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Con Bata nella giungla
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E-book373 pagine5 ore

Con Bata nella giungla

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Info su questo ebook

Quella dei Bata è la storia di un successo mondiale, decenni prima della globalizzazione. Si trattava di un capitalismo a tratti ingenuo, seppure moderno. Illuminato, nel suo paternalismo: era attento alla qualità del lavoro e della vita dei dipendenti, fino a immaginare un vero e proprio “sistema Bata”, efficiente ed etico, comprensivo di buone paghe, istruzione, case, dettami morali.
Il romanzo ci dà l’occasione di rovistare nei cassetti e nelle scatole di latta di questa straordinaria famiglia di “calzolai che hanno conquistato il mondo”. Scatole e cassetti colmi di documenti, foto, diari.
Seguiremo Jan Antonín Baťa (così il vero cognome), uno dei più grandi uomini d’impresa di ogni tempo e luogo, visionario, caparbio e con un’incrollabile fiducia nel futuro, insieme modernissimo e d’altri tempi. Ci accompagneranno le sue figlie e nipoti, i cognati, con il loro racconto gustoso e dolente, sempre combattivo, tra i ricordi di mille peripezie affrontate procedendo a zig zag tra i dossi e le buche del Novecento.
La fuga dai nazisti prima e dai comunisti poi, che lo condannarono ingiustamente per collaborazionismo, il boicottaggio da parte di inglesi e americani, le beghe ereditarie, l’esilio e la nostalgia, con la lingua madre a fare da sottile e orgoglioso legame con le proprie origini.
E la giungla? Dei cechi, dei calzolai, nella giungla? Nulla di strano per uno che aveva immaginato di “trasferire” il popolo cecoslovacco in Patagonia per colonizzarla.
È in Brasile, infatti, che Jan Baťa si stabilisce una volta lasciata l’Europa, lì insedia fabbriche e fonda città, strappandole alla foresta. Dimostrando che con la volontà e la capacità, oltre che con il duro lavoro, si può ottenere molto, se non tutto.
E magari riuscire a far « venire a galla la verità come l’olio sull’acqua », come scrisse in punto di morte.
Alessandro De Vito
LinguaItaliano
Data di uscita19 mar 2020
ISBN9788833861029
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    Anteprima del libro

    Con Bata nella giungla - Markéta Pilátová

    Tavola dei Contenuti (TOC)

    Jan Antonín Baťa

    (Fratello unilaterale di Tomáš Baťa, che dopo la sua morte portò l’azienda allo sviluppo su scala mondiale)

    Ludmila

    (Figlia di Jan Antonín Baťa)

    Edita

    (Figlia di Jan Antonín Baťa)

    Jan Antonín

    Dolores (Nipote di Jan Antonín Baťa, figlia di Ludmila Baťová e Ljubodrag Arambašič)

    Il pittore ungherese

    Dolores

    Ljubodrag (Genero di Jan Antonín Baťa, marito di Ludmila Baťová padre di Dolores Baťa Arambašičová)

    Ludmila

    Edita

    Jindřich Waldes (Fondatore della ditta KOH-I-NOOR, re dell’industria dei bottoni, amico di Jan Antonín Baťa, le cui orme finiscono all’Avana)

    Jan Antonín

    La fabbrica

    Dolores

    Laďa Pinga

    Edita

    Ludmila

    Ljubodrag

    Dolores

    Ljubodrag

    La fabbrica

    Jan Antonín

    Edita

    Jan Antonín

    Ludmila

    Dolores

    Ljubodrag

    Dolores

    Jan Antonín

    Ludmila

    Ljubodrag

    Dolores

    Jan Antonín

    Dolores

    Jan Antonín

    Ljubodrag

    Jan Antonín

    Ludmila

    Edita

    Ludmila

    Edita

    Ljubodrag

    Dolores

    Jan Antonín

    Ljubodrag

    Dolores

    Il metodo della domenica (nota dell’autrice)

    NováVlna

    ( 7 )

    © Markéta Pilátová 2017

    © 2018 Miraggi edizioni

    via Mazzini 46 – 10123 Torino

    www.miraggiedizioni.it

    Titolo originale dell’edizione ceca:

    S Baťou v džungli, (Torst, Praha 2017)

    Logo_Ministero_ceco

    Translation of this book was realized with

    the support of the Ministry of Culture

    of the Czech Republic

    Ringraziamo il Ministero della Cultura

    della Repubblica Ceca per il sostegno

    alla traduzione e alla pubblicazione

    Progetto grafico Miraggi

    In copertina: rielaborazione di uno storico modello di calzature Bata, la batovka,

    © Bata Shoe Museum, utilizzata secondo la licenza cc by-sa 3.0

    Finito di stampare a Chivasso nel mese di gennaio 2020

    da A4 Servizi Grafici per conto di Miraggi edizioni

    su Carta da Edizioni Avorio – Book Cream 80 gr

    e Carta Fedrigoni Woodstok Materica Chalk 180 gr

    Prima edizione digitale: gennaio 2020

    isbn 978-88-3386-102-9

    Prima edizione cartacea: gennaio 2020

    isbn 978-88-3386-103-6

    A Rando e Randinho

    « Però è che sono a casa,

    e ci resterò fino alla morte,

    che mi colga dove le pare »

    Nota e indicazioni di pronuncia della lingua ceca

    In ceco l’accento cade sempre sulla prima sillaba

    le vocali accentate sono lunghe

    c > z sorda (mazzo)

    ch > aspirata sorda

    č > c dolce (cibo)

    ě > ie

    g > sempre velare (gatto)

    h > sempre aspirata

    s > sempre s sorda (sale)

    š > sc (scelta)

    ř > non esiste in italiano, è un misto tra rš e rž, o un j francese arrotato

    z > s sonora (rosa)

    ž > j francese (Jean)

    ď, ť, ň hanno un suono palatalizzato

    I nomi propri e i toponimi sono riportati tutti nella grafia ceca, salvo ove prevalga nell’uso la traduzione italiana: ulice (via), námĕstí (piazza), třída (corso).

    I cognomi, al femminile, prendono quasi sempre il suffisso -ova.

    Jan Antonín Baťa

    (Fratello unilaterale di Tomáš Baťa, che dopo la sua morte portò l’azienda allo sviluppo su scala mondiale)

    Sono sdraiato su un letto bianco. Il lenzuolo di lino è molto inamidato. Nevica. In lontananza sento il mio primo violino, quel violinetto che mamma aveva comprato da uno zingaro. Mi butto in discesa sulla custodia nera, è resistente ed è meglio delle slitte, arrivo giù per primo. I ragazzi fanno a lanciarsi la neve, mi ricoprono tutto e vogliono sotterrarmi in un cumulo, e io mi difendo, respiro a stento. Mi fa male il petto. Lída mi ha portato un bicchiere d’acqua e ha acceso il ventilatore. È pesante, ronza cupo, minaccioso, sembra un piccolo aereo. Sembra il nostro aereo Lockheed Electra L-10, numero di matricola 1091, del 1937. Ci ho fatto il giro del mondo, primo ceco. Non riesco a distogliere lo sguardo. Vedo il ventilatore e poi di nuovo l’aereo. Ventilatore, aereo. Là, e di nuovo. Ventilatore, aereo. Qui, e lì. Lì e qui. Il rombo monotono del motore. Lo strepito delle pale di legno. Il caldo ricacciato in un angolo, che ritorna sotto forma di accensione del motore. Guardo il soffitto e sono convinto che quel mostro mi cadrà addosso, o che ci salirò, mi allaccerò la cintura di sicurezza e volerò a casa. Sudo, e subito dopo tremo di freddo. Sarà febbre del viaggiatore. Mi tranquillizza però che accanto all’ospedale cresca una vecchia e contorta dama da noite. Dama notturna, pianta dalle spesse foglie con minuti fiorellini. Dona Marina Trachtová un giorno aveva detto che le cresceva sotto le finestre perché il suo profumo porta in casa la felicità. Quella volta ero a letto con il primo infarto a Batayporã, a casa di Jindra Trachta, dove avevo l’ufficio. Stavo sdraiato senza potermi alzare, mi ero sentito male. Là c’era solo Marina. La bella Marina di Jindra. Sempre vivace come uno scoiattolo. Stavo male. Tutto ondeggiava con me, come se stessi volando completamente da solo nel vuoto. Tutti volavano qua e là allo stesso modo, come panni sporchi, si davano da fare con la sega, abbattevano la foresta o preparavano qualche scartoffia, e io tenevo la mano di Marina e la pregavo di non andare via. Ovviamente là un medico non c’era. Non ci sono medici nella giungla. Marina mi promise che non sarebbe andata da nessuna parte. Sussurrava: « Signor Baťa, inspiri un po’ di questo profumo, porta fortuna ». Allora¹ inspirai più che potei. I fiori della dama notturna sono un incrocio tra cactus e orchidea. Fioriscono. Esalano nella notte un profumo inebriante, persistente e dolce, meta del volo di nugoli di farfalle e di colibrì notturni. Dopo tre giorni, sfioriscono. Perché sono fioriti proprio ora? È forse primavera? Com’è che fa la canzone? « Ah ogni vecchia megera, è più allegra a primavera… » Che vuole dirmi quella dama notturna? Che oggi è un buon giorno per morire? Borbotto che non è mai un buon giorno per morire. Quando Lída o Maja al mattino aprono le finestre, quel profumo mi pervade, mi sommerge e mi porta via. Lontano dall’ospedale di San Paolo, lontano attraverso l’oceano, a un altro profumo, all’odore umido della terra e della neve primaverile, dove non mi manca il respiro ma inghiotto tutto con ingordigia a grandi boccate. E non ho paura, là, di respirare. E non ho paura di ritornarci.

    Ritornare per poter raccontare e aggiungere qualcosa, stavolta di mio, a quelle dicerie, menzogne, cospirazioni, piccole e grandi verità. Sono già stato un po’ di tutto sulla bocca e sul volgare muso della gente: nazista, ebreo, ebreo tedesco, ebreo ceco, ebreo comune, slavo schifoso, agente del terzo Reich, disertore, traditore della patria, sabotatore della nazione, gigante, agnello sacrificale dei comunisti, re dei calzolai, continuatore, Capo e ora pare che sia stato anche un punto nevralgico della storia ceca contemporanea. Prendetela come volete, ma ritornerò, perché non mi sono mai rassegnato a che Lída con Edita e dopo di loro anche Dolores dovessero elemosinare la vostra iniqua giustizia. Mi arrabbio di nuovo, e non dovrei, dato che sono morto d’infarto. Voglio vedere per bene come va a finire questa storia. Magari anche farla a piccoli pezzi. E poi rimetterli insieme con pazienza, per vedere se è possibile ricomporne i tratti in modo che reggano insieme. Chiarire tutti i fili, godere del fatto che ormai conosco l’infame che li ha tirati, osservare tutto attraverso la lente d’ingrandimento del tempo. E comprendere perché non avete voluto ascoltarmi per tanto tempo. Perché ve la siete voluta contare tutta da soli.

    Ludmila

    (Figlia di Jan Antonín Baťa)

    Era bianco come il gesso. Che fosse l’ennesimo infarto? Anche se non sembrava così. Pensavo soltanto che si sentisse male, che avesse mangiato qualcosa, o che semplicemente, come tante altre volte, avesse fatto indigestione. Ho chiamato il dottor Andrade chiedendogli di venire a Batatuba, e di fare in fretta. È un infarto. Per la miseria! E ora? È proprio una bella gatta da pelare, come diceva nonna Gerbecová a Hradišťa², come diceva il dottor Gerbec. E ora niente. Siamo andati nell’enorme ospedale Beneficência Portugesa a San Paolo. È quasi un mese. Sul letto c’era sempre un piccolo tavolino pieghevole, ché potesse scrivere. Far fronte alla morte col lavoro. La nostra famiglia dedita al lavoro. Far fronte a tutto, con l’assiduo e benedetto lavoro. Alla morte e alla vita. In mano, carta e matita. La stilografica non la vuole, quando riflette più a lungo, gli si secca l’inchiostro. Ci diamo il cambio con mamma, sembra stanco. Lei e lui, tutti sembriamo stanchi. Lui annota sempre qualcosa. È sempre lì che prende decisioni, che assume su di sé la responsabilità. La indossa ogni giorno, come una camicia pulita. E si stringe la cravatta del lavoro. È sempre lì che pensa. È sempre qui. Al mattino si sveglia presto. Vuole che apriamo la finestra, per poter respirare più facilmente, per vedere l’alba. Guardava il sole, ma io lo vedevo, come cadeva nella sua peregrinazione tra tutte le fabbriche che ha disseminato per il mondo e che sono cresciute come funghi dopo la pioggia, come champignon su un terreno ben concimato. Fabbriche che tutti ovunque ammiravano, il loro sistema Baťa, ordine, efficienza, funzionamento impeccabile, rendimento, opportunità. Fabbriche che erano una spina nel fianco per tutti. Per i capitalisti e per i comunisti. Lo vedevo, come viaggiava esaminando bene tutto, come ragionava su dove e che cosa comprare, inventare, di cosa avvalersi, che istruzioni dare, cosa migliorare, come realizzare un guadagno, un insediamento… però so che proprio in questo momento si sta lanciando con i mandriani dietro le mandrie di tori bianchi per le polverose strade di terra rossa. Cammina con loro sulle rive del fiume Paraná, e nelle sere vicino al fuoco mangia con le mani pezzi di carne di bufalo senza vergognarsi e senza tagliar via il grasso, né badare alla buona educazione. Guarda la possente corrente del torbido Paraná e immagina di prosciugare tutte le paludi che lo costeggiano. Domare quel fiume! Decisamente per lui non è sufficiente che là, ogni sera, stiano appollaiati sui tronconi morti degli alberi stormi di aironi bianchi, che quello sia il loro regno. Lui vuole che quegli umidi pantani gorgoglianti diventino qualcosa di utile, il futuro, qualcosa per le persone. Non per gli aironi. Desidera mettere in ginocchio quel possente e superbo fiume e utilizzare tutta quella possanza e quella superbia per il progresso, per qualcosa di meglio del destino che hanno assegnato a quella regione le parche, che hanno dato numeri perdenti ai sem terra disoccupati. Vede già ergersi, lì al posto del nulla, moderne case e fabbriche, cinema e lungofiume, giardini ordinati al posto della giungla. Brama di addomesticare quella selvaggia arroganza della natura. Annodarla con il ponte più grande che il Brasile abbia mai visto, e così essere un po’ Carlo IV, essere da qualunque altra parte che non lì, legato a quelle pareti imbiancate e al lenzuolo inamidato e a un cuore inaffidabile che gli fa sempre male.

    Dice che sente il profumo della dama da noite. Non voglio contraddirlo, per quanto sia agosto e la dama notturna fiorisca a marzo. Che importa di quando quella stupida pianta fiorisce! Ora lui desidera il suo profumo dolce. E una torta. E delle meringhette. E della lingua di manzo affumicata. E patate schiacciate col soffritto di cipolla. E burro. E gelato. E un comune caffè forte. Tutto ciò gli è vietato. « Perché devo vivere, se non posso mangiare niente? » chiede con aria di rimprovero. « Ma papà… » lo sgrido. « Non dica così! » Non capisco perché gli do del lei. Mi guarda interrogativo e sorride. « Ci diamo del lei, Liduška? Ma per favore, sei impazzita? » « No, mi è solo… non lo so. Mi è solo sfuggito. » « Allora, certo » annuisce, e non ci pensa più. Annota qualcosa. Scrive poesie. Brutte poesie. Belle poesie. Le sue poesie. E il grande corpo di un omaccione dello Slovácko³ quasi non ci entra in un letto pensato per un esile brasiliano. È robusto come le querce lassù da noi. Alberi che qui non crescono. Qui hanno un legno troppo morbido, disposto ad abbattersi a terra in ogni momento, ospitale per ogni insetto, che rosicchiando scava un’infinità di buchi e lo riduce in trucioli prima che possa svettare fino al cielo. Però lui è una quercia, e una quercia la schianta solo un fulmine, o l’ottavo infarto.

    « Liduška, scriviti il menu. Scrivi cosa voglio mangiare quanto torno dall’ospedale, va bene? Per avere l’aspettativa di qualcosa! » Io prendo nota e lui sorride beato. « Allora, Lidunka, il lunedì… ci sei? » « Ci sono. » « Minestra di brodo di manzo con pastina fine. Vitello stufato, o ai ferri. A cena prosciutto a fette con purea di patate. Il martedì passata di piselli e pollo gratinato con verdure, a cena quadratini di pasta fresca al prosciutto. E potrei mangiare anche qualcosa di dolce, qualcosa di leggero, ma dolce. Un budino di riso al limone, o frittelle con marmellata di amarene, che ne pensi? Lidka, me lo fa quel budino al limone? » Annuisco, annuisco come l’infelice Hurvínek con la sua grande, troppo pesante testolina.⁴ Lo farò. Farò tutto per te.

    Quando la notte sto seduta vicino al suo letto, mi giunge in sogno un mondo innevato. Ricordi di lui. Il quadro che ho dipinto e che ho portato fin qui. In cui c’è una baita su un declivio sassoso da qualche parte su da noi, e due betulle contorte, sommerse dalla neve. Alberi non adatti alla montagna. Come io non sono adatta qui. Nella luce tropicale. Nel caldo. Nell’oblio e nel perpetuo rimpianto di coloro che se ne sono andati, gli esuli. Disegno bene, dicono che abbia talento, ma quelle betulle mi sembrano lo stesso strane. Delle betulle losche. Ho talento anche per la musica e per obbedire. Sono sempre stata obbediente, chissà perché, perché uno obbedisce? Per stare in pace. E io ho sempre voluto stare in pace. Pace per suonare. Per quei sottili e tumultuosi suoni che emette il mio pianoforte a coda. E quando ero obbediente, c’era pace ovunque.

    Una tempesta di neve. Continuo ad avanzare, il vento mi rantola sui piedi, mi fa lo sgambetto, mi incaglio nei cumuli di neve ma continuo a salire, verso la cappelletta, per posare ai piedi della sbiadita dozzinale immagine di Cristo la rosa di carta che il mio amato Rudy mi ha tirato alla festa del paese. Finalmente riesco ad arrivare lassù, il sudore mi gocciola sulla pesante neve bagnata, la tempesta cessa, il vento ha smesso di rantolare, ne resta appena un lamento. Sono in cima, ma qui la cappelletta non c’è. Sono su una cima sconosciuta, sbagliata. La carta crespa mi si inumidisce in mano e i colori si sciolgono, formando ai miei piedi delle pozze rosse. Mi sveglio sudata, il grande ventilatore di legno dal bordo dorato annerito fa rumore, e io boccheggio. Papà, il Capo, dorme. Spengo il ventilatore, apro la finestra. Questo lo sveglia. « Spalanca le imposte per favore, e non accendere, aspettiamo che sorga il sole » dice. Lascio che accorrano zampettando gli insetti notturni, che si rintanano nei nascondigli, nelle fresche fessure tra la corteccia e le foglie. Oggi il sole si fa un po’ attendere. Gli aggiusto i cuscini che ha sotto la testa, lo sorreggo perché possa sedersi. Si mette a sedere e guarda i colori sanguinare nel cielo ancora grigio. Ieri era calata una nebbia fastidiosa, ma oggi il cielo è terso, senza gli appiccicosi brandelli di umidità fredda che rimangono intrappolati nei fitti merletti delle felci del giardino dell’ospedale. Agosto è il mese delle più belle lune piene, ma le albe non valgono nulla. Stavolta però il sole c’è, rosso in tutta la meraviglia di cui è capace in agosto, quando i fiori non fioriscono e li si trova più che altro alle feste di paese e di carta. La mamma non è ancora arrivata, siamo qui io e lui. Siamo qui insieme, e questo insieme è così stretto che so quello che pensa, che posso arrivare a toccarli i suoi pensieri, posso prendere in mano le loro fibre d’argento e parlargli direttamente, senza esitazioni e giri di parole. Parlare con lui come se suonassi il piano. Parlare con lui tramite una musica che possa riconoscere, ma come qualcosa di più, che aggiunga lucentezza, anche se mai quanto il lavoro, il diligente e benedetto lavoro delle persone benedette, mai quanto un obiettivo.

    Si raddrizza un po’ nel letto. Accade quando arriva la mamma. Appoggia la borsetta nera di vernice con la chiusura dorata un po’ logora sul letto bianco come neve, e quel contrasto mi ferisce gli occhi. Sono tutta rotta dalla poltrona dell’ospedale e insonnolita. « Vai a fare un pisolino, figlia mia, sdraiati un po’ qui di fianco, dalle infermiere » dice la mamma. Non replico. La ascolto. Vado fuori. E lo guardo, socchiude piano gli occhi, perché il sole è ormai alto nel cielo ed è così che lui ha finito la sua preghiera mattutina. Esco dalla stanza. Non ho più voglia di dormire. L’infermiera mi fa un forte caffè ristretto e mi offre un calmante. Non ne ho bisogno, sono calma. Sono entrata in contatto con i suoi pensieri, ho suonato il piano dentro di me e ho guardato sorgere il sole. Sto seduta su una poltrona dalle infermiere, forse dopo tutto mi sono appisolata, perché quando mi sveglio l’austero orologio dell’ospedale segna quasi mezzogiorno. La mamma strilla. D’improvviso è tutto un parapiglia, tutti corrono in ogni direzione. La parola resuscitare con tutte quelle sibilanti mi sibila acuta attraverso tutto il corpo. Osservo le lancette nere dell’orologio strisciare verso il nulla. Sono tutti sgomenti, sconvolti, in preda ai nervi. Io no. Mi avvicino tranquillamente al letto, lo guardo. Guardo le sue grandi mani da omone. Mani da pastore di Valacchia⁵, mani da invasore mongolo della stirpe dei Baťa, mani da calzolaio, mani da Capo. In quelle mani tiene un foglio, gli sta scivolando un po’, e lo prendo io. Leggo la sua calligrafia ampia, l’ultima parola è quasi illeggibile, ma so cosa ha scritto: « La verità verrà alla luce come olio sull’acqua ». Questo me lo ricorderò. Mi ricorderò questo sorgere del sole, questo congedo.

    È stato un giorno pesante, è stato tutto così lungo. Jenda stava in ginocchio accanto al letto gemendo che papà non lo lasciasse. Stavo ben dritta, poi come sempre sono caduta sulla gamba sinistra, su quella mia gamba sinistrata, slogata da così tanto tempo. Ora sto in piedi solo grazie a lei. Quei dieci centimetri che le mancano mi hanno insegnato a puntare i piedi, a star dritta in ogni circostanza. La strada dalla cappelletta di Atibaia a Batatuba era cosparsa di fiori freschi a perdita d’occhio. Dove diavolo li avrà raccolti quella gente, ora in questo agosto brasiliano che si trovano solo dei crisantemi?

    Edita

    (Figlia di Jan Antonín Baťa)

    È come se fossi ancora su quel treno. Tutta la vita da allora mi sembra un infinito viaggio in treno. Il paesaggio scorre dietro il finestrino e si fa buio perennemente. Qualcuno mi deve aspettare al binario, ma non so chi sia, e non lo so per certo. Dappertutto ci sono scritte in ungherese. Ho quindici anni. Sulle gambe magre da cicogna con le ginocchia sporgenti ho dei calzettoni d’angora, nonostante sia giugno. Mi grattano e danno fastidio e si sfilano di continuo dai polpacci, si arrotolano alle caviglie costringendomi a tirarli su ogni volta. Però li ha fatti a maglia la nonna Hrušťáková di Hradišťa, e quella non permette di far torto alle sue capre d’angora, e le tosa sempre a zero. I loro occhi di rubino e la loro pelliccia morbida e soffice, che chissà perché in seguito si trasforma in ruvida lana. Noi ragazzi Baťa siamo obbligati a mettere quelle tremende calze e tutto ciò che la nonnina fa a maglia. Ho la sensazione che quel treno non si sia mai fermato. In realtà non ne sono mai discesa. Come se non fossi mai scesa alla stazione di Budapest, come se avessi continuato a tenermi alla mano del segretario di papà, anche se ormai ero grande e non era il caso. Poi l’ho guardato da una finestrella sporca della stazione di Brno. Ancora oggi faccio sogni strani sui treni. Ancora oggi di tanto in tanto mi portano via. Di notte divento un rifugiato.

    Sapevo però che me la sarei cavata. Mi dicevo che sarebbe stato solo un attimo, una specie di prova di coraggio, e che l’avrei certamente superata. Mi hanno sempre detto che sono una scolara coraggiosa, e che sono intelligente. Andavo bene a scuola, ero brava con le lingue, tedesco, inglese, francese, è sempre stato un gioco da ragazzi. Quando però sono salita sul treno e il signor segretario si è raccomandato di non addormentarmi e di scendere alla stazione centrale di Budapest, ho rimpianto di non aver studiato l’ungherese, che non mi fosse mai venuto in mente. Avevo soltanto una borsetta di tela, una valigia avrebbe rivelato a chiunque che andavo da qualche parte per molto tempo. Nella borsetta dei fazzoletti, trenta corone ceche in un portafoglio di pelle e l’acqua di Colonia di mamma, che aveva dimenticato a casa quando era partita con Jeník e Mařenka su un’altra linea prima di me, in modo che la nostra fuga non fosse appariscente. Due SS facevano la guardia davanti a casa, ma a nessuno di loro era venuto in mente che sul retro in giardino c’è un cancelletto invaso dalla vegetazione che porta al giardino della scuola. L’aveva fatto fare papà per noi quando noi tre ragazze e Jeník frequentavamo la scuola elementare, per accorciare la strada. Avevo lasciato tutto a casa. Avevo chiuso nell’armadietto di quercia le mie bambole preferite, le stoviglie giocattolo, il cane di peluche, l’orso Bear e il coniglio Chrupka, non so neppure perché, avevo quindici anni ormai, mi arricciavo i capelli rossi e disegnavo delle sottili linee nere sotto gli occhi verdi. Con le bambole non giocavo più da tempo. Avevo legato la chiave dell’armadietto a un nastro di lino e me l’ero appeso al collo. Ancora oggi porto con me in tasca quella piccola chiave d’argento. Quando sono nervosa la stringo forte e passo le dita su tutti i suoi orli, la premo nel palmo finché non fa male. A volte vado col ricordo alle cose nell’armadietto, chissà se sono ancora lì, o se hanno preso vita e sono fuggite, o hanno preso anche loro un treno che le possa riportare da me. Le aspetterei al binario nella scura Budapest, e poi le pulirei per bene su un grande transatlantico, e una volta sbarcati le sistemerei nei loro nuovi posti e insegnerei loro la lingua della nuova terra, e non ne sentirei mai più la mancanza. E se qualcuno l’avesse forzato, il mio armadietto, e avesse buttato nell’immondizia i miei giocattoli? Ci avranno giocato altri bambini? I bambini di chi? I figli delle SS, o i figli dei papaveri comunisti, che hanno fatto tutti i loro comodi in casa nostra a Zlín? Papà alla fine su questo aveva scritto una poesiola. Il dieci gennaio 1941. Si intitolava:

    La casa requisita

    La nostra casa e il nostro giardino, frutto del nostro sudore

    sono stati requisiti da stranieri, che hanno occupato il Paese,

    sui nostri pavimenti e tappeti batte il passo dei loro stivali

    come le loro voci alla radio battono sulle nostre speranze.

    Battono coi loro tacchi dove il primo pianto dei miei figli

    è riecheggiato negli anni felici in cui le persone e le parole erano libere,

    solo perché non ci è stato permesso difendere la Patria col nostro sangue,

    il Golgota ci attende tutti, di nuovo e ancora quel popolo.

    Quando vado da qualche parte col treno e salgo, guardo sempre se il posto è vicino al bagno, perché è così che quella volta riuscii a farla sotto il naso a un soldato con la croce uncinata sulla manica. Quando sentii che in frontiera cominciavano a controllare i documenti, corsi al gabinetto, ma non chiusi la porta a chiave. Il soldato aprì di scatto e io mi appiattii sulla parete dietro la porta. Il treno dondolò e lui la sbatté di nuovo per chiuderla. Me ne stetti lì, trasformata in un’ombra, in un invisibile insetto grigio, fissando il lavandino sporco e lo specchio crepato. Riesco ancora oggi a ricordare l’odore di lavanda rancida del rimasuglio di sapone e il piccolo ricamo sull’asciugamano stropicciato, lavato mille volte. Osservai ogni dettaglio, esaminai ogni singola molecola d’aria, ogni fredda goccia di sudore. Potrei tuttora disegnare a memoria tutte le crepe sulla superficie di quello specchio rotto. Non pregai. Avevo la sensazione che in quel momento Dio non mi avrebbe sentito. Forse a causa della guerra che stava per cominciare, forse per il rumore ritmico delle ruote di ferro del treno sui binari, o forse per il fatto che mi vergognavo di supplicare per la mia vita. Il fatto è che se l’avessi fatto, avrebbe significato che era davvero questione di vita o di morte. Questo, io, non lo potevo ammettere. Mi dicevo sempre in continuazione una frase che avevo sentito dire a papà parlando con il contabile capo, il signor František Muška. Gli aveva detto: « Lo sa, Frank, cos’è il peggio? Essere nella merda fino al collo ». E io non volevo trovarmici. Cercavo però di stamparmi tutto con forza nella memoria, perché poi volevo raccontarlo a papà. Volevo ricordarmi tutto di quel gabinetto. Volevo impararlo a memoria, quel posto zozzo. Quando fui certa che non avrei potuto dimenticare nulla, ritornai nella carrozza. Incollai il naso al finestrino, era freddo, fuori veniva buio e il treno sfrecciava sbuffando per le pianure ungheresi, tremava di sdegno, mi vibrava nella testa. Era come un animale inquieto, la pancia piena di avvenimenti da portare chissà dove. In ogni caso la mia vita completamente diversa cominciò su quel treno. A Budapest scesi sul marciapiedi, mi sedetti sul binario, su una panchina, e aspettai. Non era venuto in mente a nessuno di darmi dei soldi ungheresi. Avevo fame e sete, e cominciavo a essere più che nella merda. Come l’oscurità si fece più fitta, cominciai a lavorare di immaginazione, che le SS ci avevano di nuovo presi, me, Jeník, Mařenka e mamma Mája, come la prima volta quando avevamo provato a scappare da Zlín e non ci era riuscito. È curioso che dopo tutti questi anni mi sia restato in mente solo quel viaggio in treno e non la prima fuga. Può essere perché finì in un insuccesso.

    Per me la guerra era cominciata con un mazzo di rose rosse dai petali di velluto. La mamma l’aveva ricevuto dalle SS quando erano arrivati a Zlín. Erano così fastidiosamente invadenti e cortesi. Tutti neri e sinistramente in ghingheri, profumavano di sapone e di un dopobarba di marca sconosciuta. Il loro odore ricordava la naftalina e l’alcol non diluito. C’era ben poco di fresco in loro. Sapevano di morte. Suonarono, non chiesero niente a nessuno e ficcarono in mano a mamma Mája quel mazzo. « Per la signora Capo » rise uno, ironicamente. Sembrava di stare in un favola sinistra. Un’uniforme nera con i teschi e delle rose rosse. Mamma non disse nulla, prese il mazzo tutta rigida, senza annusarlo. Fece solo un cenno con la testa e si congedò subito, sgarbatamente. Poi gettò le rose nell’immondizia. Qualcuno però dovette accorgersene, di quelle rose nei rifiuti. Per la prima volta qualcuno ci spiava con attenzione.

    E poi quella prima fuga di fretta, non meditata e troppo avventata. Jeník con la febbre, avvolto tra pellicce e coperte in macchina, le strade innevate, la bufera. I sottili cristalli di ghiaccio al finestrino. Papà era in Polonia e noi volevamo cercare di raggiungerlo passando la frontiera. Non era lontano, ma l’autista non vedeva bene la strada e procedeva a passo d’uomo. E all’improvviso un gruppo di soldati attorno alla macchina. E Alt!, e Dove andate? e Perché con un tempaccio simile. In mano non avevano più rose rosse, ma dei mitra. Mamma non fu in grado di replicare nulla, ma l’autista si riebbe e sostenne che stavamo andando col piccolo Jenda all’ospedale, ma nella bufera si era perso e non sapeva dove ci trovassimo esattamente. Il soldato urlò di tornare indietro, che l’ospedale c’era anche a Zlín. Quindi aspettammo tutta la primavera per fare un altro tentativo. È tutto così lontano, è stata primavera secoli fa, e io ora sto seduta alla stazione Keleti a Budapest. È quasi mattino, nel cielo pallido cominciano ad apparire le prime esitanti ombre delle nuvole. Sono felice di avere quei calzettoni che prudono, stringo le ginocchia al petto e immagino che cosa avrebbe fatto la nonna Hrušťáková, nel caso che non fosse venuto nessuno a prenderla. Che si sarebbe comprata, per trenta corone ceche? Si sarebbe seduta sugli scalini davanti alla stazione a far la maglia? L’avrebbe tranquillizzata il tintinnio di un ferro sull’altro? Avrebbe chiesto l’elemosina? Sarebbe salita su un treno per tornare indietro? O sarebbe andata alla posta a fare un telegramma? E a chi? Dove? Nel Protettorato, o in Polonia, al numero che avevo dovuto

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