Uomini e donne di Fabrizio De André: Conversazioni ai margini
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Non lezioni, ma sommesso argomentare da “maestro di vita”. Come nelle sue canzoni, traspare così l’impronta della sua anima, l’ansia di giustizia mai venuta meno e il sogno, sempre coltivato, dell’anarchia.
Chi ha conosciuto Fabrizio De André sa che con lui si poteva parlare di tutto ed apprendere; mai una cosa sola: suonare, mangiare, discutere, bere, fumare; con lui, molto semplicemente, “si viveva”.
A queste conversazioni fa da sfondo il clima culturale e politico degli anni Settanta-Ottanta, col forte incremento dei nuovi poveri, immigrati, zingari, ai margini di quella società che Fabrizio aveva definito “l’economia del dono”.
In mezzo le opere del cantautore-poeta, quelle canzoni che, attraverso le storie di molti eroi “al contrario”, in una magica fusione tra musica e versi, ci hanno fatto conoscere la sopraffazione dei forti, le loro e le altrui miserie, le tante solitudini di uomini e donne, la guerra, la follia, la morte.
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Anteprima del libro
Uomini e donne di Fabrizio De André - Alfredo Franchini
Introduzione
Il problema non è che io gli volevo bene è che me ne voleva lui. Io posso continuare a volergliene ma lui non c’è più
. Era il 1985 quando Fabrizio De André pensava in questo modo al suo rapporto con il padre appena morto: Ho perso uno schienale cui appoggiarmi
, ripeteva.
È proprio quello che è capitato a tutti noi quando il nostro amico fragile s’è assentato
. Da quel giorno è cambiato tutto: ci siamo ritrovati un po’ più soli mentre il Potere è stato più tranquillo. Poeti, musicisti, giornalisti hanno scritto di lui cose bellissime e tutti hanno sostenuto di avere perduto un pezzo di sé. Poi tantissime persone, da una parte all’altra dell’Italia, hanno ritenuto spontaneamente di dovergli fare un omaggio sia pure postumo. E si moltiplicano le iniziative: ci sono scuole in cui i ragazzi hanno messo in piedi un concerto basato sulle canzoni di De André e pittori che hanno allestito mostre di quadri ispirati sempre alle sue opere.
Insomma:
"Anche se non ci sei più, continui ad essere
nel ricordo di quelli che ti hanno visto
in quelli che so io,
ai quali chiedo
un’entrata attraverso i loro occhi,
per potermi acquistare la tua presenza".
Così recita la poesia di Manuel Altolaquirre che l’amico Alessandro Gennari, anch’egli morto poco meno di un anno dopo Fabrizio, aveva inserito in un’antologia. Furono davvero migliaia le persone che cercarono un’entrata attraverso altri occhi per riacquistare la sua presenza
il 13 gennaio del 1999, il giorno del funerale, nella chiesa di Nostra Signora dell’Assunta a Genova.
La basilica cinquecentesca era stata scelta per la possibilità di ospitare un maggior numero di persone ma era anche un luogo simbolico perché domina la collina di Carignano e si trova a due passi dai carruggi.
Di fronte c’è il molo del Porto Antico dove Fabrizio aveva acquistato una casa e ora c’è una strada intitolata a lui. Quella mattina, a Genova, c’erano tutti: fuori della chiesa ragazzi che cantavano accompagnandosi con la chitarra vicino agli anarchici con le bandiere nere e la A cerchiata di rosso. Dentro la basilica ministri e politici di rango, (quelle autorità che detestava), cantanti famosi, balordi e prostitute; piangeva anche una barbona con tre gonne indossate una sopra l’altra per difendersi dal freddo. Tutti in chiesa, un luogo forse imbarazzante per la maggior parte di noi e per lo stesso Fabrizio. Lui cercava cose grandi dove nessuno andava a scavare e dove gli altri erano pronti a giudicare
, disse il teologo Antonio Balletto durante l’omelia. Era pronto a capire, a cercare i valori ma anche a colpire le cose che non andavano bene
. Ci ha insegnato l’alfabeto dell’amore, sostenne il sacerdote, tocca a noi continuare ad impararlo
. E infine auspicò più che cieli sereni mari belli giacché Fabrizio amava la dimensione e l’orizzonte del mare
. Da quel giorno s’è creato un meccanismo delicato di commemorazioni poetiche e riservate che si affiancano a decine e decine di siti Internet allestiti da orfani
che vogliono solo comunicare ad altri orfani
che cosa ha rappresentato Fabrizio per loro. Tutti tengono conto del proprio dolore ma lo fanno con molta riservatezza, compresi i signori della poesia, da Mario Luzi ad Alvaro Mutis, che si sono inchinati di fronte ad un uomo che non ha mai avuto la pretesa di insegnare nulla e che quindi, senza volerlo, è stato un maestro per tutti.
Questo libro fu pubblicato, nella prima edizione, nel febbraio del 1997, poco prima che fosse dato alle stampe il bellissimo saggio Accordi eretici
con l’introduzione del poeta Mario Luzi e quando Fabrizio stava varando la nuova tournée. Il mio scopo era di fermare molti ricordi e realizzare un ritratto, peraltro dichiaratamente di parte, ricostruendo a posteriori le tante lezioni
di politica, economia, lingua e letteratura ricevute da Fabrizio. Alle conversazioni fa da sfondo il clima culturale e politico degli anni Settanta-Ottanta; in mezzo ci sono le opere di De André che, attraverso la magica fusione tra musica ed endecasillabi, hanno fatto conoscere la sopraffazione dei forti, le miserie umane, la solitudine, la guerra, la morte. Il filo conduttore della storia è rappresentato dai concerti: dalla prima apparizione in pubblico nel 1975 alle successive tournée del ‘78-’79, dell’´81-’82, dell’84, del ‘91-’92 e del ‘97-’98. Gli feci vedere il libro con il timore che può avere uno scolaro davanti al maestro. Dopo averlo letto mi telefonò per ringraziarmi: Mi hai fatto un bel regalo, nel leggerlo ho rimesso ordine alla mia vita
e così dicendo mi fece un omaggio indimenticabile.
A distanza di qualche anno mi è sembrato opportuno ritoccare il libro apportando un’opportuna revisione e un ampliamento dei racconti con episodi apparentemente marginali di un vero libertario da sempre convinto che la vita, fatta di sogni, passioni e slanci, non fosse poi così difficile da vivere, che sarebbe bastato non complicarla. Una convizione che naturalmente si scontrava con il suo carattere. Con la gioia di vivere e il sentimento di morte che si portava dietro, Fabrizio finiva, infatti, per precludersi ogni felicità. Era ateo Fabrizio ma con un’enorme spiritualità: vedeva un’anima in tutto quello che c’era sotto i suoi occhi, in tutto ciò che toccava.
Come sosteneva Bacon l’ateismo è più sulle labbra che nel cuore dell’uomo
. Sognava un mondo magari più arcaico in cui l’uomo fosse spogliato delle pulsioni economiche; aveva un senso altissimo dell’amicizia, la sua curiosità per i luoghi e per le persone erano una delle tante forme d’amore di cui era capace.
Odiava solo l’inciviltà e aveva dubbi e paura soltanto di ciò che non capiva. Con il passare degli anni s’era abbassata la soglia della conflittualità, da quella con il naturale al rapporto con gli altri e questo aveva fatto calare anche l’intensità dei litigi e il numero dei belin
che usava come intercalare quando s’arrabbiava. Mentre aumentava il consenso attorno a sé aveva preferito isolarsi sempre consapevole che ognuno di noi si porta dietro tutto il suo vissuto e tutti i suoi morti
.
La sua scomparsa, come ha scritto Michele Serra, ha donato ancora qualcosa a molti. Ha aggiunto qualche soffio d’amicizia, di comprensione e di memoria alle nostre parole: E non ci ha solo inteneriti come sa fare la morte – ha scritto Serra – ci ha migliorati, come sa fare l’intelligenza
.
De André mancherà alla cultura italiana ma mancherà soprattutto a chi l’ha conosciuto sul piano umano perché sappiamo che tutto quello che abbiamo condiviso con lui è meno importante di quello che avremmo potuto fare e di quello che avrebbe potuto darci.
Capitolo I
Il camper e la barca a vela
Il camper avanzava con un’andatura regolare e Fabrizio De André pensava alla barca a vela lasciata nel porto di Lavagna. La notte precedente non aveva chiuso occhio e ora, nel primo pomeriggio, si trovava a dover partire da Orbetello per giungere a Montalto di Castro.
Un’estate di fuoco, quella del 1982: il 12 agosto aveva cantato allo stadio dei Pini di Viareggio, due giorni dopo avrebbe preso parte alla Festa dell’Unità di Montalto, il 15 doveva essere a Bormio; e poi tante altre date. La barca a vela avrebbe aspettato ancora un anno quando, spente sul palco le luci bianco-blu che riprendevano i colori del mare e quelle rosse, più adatte alle tante canzoni contro la guerra, Fabrizio avrebbe navigato davvero nel Mediterraneo.
Quel giorno, a peggiorare lo stato d’animo, oltre al pessimo risveglio causato da coloro che nella piscina dell’albergo sollevavano rumorose colonne d’acqua, era intervenuta la lettura dei giornali. Uno dei tanti generali di cui De André ha raccontato le gesta aveva pensato bene di distruggere con il fuoco la città di Sidone: È come se avessero bruciato mia madre
, disse Fabrizio che due anni dopo avrebbe cantato quella tragedia immaginando Sidone come un arabo di mezza età, sporco, disperato, sicuramente povero, con in braccio il proprio figlio macinato dai cingoli di un carro armato. Un grumo di sangue, orecchie e denti di latte
quando prima era stata l’unica ricchezza di sua madre. Insomma la fine civile e culturale di un piccolo Paese, il Libano, che nella sua discrezione era stato forse la maggiore nutrice della civiltà mediterranea.
Come tutti i giorni in cui doveva cantare, De André aveva fissato per le 17 la prima prova (chitarra e voce) e un paio d’ore dopo quella con tutto il gruppo. Era una serata dolcissima e pertanto non avrebbe potuto sperare nemmeno nella pioggia che avrebbe fatto slittare il concerto... Meno male che fai il giornalista
, mi disse, così nessuno stasera ti può gridare stronzo
. Mi venne da ridere. Lui che era la nostra coscienza irrequieta, che aveva coperto di poesia il malessere di tanti giovani, di che poteva avere paura?
Un giorno, Fernanda Pivano, scrittrice e ambasciatrice della cultura beat in Italia, amica di Ginsberg e dei poeti maledetti americani, mentre accompagnava Hemingway all’hotel Savoy di Nervi, ascoltò da un juke-box, La guerra di Piero
. Fu il suo impatto con il mondo di Fabrizio De André. Disse subito di essere rimasta incantata e di aver pensato: Questo è un poeta
.
Gli endecasillabi di quella canzone sarebbero poi finiti sulle antologie delle medie: Poveri ragazzi
, ironizzava Fabrizio, costretti a imparare a memoria i versi di un artigiano. Sino a diciotto anni tutti scrivono poesie; dopo lo fanno solo gli imbecilli e i poeti veri
. E riteneva, evidentemente a torto nel suo caso, che col passare degli anni si perdesse in sintesi a vantaggio della verbosità.
Il camper assecondava le curve della litoranea e Fabrizio spiegava quanto fosse faticosa una tournée. Non tanto per il fatto di dover cantare tutte le sere quanto per l’ineluttabile necessità di condurre una vita così sregolata; dovere aspettare l’inizio del concerto in mezzo alla polvere degli stadi, mangiare in un Autogrill, stare lontano dai propri interessi. Eppure il mare, dov’era nato, era tanto vicino e l’azienda agricola, che gli premeva quanto il concerto, era nelle ottime mani del fattore Filippo.
Il mare e la campagna, dove aveva vissuto buona parte dell’infanzia, erano due amori destinati a