli di rosa mai fioriti.

    Filo spinato

    Su un acceso rosso tramonto,

    sotto gli ippocastani fioriti,

    sul piazzale giallo di sabbia,

    i giorni sono tutti uguali,

    belli come gli alberi fioriti.

    E il mondo che sorride

    E io vorrei volare.

    Ma dove?

    Un filo spinato impedisce

    che qui dentro sboccino fiori.

    Non posso volare.

    Non voglio morire.

    Peter, Bambino ucciso a Terezìn nel 1944

    Il giardino

    È piccolo il giardino profumato di rose,

    è stretto il sentiero dove corre il bambino.

    Un bambino grazioso come un bocciolo che si apre:

    quando il bocciolo si aprirà, il bambino non ci sarà.

    Franta (František Bass)

    Nato a Brno il 4 settembre 1930, fu deportato a undici anni a Terezín.

    Morì ad Auschwitz il 28 ottobre 1944.

    Con la Shoah abbiamo perduto per sempre il privilegio di dimenticare.

    Sommario

    1. La festa del raccolto

    2. Sia che tu muoia o che tu viva

    3. La giostra che non puoi toccare

    4. Anche se le lacrime ti cadono lungo la strada

    5. Siamo acqua che scorre

    6. Chissà quando ritorneremo a casa

    7. Un’eco nel vento

    8. Una valigia parla

    9. La terra gira e i tempi cambieranno

    10. Dire addio d’estate

    11. Quando finirà la sofferenza?

    12. Sono nato per piangere

    13. Dov’era Dio quella notte?

    14. È vietato morire

    Nota dell’autore

    Al di là delle analisi di Eurispes – rilasciate per il giorno della Memoria 2020 – ove risulta che il 15,6% degli Italiani non crede all’esistenza della Shoah, contro il 2,7% della rilevazione di solo quindici anni prima, resta il fatto – indiscutibile per le persone normali – che la SHOAH sia stata nella Storia il più grande crimine mai commesso dall’uomo, dal giorno in cui Dio lo creò.

    Ma il dato più sconcertante resta un altro: gran parte degli italiani è convinta che sia stato solo un affare nazista, ossia tedesco, di altri. Una vicenda storica di cui il nostro paese è stato solo vittima e non anche carnefice.

    Anni di storia falsata, di libri sui meriti del Duce, l’esaltazione di coloro che gli riconoscevano di aver fatto «anche cose buone», refrain che da anni è diventato un ritornello peggio di una canzone di Sanremo, l’assoluta ignoranza riguardo alle vicende che hanno visti coinvolti i campi di concentramento italiani prima e dopo l’8 settembre 1943, e i convogli partiti dalle nostre città verso i lager di sterminio; la colpevole indifferenza della intellighenzia italiana del momento, asservita e complice del regime, ci hanno portato inevitabilmente a questo preoccupante risultato.

    Per questo ho sentito la necessità di dare anche il mio modesto contributo affinché – parafrasando Primo Levi – quel che è successo non debba nuovamente ancora succedere, convinto sempre più di quello che già 2.500 anni fa scriveva Tucidide: «Il male non è soltanto di chi lo fa: è anche di chi, potendo impedire che lo si faccia, non lo impedisce».

    Anche i bambini di Terezìn, per quanto educati e comprensivi – credo – dall’alto non ci perdonerebbero più.

    E, probabilmente, a ragione.

    Rinaldo

    La farfalla di Terezìn

    Ma anche per ricordare che si può, una gamba davanti all’altra, essere come quella bambina di Terezìn che ha disegnato una farfalla gialla che vola sopra i fili spinati.

    Io non avevo le matite colorate e forse non avevo la fantasia meravigliosa della bambina di Terezìn. Che la farfalla gialla voli sempre sopra i fili spinati.

    Questo è un semplicissimo messaggio da nonna che vorrei lasciare ai miei futuri nipoti ideali.

    Che siano in grado di fare la scelta.

    E con la loro responsabilità e la loro coscienza, essere sempre quella farfalla gialla che vola sopra ai fili spinati.

    Liliana Segre

    29 gennaio 2020

    ... dicono che sono uscito vivo dal lager, ma io sono ancora lì.

    Sami Modiano

    La farfalla

    L’ultima, proprio l’ultima,

    di un giallo così intenso, così

    assolutamente giallo,

    come una lacrima di sole quando cade

    sopra una roccia bianca

    così gialla, così gialla!

    l’ultima,

    volava in alto leggera,

    aleggiava sicura

    per baciare il suo ultimo mondo.

    Tra qualche giorno

    sarà già la mia settima settimana

    di ghetto:

    i miei mi hanno ritrovato qui

    e qui mi chiamano i fiori di ruta

    e il bianco candeliere di castagno

    nel cortile.

    Ma qui non ho rivisto nessuna farfalla.

    Quella dell’altra volta fu l’ultima:

    le farfalle non vivono nel ghetto.

    Pavel Friedman

    Ebreo cecoslovacco, nato a Praga il 7 gennaio 1921 e deportato a Terezìn il 26 Aprile 1942. Scrisse la poesia su un pezzo di carta, ritrovato dopo la liberazione e donato al Museo Ebraico. Poco si conosce della sua sorte: il 29 Settembre 1944 venne deportato ad Auschwitz, dove morì. Di lui ci resta solo questa poesia. Niente altro.

    1. La festa del raccolto

    Non c’erano farfalle a Terezìn, forse non sono mai esistite. Non c’erano farfalle o prati e tanto meno il lago, con le oche, dove giocare con i coetanei. Ma c’erano tanti bambini. Migliaia e migliaia. Quando venne liberato, l’8 maggio ’45, se ne contarono però solo 142. Assieme a loro trovarono anche altri 3.800 scheletri umani, molto simili a quelli che i Russi avevano visto ad Auschwitz il 27 gennaio. Ed il paragone aveva senso. Molti, che erano morti ad Auschwitz, prima erano stati in vacanza a Terezìn.

    Gli storici indicano in oltre 140.000 (155.000, con gli ultimi arrivati dai lager vicini nelle criminali marce dei giorni precedenti alla liberazione) gli ebrei deportati dal 24 novembre 1941, giorno in cui a 60 km da Praga venne inaugurato il campo, dopo esser stato istituito e deciso il 10 ottobre ’41 nel corso di una apposita conferenza, indetta dal Reichprotektor di Boemia e Moravia, Reinhard Heydrich, il nazista dal cuore di ferro.

    Di quei 140.000 deportati almeno 88.000 morirono nei lager di sterminio tra Auschwitz, Treblinka, Sobibor, Belzec e altri meno noti nell’attuale Bielorussia e Polonia. Ma almeno 35.440 (oltre il 25%) perirono di stenti, malattie o crudeli violenze già lì.

    Parliamo di oltre 124.000 vite, perdute a Terezìn. Quasi il 90%.

    Almeno 15.000 di quelle vite erano bambini, piccoli cuccioli d’ uomo.

    Solo ad Auschwitz-Birkenau ne gasarono 7.590.

    Pochi lo conoscono e da noi, in Italia, a parte gli addetti ai lavori, forse nessuno.

    Eppure, almeno un centinaio di quegli ebrei erano italiani e solo 4-5 si salvarono, ma quasi non lo raccontarono neanche ai loro familiari. Perché nessuno mai avrebbe creduto alla loro verità. Molti erano italiani di Rodi, a quel tempo italiana dal 1912, e come il resto dell’Italia vittima delle leggi razziali del Duce del ’38 e del triste destino del nostro paese dopo il 10 giugno ’40. Alcuni erano di Roma, come Dino (Dino Ferrari) che a breve avrebbe compiuto trentatrè anni, l’età di Gesù, in quel triste 16 ottobre ’43, quando gli ebrei di Roma vennero venduti per 30 denari. Come Arturo (Mozzati Arturo o Arthur), che venne preso a Milano e spedito coi suoi trentacinque anni, assieme ad altri 658 disperati, col viaggio della morte del 30 gennaio ’44. O Eurika (Eurika Zarfati), ebrea di Roma da secoli malgrado il nome, in treno verso il lager avrebbe festeggiato il 20 ottobre i suoi trentadue anni. In quei giorni non riuscirono a prendere Piero (Piero Terracina) allora di quattordici anni, bravo a scappare, per un colpo di fortuna sebbene anche lui venduto da un amico di famiglia (il figlio del macellaio) forse per 3.000 lire. Il prezzo di 6 mesi di lavoro in fabbrica o se preferite tre mesi da maestro elementare. Piero scapperà fino alla sera del 7 aprile ’44, quando due fascisti vigliaccamente lo sorprenderanno con la famiglia a celebrare il Pèsach, la Pasqua Ebraica, e lo spediranno subito a Fossoli e poi ad Auschwitz. E magari qualcuno avrà così incassato il prezzo pattuito a suo tempo.

    Perché tutte le leggi razziali, tutto quel modus vivendi erano basati sul denaro, lire o marchi a seconda del caso, lire o marchi a seconda del luogo.

    Dino, Arturo, Eurika vennero venduti da qualcuno che venne pagato con i soldi sequestrati qualche giorno prima agli stessi ebrei. Si autotassarono, consegnarono 50 kg di oro ai nazisti di Kappler per avere salva la vita. Ed invece finanziarono i loro carnefici. I fascisti di Roma in primis. Molti per avidità di denaro, altri per guadagnare qualcosa e sopravvivere (a Roma si diceva da millenni mors tua, vita mea) molti altri per fedeltà al Duce che già da oltre vent’anni aveva rubato loro la vita, dando in cambio quattro chiacchiere dal balcone e sogni di grandezza a danno del vicino di casa. Magari un amico, magari qualcuno a cui avevi fino al giorno prima venduto lo spezzatino o la carne per il brodo. Magari che avevi salutato, sorridendogli, il giorno prima.

    Dino, Arturo, Eurika, e più avanti altri, si trovarono così spediti a Terezìn, passando talvolta prima al campo di Fossoli, a due passi da Modena, sulla strada che da Carpi portava alla morte.

    Terezìn. Cos’è? Cos’era?

    Non era un lager normale. Se cercate il simbolo dell’orrore delle fabbriche di macellazione di esseri umani, a livello industriale, dovete andare più ad est, ad Auschwitz; se cercate la vergogna coi suoi lager distrutti prima della grande, vigliacca fuga nazista coi Russi in arrivo, dovete andare a Treblinka o Sobibor, se cercate la disperazione andate al mattatoio di Belzec, dove i bambini fino ai tre anni non venivano nemmeno gasati, ma per risparmiare sui costi, gettati in profonde buche e sepolti vivi. E come testimoniò un sopravvissuto (Chaim Hirszman) lascio a voi pensare al dolore degli altri ebrei lì deportati, costretti a controllare la loro morte, sotto i fucili dei nazisti, con la terra che si sollevava, finché i bambini non soffocavano.

    Se vi interessa conoscere la schiavitù avete 42.000 scelte tra Buchenwald, Flossenburg, Berger-Belsen, Dachau, Mauthausen o dove preferite. Ma se volete capire cosa sono le fake-news, la propaganda che inquina oggi i nostri cervelli da uomini del 2020, dovete assolutamente conoscere Terezìn. Per questo è da sempre un lager nascosto, dimenticato. Senza Terezìn, sarebbe difficile spiegare ai nostri figli cos’è stata la propaganda, l’inesistente differenza tra menzogna e verità, quello su cui anche adesso molti vivono e prosperano, a nostra insaputa.

    Una volta si chiamava mecenatismo, oggi più semplicemente giornali o tv commerciali. Una volta era definito nazi-fascismo, oggi più poeticamente idea suprematista.

    Conoscere Terezìn significa ragionare sull’oggi e capire quanto schiavi – anche ora – noi tutti siamo. Schiavi di chi ancora oggi detiene l’informazione, a nostra insaputa. Come ai tempi di Hitler o Mussolini, come ai tempi della Gestapo o dell’Ovra. Come ai tempi di Terezìn.

    Per questo Terezìn fa paura, come ha fatto paura nel triste autunno 1943 a Dino, Eurika, Arturo al loro arrivo.

    «Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità».

    Chi di noi non ricorda le parole di Joseph Göebbels, l’inventore e sovrano riconosciuto delle fake-news? Ma a dire il vero, il brevetto mondiale delle fake-news spetta dal tempo del Paradiso Terrestre, direttamente al demonio quando, deluso della ricchezza concessa all’uomo da Dio, si vestì da serpente e così inventandosi un sacco di panzane, confuse la mente ad Adamo ed Eva. «La grandezza del demonio – si disse in un epico film di qualche decennio fa – fu quella di insegnare che non esistesse». E qualora, aggiungo più modestamente io, qualcuno più scaltro si fosse accorto, vendergli un’altra realtà. E nella confusione, il Male governa a piacere. Questo è Terezìn, dove la finzione divenne realtà. Questo è Terezìn, dove la finzione, creduta realtà, permise la sua sopravvivenza e con essa, per contraccolpo, la morte di intere generazioni. Se Terezìn si fosse conosciuta, se i documenti fosse stati creduti, se i testimoni accettati e non derisi, avremmo avuto milioni di morti salvati e forse la guerra finita qualche anno prima.

    Ma conveniva? Davvero conveniva?

    La trama della guerra era già avanti, i protocolli di Auschwitz che spiegavano bene cosa stesse succedendo in quel lager già dall’aprile ’44 giravano in Occidente, i giornali americani già due anni prima scrivevano della Shoah, pur non definendola ancora così (il 25 novembre ’42 il New York Times ne parlava diffusamente e chiaramente, facendo già il nome di Sobibor, Treblinka, Belzec).

    Il Vaticano venne più volte informato dai vari sacerdoti o nunzi apostolici (il 9 marzo ’42 a Bratislava, a fine marzo ’42 a Berna, il 31 agosto ’42 il capo spirituale della Chiesa di Leopoli si rivolse direttamente a Pio XII con dati precisi sulla Shoah sui lager della Polonia, dati che il Vaticano girò a settembre all’ambasciata Usa definendo le notizie non verificabili o – se preferite – una fake-news).

    Ancora sul finire del 1941, nelle settimane immediatamente successive all’inaugurazione di Terezìn, il nunzio apostolico in Slovacchia, Saverio Ritter poi sostituito da Giuseppe Burzio, in risposta ad una lettera del rabbino di Bratislava, Weisnandel, molto dettagliata sui crimini di Hitler usò parlò sprezzanti ma che confermavano come il Vaticano conoscesse, innegabilmente:

    «Il sangue dei bambini ebrei non è innocente. Tutto il sangue ebraico è colpevole. Voi dovete morire. È la punizione che vi attende per il vostro peccato».

    Esiste inoltre ulteriore corrispondenza tra il governo Roosevelt ed il Vaticano (26 sett. ’42) con elenco dettagliato dei campi di Polonia, il cui testo venne utilizzato da Pio XII il 31 marzo e il 2 giugno 1943 e ne fece lui stesso cenno, parlando del tragico destino del popolo polacco. Ma senza mai una parola sugli ebrei polacchi o sugli ebrei deportati nei lager nazisti della Polonia. Mai una parola. Perché?

    Il New York Times il 2 luglio ’42 riportò il chiaro resoconto di un deportato ebreo riuscito a fuggire dal lager di Chelmno (Sziama Ber Winer, chiamato anche come Sziawek Bajler o Yakov Grojanowski) – resoconto poi noto come Rapporto Grojanowski – e rifugiatosi nel ghetto di Varsavia, ma poi lì nuovamente arrestato e mandato a morire a Belzec.

    Il 2 giugno 1942 un alto rappresentante del governo polacco in esilio a Londra, Szmul Zygielbojm, ai microfoni della BBC denunciava cosa stesse succedendo a Varsavia e nel resto della Polonia occupata. Un altro rappresentante del governo in esilio, Jan Karski, il 27 novembre 1942 informò l’opinione pubblica che, mesi prima, era riuscito ad introdursi nel ghetto di Varsavia, descrivendone la situazione reale. Venne persino ricevuto da Roosevelt nel luglio ’43. Documenti provano peraltro che Roosevelt fosse stato ampiamente informato dai suoi uomini in Europa già l’8 dicembre 1942 (nel corso della ricorrenza pubblica per il 1° anniversario di Pearl Harbor) e che avesse girato la notizia al Ministro degli Esteri inglese, Anthony Eden, il giorno 14 dicembre (e quindi di fatto a Churchill).

    Sempre nell’estate ’42 persino un membro delle S.S. del servizio igiene, il tedesco Kurt Gernstein, dopo esser stato in missione a Belzec e prima nel ghetto di Leopoli – alquanto scandalizzato da quel che vedeva – a rischio della vita informò un diplomatico della Svezia di stanza a Berlino, Gòranvon Otter, che – è documentato – girò l’informativa al governo svedese. Analogamente farà mesi dopo il console di Svezia operativo a Stettino, Karl Yngve Vendel. Ma anche la Svezia fino all’autunno ’43 dormirà e continuerà a fornire materie prime ben pagate al Terzo Reich. E ovviamente alle imprese private operanti del Terzo Reich, legatissime e grate al regime di Hitler. Come la Opel e la Saurer che saranno, persino, quasi pubblicamente ringraziate da Goebbels – anche il 18 febbraio 1943, a Berlino, quando parlerà di «guerra totale», oppure da Eichmann, per come avevano bene costruito i gaswagen o camion del gas, quelle piccole camere a gas su ruote gommate e mobili. O come la Porsche dell’industriale Ferdinand Porsche, molto amico col ministro della produzione, Albert Speer.

    Come non bastasse, nell’ottobre ’43, il Black Book of Polish Jewry di New York descrisse, alla precisione e con dovizia di dati, i dettami della Soluzione Finale di Wannsee del 20 gennaio precedente, intitolando il tutto come Aktion Reinhardt. Forse mancava solo il numero dei caffè che Eichmann e Heydrich si bevvero o della marca dei sigari che si fumarono, in quel tragico giorno.

    Pochi mesi a seguire, inoltre, ad inizio ’44, la Resistenza polacca, tramite il Governo Polacco in esilio, pubblicò la testimonianza chiara e dettagliata di un ebreo evaso dal lager di Treblinka, Yankel Wiernik. Poco dopo, nell’aprile ’44, gli aerei alleati fotografarono più volte i lager in Polonia e non solo. Anche le fabriken degli industriali che si ingrassavano sulla vita degli ebrei deportati e i cui profitti aumentavano sensibilmente.

    Cosa serviva di più? Cosa dovevano pubblicare, informare ancora?

    Cosa dovevano inventare affinché si prendesse coscienza e conoscenza della Shoah?

    Si sapeva, si conosceva molto bene, magari non nell’entità (e chi avrebbe avuto la capacità di comprendere la grandezza del crimine nazista se non i nazisti soltanto?).

    Ma si sapeva, non lo si può negare o nascondere.

    Comodo farlo solo ora. Comodo e vigliacco.

    Nessuno fece nulla, nessun paese alleato, nessun paese dell’Est, tanto meno il Vaticano o la Croce Rossa, operativa dalla fortunata Svizzera, dove la sede era troppo vicina alle casseforti delle banche, in cui confluivano, copiosi, i denari rubati agli ebrei.

    La Svizzera, il paese per definizione neutrale, che col Terzo Reich si arricchì in fretta: solo nel 1942 il 60% della sua produzione bellica, il 50% di quella ottica, il 40% di quella meccanica venivano assorbiti dalla Germania.

    Paese neutrale?

    La Svizzera, quella che per prima, già nell’ottobre ’38, chiese espressamente alla Germania di Hitler che nei passaporti venisse bene evidenziato se, chi proveniva alla sua frontiera, fosse o meno di confessione giudaica. Il timbro J per Jude/ebreo nacque lì.

    Paese neutrale?

    La Svizzera, quella che il 26 settembre ’42 sancì che gli ebrei non potevano esser considerati rifugiati politici perché non correvano alcun rischio nei loro paesi di provenienza e, solo oramai a guerra persa per Hitler, un mese dopo il D-Day (12 luglio ’44) abrogherà tale norma.

    Paese neutrale?

    Perché anziché rafforzare le voci controcorrenti che cercavano di svegliare il mondo, si mise di fatto a loro una museruola al posto di concedere un megafono?

    Perché altri non imitarono il vescovo di Tolosa, mons. Jules Saliège, che il 30 agosto ’42 inviò, a tutte le chiese della sua diocesi, una lettera pastorale affinché si salvassero gli ebrei? E questo in reazione all’ordine del 22 luglio ’42, quando l’Assemblea dei Vescovi francesi bloccò le proteste dei civili contro le azioni anti-ebraiche di Klaus Barbie e dei suoi sanguinari criminali. Perché? Perché a Tolosa qualcuno parlò, mentre a Roma il suo Papa dormì, almeno fino al 25 giugno ’44 quando finalmente, finalmente il Vaticano intervenne con un chiaro ed inequivocabile appello per salvare gli ebrei di Budapest. Perché solo il 25 giugno ’44? Forse perché, dopo il D-Day del 6 giugno, era evidente che Hitler avesse oramai le carte sbagliate nel suo mazzo? C’era la faccia ora da salvare o gli ebrei dallo sterminio perpetrato dai cristiani ariani?

    Perché?

    Conveniva fermare il business?

    Dov’era il mondo? L’intellighenzia, gli intellettuali dei Paesi liberi dov’erano?

    Roosevelt, Churchill o Pio XII sempre così aggiornato sui crimini di Stalin? Lo stesso Stalin?

    Per quanto ovvio da noi in Italia non solo non si voleva sapere nulla, ma si alimentava quel crimine, col regime di Mussolini sporco di sangue fino al collo.

    Dov’era la generazione di mio nonno e di mio padre?

    Dov’era l’Uomo? In quale caverna era nascosto?

    Su quale cassaforte era seduto?

    Terezìn fu usata dal demonio per tacitare chi voleva vedere le carte, chi non si allineava. Nessuno si oppose. Per questo Terezìn brucia nelle nostre coscienze, come i corpi dei bambini da lì poi deportati ad Auschwitz.

    Nessuno deve sapere, così nessuno si chiederà mai il perché. Perché?

    Che pessima parola, la parola perché.

    Ti obbliga a rispondere, a ragionare, a fare un esame tra il tuo sapere e il tuo essere. E a chiederti: tu al posto di altri, allora, in quei momenti, cosa avresti fatto? Che divisa avresti indossato? Anche tu avresti taciuto e chiuso gli occhi, girandoti altrove?

    E se eri in Italia avresti lottato contro le leggi razziali, protestato o fatto l’indifferente magari con tanto di saluto romano?

    Ti saresti accodato alla stupida litania: «Ma ha fatto anche cose buone?»

    Avresti cantato orgoglioso alla radio Faccetta Nera perché lo zio te l’aveva insegnata da piccolo, senza magari dirti nulla di Yekatit 12, il massacro di Adis Abeba del 19 febbraio 1937? E nel mondo di oggi con le tv commerciali, principali fonti di informazione, formazione e deformazione, a che punto siamo?

    A Terezìn le notizie, le informazioni che facevano opinione e che giravano tra gli ebrei, venivano chiamate latrinky ossìa notizie certe e verificate, appena inventate nella latrina.

    Quante latrinky ci vendono oggi? Quanti tg o giornali di palazzo nascono nella latrina?

    E soprattutto quanto manca sulla strada che ci porta a Terezìn?

    Terezìn non è la domanda. Terezìn è la risposta per l’uomo che non accetta di morire ignorante, schiavo delle altrui volontà e propagande di moda.

    Terezìn è operativa ancor oggi.

    Terezìn non è mai stata liberata dai Russi e per riuscire nell’impresa, per esserlo davvero, Terezìn deve essere bene conosciuta ed illuminata a giorno.

    Terezìn deve ancora essere aperta, senza carri armati o soldati, ma con libri e corrette notizie. Senza sconti verso nessuno. Perché lì a Terezìn nessuno merita sconti. Perché si passa sempre a Terezìn prima e dopo, solo dopo, si arriva ad Auschwitz, se non si riesce a bloccare il treno in tempo.

    Su Terezìn è vietato dimenticare.

    Con la Shoah abbiamo perso per sempre il privilegio di dimenticare ed il diritto di non conoscere.

    Terezìn. A dire il vero, Terezìn era già nota alla storia dal lontano 1780, quando le popolazioni locali, per lo più austriache, costruirono una fortezza per difendersi proprio dagli assalti dei tedeschi, o meglio allora dai prussiani. Venne così chiamata da Giuseppe II, in nome di sua madre, l’Imperatrice d’ Austria, Maria Teresa d’ Asburgo. Era talmente ben protetta che durante la Grande Guerra, venne usata dall’esercito ausburgico quale carcere dei soggetti più pericolosi. Persino il serbo-bosniaco che aveva, con estrema facilità, ucciso gli eredi al trono a Sarajevo, dando inizio di fatto alla guerra – Gavril Princip – venne lì recluso. Anche molti prigionieri di guerra italiani, dopo Caporetto (almeno 15.000) soffrirono la fame a Terezìn e gran parte di loro non fecero ritorno.

    E se a Terezìn era famosa per la difficoltà ad entrarvi da parte di nemici e per la difficoltà dei prigionieri di scappare, nel 1941 i geni del male, figli legittimi del demonio, pensarono di trasformarla in un lager. Ma non un lager qualsiasi. Era un lager stellato, di alto livello e con gli ospiti selezionati e di primo profilo. Un lager resort. Un lager unico nella storia del Terzo Reich a cui bisognava iscriversi e addirittura pagare per poterci andare, come fosse un’ambita Università. Come fosse un rinomato Grand Hotel.

    Un lager escort, non una povera prostituta di periferia.

    Pagare sì, perché tutto si basava sul denaro. Sulla propaganda ed il denaro. Come oggi.

    Dove tutto si vende e tutto si compera, da un appalto di costruzioni all’ultimo senatore, da un viatico preferenziale per la carriera alla minorenne per il bunga-bunga serale.

    I geni del male, Himmler ed Heydrich, fecero davvero un bel lavoro.

    Studiosi di marketing o di motivazione commerciale avrebbero, ancora adesso, qui molti elementi a supporto dei loro corsi formativi. Anche dopo ottant’anni.

    E molti nel lancio di alcuni programmi televisivi odierni, credo, abbiano qui trovato idonea ispirazione.

    La fortezza venne dapprima di fatto divisa in due parti. La più piccola, Kleine Festung già dal 10 giugno 1940 (guarda caso giorno funesto per l’Italia, con il discorso del Duce da Piazzale Venezia tra gli osannamenti festosi degli invitati) divenne a tutti gli effetti una prigione, ove deportare e torturare, oltre ai criminali comuni, gli oppositori al nazismo, gli intellettuali soprattutto. E tra questi (fino all’inizio ’42, prima che si sviluppasse il lager, così comodo e vicino), anche gli intellettuali ebrei tedeschi, i più colpevoli per il nazismo, rei di avere in primo luogo causato la sconfitta tedesca nella Grande Guerra. Immensa falsità storica, ma ben bevuta dal popolo tedesco poi, come pecore, portato, col suo consenso, al macello. Come gli italiani, dopo il 10 giugno.

    Ma, sapete, quando le cose vanno male è facile scaricare su altri le proprie colpe, le proprie evidenti incapacità. Una volta, come ora. Già Caino fece fuori Abele, accusandolo di esser poco produttivo e causa delle sue fatiche. Ed erano, dicono, in quel momento solo in due...

    La parte più grande della fortezza (dove nel passato erano alloggiati i soldati, raggiungendo al massimo le 11.000 presenze) – chiamata Grosse Festung – nel novembre 1941 divenne, da vecchia caserma militare, invece, una Colonia ufficiale ebrea. In parole meno pompose, un lager per soli ebrei di tutt’Europa, con una presenza media non inferiore ai 50.000 ossia ben 5, forse 6 volte la capacità tecnica del luogo. Terezìn (o meglio ora Theresienstadt, come veniva chiamata dai nazisti quasi in tono di disprezzo) era uno dei pomposi progetti di Reinhard Heydrich, sin da quando il 27 settembre ’41 venne nominato da Himmler ed Hitler quale capo supremo della Sicurezza del Terzo Reich. Si era impegnato a purificare il mondo dagli ebrei, a renderlo Judenfrei e, nel programma della Shoah, Terezìn aveva un ruolo primario.

    Erano tre gli obiettivi che Terezìn doveva soddisfare e fu l’unico lager in questo.

    Il primo, il classico campo di transito per accogliere gli ebrei deportati e poi a step, in modo metodico e controllato (3.000 al mese, ogni mese dal gennaio ’42, con due o massimo tre convogli mensili a seconda dei treni) spedirli ad Auschwitz o nei lager della Shoah dell’est.

    Il secondo, l’altrettanto classico campo di sterminio, dove gli ebrei dovevano morire da soli o esser uccisi nel vivere quotidiano e poi venir bruciati nel forno crematorio di cui era dotato (mediamente 190 cadaveri al giorno). Himmler lo aveva battezzato ghetto ossia un luogo dove ammassare gli ebrei, separandoli da tutti gli altri e, come fossero veri parassiti della società, destinati ad esser eliminati o, peggio auto-eliminarsi, pianificando e causando fame, malattie, violenze di ogni tipo, fisiche e psicologiche.

    Del resto Goebbels era stato molto chiaro sul concetto di ghetto, in una sua visita a quello polacco di Lodz: – «E impossibile descrivere il ghetto. Non sono più esseri umani, sono animali. Il nostro scopo non è più umanitario, ma chirurgico».

    Ma era il terzo obiettivo il più crudele, cinico, subdolo ed infame e che ancora oggi da uomini ci deve far vergognare: un lager di propaganda, dove vendere falsità e tramite queste facilitare gli altri due obiettivi.

    Un lager paradise ghetto, un lager modello ove si tennero ben 2.430 conferenze (con 520 relatori diversi) e 600 spettacoli teatrali o musicali, ove vennero allestiti ad hoc laboratori d’ arte per i bambini.

    Un lager fucina di cultura, come lo definì anni fa lo scrittore ebreo Chaim Potok.

    Un lager da fake-news diremmo noi oggi nel 2020. Un lager da social.

    Il lager della menzogna.

    E Terezìn fu talmente importante e vincente che ancora oggi, a distanza di ottant’anni dalla sua apertura, noi tutti ne subiamo le sue conseguenze. Sì, noi tutti ancora oggi, in quanto drogati dalla sua totale disinformazione, che domina da sempre quel lager. Peggio di Auschwitz. Perché Auschwitz era la morte da tutti ora riconosciuta, Terezìn invece era la truffa prima della morte. Era l’inganno alla massima potenza, il grande bluff, il più grande bluff della storia umana. Ma non lo si sa.

    L’unico modo per farsi perdonare dai martiri di Terezìn è veramente rendere pubblica quella bugia.

    Solo così Terezìn ci permetterà in futuro di non cadere vittima degli errori ed orrori degli anni ’30 e peggio ’40. Sta a noi capire e voler capire. Non ad altri. Terezìn è lì a 60 km da Praga ogni giorno a ricordarcelo. Se si volesse. La città è murata, ma vi sono sempre le porte per entrarvi, volendolo.

    Ma conviene?

    Ovviamente quanto Heydrich decise il futuro di Terezìn, la fortezza era una città abitata, una città-fortezza come tante, circondata da mura e ben protetta, oltre che viva.

    Entro pochi mesi, man mano che il lager cresceva, tutta la popolazione civile venne espulsa dalle proprie abitazioni e dalla propria città. Parliamo di 218 case oltre alle citate 11 ex-caserme. I settemila cechi di Terezìn, molti ebrei anch’essi, già nel giugno ’42 erano tutti scappati, con le buone e, soprattutto per gli ebrei, con le cattive. La data non fu casuale, perché il 4 giugno, Heydrich, il figlio preferito del Fuhrer, morì a seguito di un attentato e la vicina cittadina di Lidice, a 60 km da Terezìn, ne pagò subito le spese. Le S.S. avevano facilità a raggiungere i propri obiettivi, spargendo sangue e terrore a destra e a manca.

    Hitler aveva bene istruito i suoi allievi, clonando peraltro in Germania il modello balilla attuato dal Duce da noi già dal 1926. La Hitler-Jugend divenne operativa, infatti, subito dopo e ben prima che il Fuhrer prendesse il potere nel gennaio ’33. E in 15/20 anni hai tutto il tempo per formare i corpi e soprattutto le menti dei tuoi adepti, dei tuoi futuri soldati o, meglio, schiavi. Si chiama processo chimico di laboratorio.

    Non c’erano farfalle a Terezìn, forse non sono mai esistite. Non c’erano farfalle gialle o prati verdi e tanto meno il lago dove giocare con i coetanei. Ma tanti bambini. E tra questi Jacob. Migliaia e migliaia. E quando il lager venne liberato, l’8 maggio ’45, Jacob non c’era più. Era diventato lui stesso farfalla, una di quelle trasparenti, senza colori, invisibili a occhio nudo. Di quelle che nessuno poteva più vedere. Eppure erano state lì, presenti, forti ed operose, per lasciare una traccia a chi volesse un giorno cercarla e, grazie ad essa, capire il senso della vita e della morte, la differenza tra il lecito ed il giusto, l’abisso che esiste tra il vero ed il falso. Il confine sottile tra la notizia e la propaganda; tra ciò che oggi chiamiamo informazione e manipolazione.

    Jacob non aveva neanche dieci anni quando arrivò nel giugno ’42 a Terezìn, destinato, vista la sua età, alla casa dei ragazzi. La L 410 o meglio la Caserma dei bambini tedeschi, il Kinderheim L 410. Facile da ricordare, impossibile da sbagliare anche per chi veniva dalla ricca Vienna e prima di allora non sapeva cosa fosse Terezìn e ancora meno in quale angolo dell’inferno si trovasse.

    Jacob non aveva mai sentito quel nome, né in tedesco né in ceco.

    Ma suo padre sì. Per mesi aveva analizzato, discusso, valutato con i familiari e i parenti di Vienna se accettare l’offerta ricevuta e in quali termini. Perché non era una scelta facile, malgrado i tempi. Significava mollare tutto, arrendersi al nazismo, darla davvero vinta a chi ora gridava più forte e fino a ieri non contava nulla.

    Il padre di Jacob, il nonno di Jacob, erano asburgici, discendevano dalla cultura viennese, avevano studiato, erano colti, preparati. Avevano sopportato bene la disfatta del 1918, la fine dell’Impero di Francesco Giuseppe, distrutto in mille pezzi come un vaso di cristallo di immenso valore caduto a terra e sfracellatosi al suolo. Da sempre erano avvocati, con un proprio affermato studio legale. Oramai da generazioni. Avvocato il nonno, avvocato il padre. Probabilmente anche Jacob dopo la laurea avrebbe proseguito quella strada, a difesa dei clienti dello studio di famiglia, nel rispetto della legge e della legalità. Per il padre era una fissazione: «Prima viene la legge, il rispetto della legge, dopo, tutto il resto». Senza la legge – divina o terrena che fosse – non ci sarebbe il mondo, ci sarebbe solo l’anarchia, solo la confusione e nella confusione governa solamente chi ha la voce più grossa, a disprezzo della legalità. Hitler ne era il classico esempio: l’illegalità e la forza violenta che ora governavano in Austria, contro il rispetto di tutte le minimali norme e regole di diritto. Ma forse era così anche prima che, a Vienna, arrivasse Hitler, con la sua maledetta Anschluss, l’annessione, del 12 marzo 1938.

    Prima viene il diritto. La pensava così anche un altro intellettuale viennese di origini ebraiche, Stefan Zweig. «Ma mai era capitato, dall’abolizione della schiavitù, che gli uomini si ritrovassero in un tale vuoto del diritto» – scriveva nel 1938, ben prima di morire (suicida) nel 1942 e conoscere per bene la traduzione della parola shoah.

    Era terribile essere ebreo a Vienna, violenze di ogni tipo, soprusi oltre ogni minimale dignità. In città in pochi anni il numero di ebrei si ridusse dai 176 mila del 1934 a poco più dei 90 mila prima dell’invasione della Polonia nel settembre del ’39. A guerra finita saranno neanche 10.000.

    Tutti scappavano, tutti fuggivano, abbandonando tutto, casa, proprietà, ricchezze, i frutti di decenni o secoli di lavoro. Peraltro, beni e patrimoni tutti già censiti e pubblicamente dichiarati (col decreto del 22 aprile ’38), pena la perdità della proprietà stessa.

    I più decisi, quelli che se ne andarono per primi, riuscirono a portarsi qualcosa, magari svendendo proprietà e trasferendo i fondi nelle banche svizzere.

    Il governo austriaco inizialmente lasciò fare, ma con l’Anschluss cambiarono i rapporti di forza e a molti ebrei, spesso e volentieri con la complicità delle stesse banche svizzere, persero i capitali lì depositati. C’era una unica via di salvezza: abbandonare tutto il patrimonio, prendere un treno e o, meglio, una nave verso l’America. Senza valigie, solo col vestito che indossavi. E pregare il tuo Dio.

    Era l’unica possibilità offerta dal ’38 da Adolf Eichmann, appena incaricato dal Fuhrer di pulire l’Austria dalla piaga ebraica col suo Ufficio Centrale per l’emigrazione. Eichmann creò anche la Treuhandstelle, una società specializzata nella liquidazione e spogliazione delle proprietà immobiliari ed attività commerciali ebraiche. Una fiduciaria del Terzo Reich attraverso la quale gli uomini del Terzo Reich si arricchirono in fretta.

    Tutto organizzato, tutto studiato, nulla è lasciato al caso per ingrassarsi a danno altrui.

    Come in tutti i regimi dittatoriali e criminali. Come a Roma ai tempi del Duce, coi vari predatori in camicia nera.

    Bisognava eliminare tutti coloro che potenzialmente erano contro, come ci si sbarazza dopo il pasto dei rifiuti. Era questo il pilastro del nazismo e delle leggi razziali: creare un mondo senza nemici, senza nessun contrario, tutti allineati e succubi. La solidarietà, la fratellanza tra gli uomini, l’aiuto reciproco, erano sintomi di debolezza.

    E il nostro paese con le scelte scellerate di Mussolini non fu da meno. Allineato, complice e colpevolmente succube. Nemmeno il Papa Pio XII, il rappresentante in terra di Gesù, il Profeta della fratellanza e della solidarietà, trovò motivi per intervenire.

    Gesù era sì nato ebreo. Ma erano già passati duemila anni! E la memoria spesso è un optional.

    Ma il padre ed il nonno di Jacob erano uomini di diritto, conoscevano la legge, credevano nella Legge. Non vollero mai cedere, sebbene l’attività dello studio fosse ridotta al minimo, sabotata e vietata com’era dal regime. Con l’ordine del 30 novembre 1938 gli avvocati ebrei non potevano peraltro più esercitare, dopo il 1° gennaio 1939.

    Era già successo, per gli artigiani e commercianti due settimane prima (18 nov. ’38).

    Ma qualcuno ci doveva pure essere. Qualcuno doveva pur restare, quale baluardo al crimine diventato ora potere, qualcuno doveva pur difendere l’indifendibile, segnalare che esistesse ancora una speranza. La loro casa era diventata, almeno fino alla guerra, punto di ritrovo della intellighenzia ebrea viennese, vero punto di riferimento del mondo professionale ebraico della città. E le parole del padre di Jacob, l’avv. Gustav Gunther, e del padre di suo padre, l’avv. Franz Joseph, così chiamato a suo tempo in onore dell’Imperatore, erano sempre ascoltate e molto apprezzate. Franz Joseph Israel – a dire il vero – perché dopo il 18 agosto ’38 tutti i maschi ebrei si dovevano chiamare con questo secondo nome (e Sarah se femmina).

    Fu questa la loro colpa: credere nel diritto in un mondo che aveva calpestato il diritto e ne aveva fatto un falò. Non vollero credere che l’uomo fosse così criminale, succube di un pazzo psicopatico, cieco di fronte a tanta atrocità. E che tutti ne fossero complici, addormentati e soprattutto interessati. Complici, colpevoli ed assassini. E venditori di fumo, di fake-news diremmo oggi.

    Non vollero capire neanche quando, con Hitler al potere, solo in un anno, nel 1938, nella sola Vienna vennero distrutte 22 sinagoghe, 40 centri religiosi e di incontro. Persino il grande cimitero ebraico fu quasi cancellato.

    In particolare dopo la Reichskristallnacht o la notte dei cristalli, quella tra il 9 e il 10 novembre ’38, quando in poche ore, in tutta la Germania ed Austria, molte persone – sotto gli occhi dei propri familiari – vennero subito assassinate (almeno 118), molte donne ebree violentate (oltre 100) nonostante il terrore del sacrilegio razziale, almeno 7.500 negozi ed imprese distrutti e 319 sinagoghe bruciate.

    Furono 2.500 gli ebrei uccisi o che, terrorizzati, si suicidarono in quella settimana.

    E, quale beffa, queste violenze furono imputate agli ebrei stessi, tant’è vero che la comunità ebraica fu condannata a pagare ben 1 miliardo di marchi quale risarcimento dei danni perpetrati.

    La vittima che viene costretta a pagare il suo killer. Come a Roma il 16 ottobre 1943.

    Del resto è facile creare mercanti di uomini quando questo è un pilastro del regime fascista e viene pubblicizzato, per vent’anni, dappertutto.

    Non a caso, il 6 agosto 1938, il giornale del regime «Il Popolo d’ Italia» scriveva a prima pagina nel titolo: «Il razzismo italiano data dall’anno 1919 ed è base fondamentale dello Stato fascista.»

    Se semini crimine, raccogli dai tuoi uomini, se ben plasmati, solo altrettanto crimine. E Mussolini in vent’anni potè plasmare bene gli italiani.

    Non solo Hitler coi suoi.

    Non vollero capire che già con l’assassinio del Cancelliere Dollfuss (25 luglio 1934), anche l’Austria era stata uccisa. Uccisa e tradita. Solo due mesi prima (17 marzo) a Roma l’amico e protettore del Cancelliere, Benito Mussolini, aveva garantito il suo appoggio contro Hitler, ma poi non aveva minimamente, tanto per cambiare, rispettato gli impegni, accodandosi al Fuhrer e diventandone poi, come noto, suo zimbello fino al giorno della tomba.

    Non vollero capire neanche quando Hitler indisse un plebiscito, una votazione, per ratificare l’Anschluss. Quel 10 aprile 1938 oltre il 99% votò a favore. La famiglia Gunther di sicuro era compresa tra lo 0,27% che disse di no. Uno dei mille inganni del Fuhrer.

    Non vollero capire che la comunità ebraica era stata scaricata da tutti, anche dagli altri Paesi, bravi a lamentare le crudeltà naziste ma ciechi nel trovare una soluzione o a offrire agli ebrei un rifugio. Nel luglio ’38 (dal giorno 6 al 15) venne indetta ad Evian des Bains, in Francia, una conferenza internazionale sulla questione ebraica. Vi parteciparono ben 32 nazioni. Solo un piccolissimo Stato si dichiarò disponibile ad accogliere rifugiati ebrei: la Repubblica Domenicana.

    Ricorda qualcosa del nostro piccolo mondo attuale?

    Gli stessi Stati Uniti, approdo preferito e principale via di salvezza, limitarono le entrate, con porti aperti solo in parte: dei 309 mila ebrei in fuga da Hitler, nel 1939, solo il 9% venne accolto. Accolto dopo esser stato spogliato, depredato, derubato di tutto nel suo paese, pur nel rispetto delle leggi legali emanate in quegli anni, nel Terzo Reich.

    Anzi, a seguito del fallimento di Evian, Hitler approfittò per stringere la corda attorno al collo agli ebrei. Non meno Mussolini, per non esser di meno, che il 5 settembre 38 emanò le Leggi Raziali anche in Italia, sporcando in modo indelebile di vergogna la nostra storia, proseguendo peraltro sulla strada già messa in cantiere col Manifesto della Razza e prima ancora col Regio Decreto n. 1227, del 28 agosto 1931, che obbligava i docenti, pena il licenziamento, ad insegnare nelle scuole la totale devozione al regime fascista e pertanto anche i principi razzisti su cui il fascismo di Mussolini si basava.

    28 agosto 1931.

    Hitler sarebbe salito a potere 17 mesi dopo. Quando si è all’avanguardia, i pionieri di un qualcosa, va detto. Non ridimensioniamo, per favore, i meriti del Duce!

    Non vollero capire e non capirono quando l’odio divenne politica di Stato e, con esso ogni minoranza, venne indicata quale minaccia per la ricchezza della maggioranza.

    E i partiti nazionalisti o suprematisti da quando il mondo è mondo, prosperano in queste situazioni, oggi come allora. Trovano linfa vitale per la loro affermazione, dando un senso alla loro stessa esistenza.

    Nella sola Germania, nel 1928, prima della Grande Depressione che sconvolse gli USA e poi a cascata, come un coronavirus malefico, l’intera Europa, il partito nazista di Hitler godeva solo del 3% dei voti.

    E vendendo paura e minaccia di perdere quel poco che si aveva, in soli cinque anni conquistò il potere. E nei successivi altri cinque preparò le carte per la distruzione del mondo, tra l’indifferenza e la cecità ipocrita di tutti gli altri attori. Distruzione che poi, puntualmente, arrivò nei cinque anni a seguire. E dalla conquista del potere (30 gennaio 1933) all’apertura del primo lager (a Dachau, il 20 marzo) non passarono neanche due mesi…Solo cinquanta giorni. C’erano troppe vite indegne d’ esser vissute che dovevano esser eliminate.

    I Gunther non vollero capire e così tutti gli altri uomini di buona volontà.

    I Gunther non vollero capire e la loro vita divenne giorno per giorno un inferno, con umiliazioni di ogni tipo e gravità. Qualche soldato nazista, candidamente, consiglierà in quei giorni alle famiglie ebree di non mettere al mondo dei figli, perché non avrebbero avuto al mondo alcun futuro¹.

    Jacob – Jacob Israel – nacque in quegli anni senza godere della libertà, della possibilità di giocare con altri bambini se non sempre i soliti bambini ebrei, sempre anche loro con la stella gialla sul braccio. Sempre gli stessi e che peraltro di giorno in giorno sparivano come neve al sole, talvolta verso paesi lontani, talvolta verso nomi nuovi e poco piacevoli. E sempre senza salutarti, senza lasciarti un sorriso e, peggio che mai, un indirizzo.

    Sparivano tutti all’improvviso, come l’amico Arthur e il fratello Karl che raggiunsero il padre in America o la piccola Adele, a cui Jacob piaceva molto sin dai tempi della scuola primaria.

    Sparivano tutti. Come farfalle, dopo l’estate. E ogni giorno Jacob diventava più grande e più solo.

    Poi arrivò la guerra e arrivò il grande Terzo Reich, che faceva terrore a tutto il mondo e non solo agli ebrei, bambini o adulti che fossero. In famiglia rimasero in pochi. Oltre al nonno e ai genitori, la sorella e due anziane zie, scappate di corsa da Praga, subito dopo la presa della città da parte dei nazisti. Furono loro, vecchie maestre in pensione, a fare da scuola in quegli anni a Jacob, in particolare quando a fine ’38 gli venne vietata la frequenza. Ai bambini ebrei non serviva studiare, non erano previsti nel glorioso piano del Terzo Reich, non erano compresi. Un costo inutile.

    E così forza, con lezioni private, di tutte le materie!

    Persino del ceco, francese ed inglese, non solo del tedesco. Conoscere il mondo, conoscere le lingue – a loro dire – sarebbe stato determinante a guerra conclusa, quando i confini sarebbero stati abbattuti e così anche i limiti mentali dell’uomo. Perché anche questa guerra, prima o poi sarebbe finita.

    A dire il vero Jacob era più portato alle lingue che forse ai codici. Se ne accorse anche il padre. Ma in quel periodo non era quella la preoccupazione che poteva bloccare, per sempre, il futuro dello stimato studio legale Gunther.

    Più volte il padre di Jacob pensò alla sua scelta di restare, ma mai si pentì fino allora, malgrado i rischi e le sofferenze, fisiche e morali, a cui, ogni giorno, lui e la famiglia andavano incontro. Mai però avrebbe pensato che l’uomo cadesse così in basso. Mai.

    Le cose si complicarono tragicamente, molto tragicamente, sul finire del 1941, inizi del 1942. La guerra era decisamente in mano ai nazisti e ai loro soci. Rommel spadroneggiava in Africa, i carri con la svastica erano a 20 km da Mosca, Kiev era caduta, Leningrado circondata, Stalingrado prossima. La Grecia e la Jugoslavia erano in mani a Hitler e Mussolini. La Shoah proseguiva a ritmi vertiginosi: solo a fine settembre ’41 in poche ore vennero sterminati 33.771 ebrei vicino a Kiev, nella gola di Babi Yar, la grande foiba ucraina. Fu in questo clima euforico che il Terzo Reich, il 20 gennaio ’42 nella Villa Minoux, sul lago Grosser Wannsee, alle porte di Berlino, definì la Soluzione Finale, con l’obiettivo dichiarato di eliminare fisicamente tutti gli ebrei dalla faccia della terra. 11-12 milioni di vite. E con essi tutti i rom, sinti, testimoni di Geova, omosessuali e qualsiasi altro essere inutile per vivere, indegno della vita. Saranno 2.700.000 solo gli ebrei, raccolti in tutta Europa, assassinati solo nell’anno solare 1942.

    Ogni tedesco, ogni alleato della Germania da quel momento avrebbe attivamente collaborato al progetto, con la massima crudeltà e sadismo.

    Chiedete a Dino, Arturo, Eurika il ruolo del nostro paese nell’orgia di tale orrendo crimine.

    Il programma della Soluzione Finale arrivò infatti dopo il fallimento inevitabile dell’operazione Madagascar quando Hitler, voglioso di rendere subito il Terzo Reich Judenfrei – su suggerimento di Adolf Eichmann – studiò di spostare nell’isola africana l’intera popolazione ebraica, o almeno la deportazione di ben 4 milioni di ebrei. E tra l’altro, separando sempre uomini e donne, affinché non si riproducessero e sempre sotto la stretta sorveglianza delle S.S. in quanto solo destinati ai lavori forzati.

    E nel piano criminale l’Italia c’era. Eccome!

    Il Duce propose addirittura l’alternativa dell’Etiopia, allora colonia italiana conquistata con l’iprite e difesa coi massacri, come quello della Yekatit 12 del 19 febbraio 1937, quello che non si insegna mai nelle nostre scuole. Conviene? Converebbe?

    Il Fuhrer e il ministro degli Esteri Ribbentrop ne parlarono e condivisero l’idea con Mussolini e il ministro Ciano già nel primo loro incontro – quello del 18 giugno 1940 a Monaco – dopo l’entrata in guerra dell’Italia, nel piano rispetto del criminale Patto d’ Acciaio firmato a Berlino il 22 maggio dell’anno precedente. I nostri condivisero l’idea.

    In quella riunione non venne invitato Himmler, contrario al piano Madagascar ed invece favorevole non all’immigrazione degli ebrei ma proprio alla loro completa eliminazione. La chiamerà: Endlosung.

    E fu proprio sulle sponde del Grosser Wannsee, che Himmler vinse la sua battaglia interna e fu al Grosser Wannsee (20 gennaio ’42) che per la prima volta si fece il nome di Terezìn (o meglio Theresienstadt) quale strumento primario del progetto. Fu l’unico lager nominato nei documenti ufficiali di Wannsee, l’unico degno di menzione. Non Sobibor, Treblinka, Majdanec o Belzec, già ampiamente allora purtroppo produttivi. A giorni si sarebbe sviluppato anche Birkenau, all’interno di Auschwitz.

    L’offerta del Ghetto di Terezìn che iniziò a circolare nella primavera del ’42, soprattutto a Vienna, fu accolta nel mondo ebraico della città con molta sorpresa, ma anche con un velo di speranza.

    Certo non era indolore, costava molto se non tutto, ma poteva aprire le porte ad un sogno che da secoli gli ebrei avevano coltivato: Israel. Una patria tutta loro, una terra solo loro. Governata da ebrei, gestita da ebrei, abitata da ebrei, con diritto e fede ebraica, libera ed indipendente. La Terra Promessa, l’Exodus biblico. Duemila anni dopo la distruzione romana di Gerusalemme.

    Certo era piccola, una piccola città murata, al centro dell’Europa, dove accogliere e raccogliere tutti gli ebrei e da lì poi, come un germoglio di fiore, crescere. Terezìn era il sogno. Il demonio aveva partorito un piccolo paradiso terrestre. E proprio vero che dal male, dalle avversità peggiori talvolta nascono delle favolose opportunità. Questo deve esser stato il pensiero dei Gunther e con essi di tutta l’intellighenzia ebraica ancora presente a Vienna. Bisognava accettare il rischio.

    Fidarsi di Hitler, fidarsi del nazismo? Era ancora accettabile?

    Era come nascondersi dentro le fauci della belva che ti cacciava, identificare i suoi denti quale idoneo riparo. Facile dirlo ora. Ma dopo dieci anni che ti accusano di tutto, di tutte le colpe del mondo dal giorno in cui, duemila anni prima, venne crocefisso Gesù, non sembrava davvero così strano.

    E le alternative a Terezìn per gli ebrei di Vienna si chiamavano Minsk, Riga, Lodz con la vicina Chemno, dove già dal 7 dicembre ’41 – quando gli occhi del mondo erano ad Oriente nell’Arcipelago delle Hawaii – iniziarono ad operare tre gaswagen, camion mobili destinati a gasare in loco gli ebrei e spostabili per facilitarne il compito, senza perder prezioso tempo e risorse. Vanto della produzione Opel, in primis.

    Lodz, soprattutto dove, già dal 5 settembre ’42, Himmler aveva ordinato che tutti i bambini ebrei con meno di dieci anni fossero all’istante separati dai genitori e uccisi nelle camere a gas.

    Oppure Auschwitz, che da marzo ’41 si era ampliata a tre km di distanza (come Auschwitz II) anche nella terra polacca del villaggio di Brzezinka (o Birkenau) e questa resa operativa già da inizio ’42. Sarà il fiore all’occhiello di Himmler, che quando verrà in visita (17 e 18 luglio ’42) orgogliosamente verificherà coi propri occhi l’efficienza del lager, godendo col massimo orgasmo alla gasazione di 400 ebrei olandesi conclusasi in pochi minuti. Grandezza dell’efficienza tedesca e della IG FARBEN, titolare della Bayer e produttrice del criminale Zyklon B (acido cianidrico) il cui nome nella nostra lingua si tradurrebbe in ciclone. Un ciclone per capacità distruttiva, peggio dei tornado americani. Prodotto a tonnellate e consegnato – quale ulteriore beffa – tramite vetture con la scritta Croce Rossa. Da vera catena di montaggio e morte a livello industriale dove, chiuso con la gasazione dei deportati, l’iter operativo era poi gestito da squadre di altri ebrei (Sonderkommando) che, prima di esser a loro volta uccisi, dovevano spogliare, prelevare, disinfettare e spedire in Germania l’oro ricavato dai corpi dei gasati (da gioielli, monete varie e denti soprattutto). Sarà una importante fonte di ricchezza per i gerarchi del Terzo Reich: anche 30-35 kg al giorno, subito destinato alle banche e raffinerie della Svizzera. La neutrale Svizzera.

    Parte dell’oro, tramite anche la vaticana Rat-line (La Via dei topi) del Vescovo Hudal, sarà poi spedito in Sud America, per soddisfare la loro pensione, a guerra finita.

    E a beneficiarne saranno anche molti fascisti italiani, figli della lupa e topi in fuga pure loro. Saranno almeno 30.000, nel dopoguerra, i nazisti e fascisti europei che andranno a divertirsi al sole del nuovo mondo dividendosi beati il bottino. Con la copertura e benedizione papale, in un silenzio assordante.

    Nel momento di massimo sforzo, quando a Birkenau si gasavano 12.000 essere umani al giorno, si arrivò ad utilizzare ben 900 ebrei nel Sonderkommando. Numeri spaventosi.

    Del resto solo ad Auschwitz-Birkenau vennero uccisi 1 milone e 100 mila persone, oltre 960 mila solo di ebrei. Tra questi anche i nostri 6.806 italiani, vigliaccamente venduti dal nostro fascismo, tra la colpevole indifferenza di tutti gli altri, fascisti o meno.

    La generazione dei nostri padri e dei nostri nonni, la generazione che si lasciò sagomare e sodomizzare dal Duce, sempre quello che – oggi molti dicono – abbia «fatto anche cose buone». Peccato che quei 6.806 ebrei italiani (oltre ad altri 749 uccisi in altri lager) non possano oggi contraddire quella falsità, la più grande fake-news nella storia del nostro paese. Non sono ritornati più a casa, per testimoniarlo.

    Nell’ inverno e primavera ’42, a Vienna di giorno si prendevano botte e immense offese, si camminava terrorizzati, ma la notte si era tutti impegnati a ragionare sull’ offerta di Terezìn. Non mancarono attriti, contrasti, forti discussioni tra le famiglie ebree di Vienna. Ma alla fine chi poteva, chi finanziariamente aveva ancora di capitali liquidi, accettò. Così anche la famiglia Gunther. E la loro scelta, dolorosa ma ben meditata, alla fine fu un esempio seguito da altre famiglie. Se gli avvocati Gunther, professori di diritto, persone attente e posate, avevano accettato, voleva dire che era la soluzione migliore.

    Era di certo la soluzione migliore nella Vienna nazista della primavera 1942, dove gli ebrei non potevano usare i mezzi pubblici, possedere una bicicletta o una macchina da scrivere, apparecchi elettrici o fotografici. A breve sulla porta di ogni appartamento abitato da ebrei ci doveva essere affissa una stella bianca.

    Fatta l’adesione, restava ora la scelta dell’immobile, in cui nella città-ghetto di Terezìn andare a vivere. Le opportunità erano molteplici, diverse, svariate, a seconda dei servizi inclusi e del prezzo, deciso direttamente dalla Gestapo per evitare speculazioni.

    Centinaia di migliaia di marchi. Più pulito di così, cosa si vuole! Più accattivante di così cosa cercate?

    Tutto organizzato, tutto studiato, nulla è lasciato al caso, affinché apparentemente nessuno possa ingrassarsi a danno altrui. Apparentemente.

    Come in tutti i regimi dittatoriali e criminali. Come a Roma ai tempi del Duce, coi vari predatori in camicia nera, i ladri del regime.

    C’erano le ville col giardino, ampio e gradevole, singole o multiple, più consigliate per le famiglie numerose. Ma a Vienna le famiglie ebraiche erano, a quel tempo, ridotte al minimo. Molti figli, i più giovani, o erano fuggiti verso l’ovest o erano già spariti verso l’est.

    C’erano villette a più piani, con terrazzi in cui prender il sole e sognare all’aria aperta.

    C’erano case, più o meno raffinate, con una dependance sul lago di Terezìn, ove volendo si poteva anche pescare. Vicino alle terme, le terme di Terezìn. Costavano un po’ di più, ma si diceva ne valesse la pena. Oppure grandi prati in cui svagarsi nei giorni di festa, una sinagoga grande e centrale ed alcune più piccole, storiche da oltre un secolo.

    Nella collina che portava al lago, d’inverno con le nevicate si poteva persino anche sciare.

    Non era montagna, ma era davvero possibile, tra la freschezza dell’aria salubre del luogo.

    C’erano scuole di vario livello, ordine e grado, perché a Terezìn i ragazzi dovevano crescere ed acculturarsi per un domani migliore. C’erano insegnanti ebrei e quindi anche conseguenti opportunità di lavoro.

    Al centro della città murata, a protezione di tutto e da tutto, una grande piazza ove anche riunirsi e decidere, parlare, governare. Perché il potere amministrativo era totalmente in mano al gruppo degli

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1