Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

La peste: La concessione della primavera al tempo del covid
La peste: La concessione della primavera al tempo del covid
La peste: La concessione della primavera al tempo del covid
E-book313 pagine4 ore

La peste: La concessione della primavera al tempo del covid

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Con La peste, Pino Casamassima, torna a confrontarsi con la narrativa. Tra autobiografia e invenzione l�autore, giornalista e scrittore di lungo corso, ci racconta la storia di un anno segnato da una pandemia, che ha sconvolto le persone riducendole al loro passato. Di fronte a sirene ululanti, fra gli affetti strappati dalle case con gli stipiti delle porte segnati dalle unghie e quegli sguardi portati via e mai pi� rivisti, insegue la memoria di un�altra vita, di un amore maledetto, di una vendetta. Con una scrittura secca, emozionante, il lettore viene trascinato nel vortice di una vita spezzata, un omicidio, una colpa mai scontata.
Un romanzo che non si scorder� facilmente.

In appendice:
Appunti per un saggio su La peste di Albert Camus
LinguaItaliano
Data di uscita8 ott 2021
ISBN9791280075321
La peste: La concessione della primavera al tempo del covid

Leggi altro di Pino Casamassima

Correlato a La peste

Titoli di questa serie (10)

Visualizza altri

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su La peste

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    La peste - Pino Casamassima

    L’AUTORE

    PINO CASAMASSIMA

    Pino Casamassima è giornalista professionista, scrittore e autore teatrale. Ha pubblicato una quarantina di libri, alcuni dei quali tradotti all’estero, Cina compresa.

    Agli amici che non ci sono più.

    A quelli persi e ritrovati.

    A quelli di sempre.

    Alla memoria di Tonio.

    Per 68 anni, bello di futuro.

    E d’entusiasmo.

    La peste segnò per la città l’inizio della corruzione.

    Nessuno era più disposto a perseverare

    in quello che prima giudicava essere il bene,

    perché credeva che poteva forse morire

    prima di raggiungerlo.

    Tucidide, La guerra del Peloponneso, II, 53

    Vorrei essere nato mille anni fa

    vorrei aver navigato per mari oscuri

    su un grande veliero

    navigare da una terra all’altra

    in abito e cappello da marinaio

    via dalla grande città

    dove un uomo non può essere libero

    dai mali di questa città

    e da sé stesso

    e da quelli attorno a lui

    e credo di non sapere niente

    credo di non sapere proprio niente.

    Lou Reed, Heroin, 1967

    VENTIVENTI

    2020. Anno bisestile. E una pandemia che ti portava via (ma questo, sarebbe avvenuto dopo). L’anno nuovo, così pomposo, rotondo, quasi tronfio – Ventiventi! – s’era aperto con una breve dall’estero lanciata da più agenzie di stampa, ma che non aveva poi meritato più di poche righe sui quotidiani e nemmeno una menzione nei Tg. Per non parlare dei giornali radio dei tanti (troppi?) network, come sempre stitici di notizie e prodighi di facezie e sciocchezze. (Bisognava – e bisogna – pur lasciar spazio alle canzonette di questo e quello, di questa e quella etichetta, fra una réclame di assorbenti e una di detergenti).

    La notizia – notiziola –: l’improvvisa e improvvida chiusura del più grande mercato di animali vivi di tutta la Cina, quello di Wuhan. Un colpo al cuore per quasi dieci milioni di buongustai. Niente a che fare con le nostre fiere rurali delle memorie in bianco e nero. Per intenderci, quelle con le vacche e i maiali a pascolare per la piazza del paese, in faccia al duomo, col parroco che si prodigava fra consigli e conigli, ché poi, qualcosa avrebbe rimediato: una gallina, un pollo, magari un cinghialetto, mentre tutt’attorno starnazzavano oche e trotterellavano e pulcini, fra cani, gatti, cavalli, asini, da prendere e portarsi via (pure muli recalcitranti). Che poi, uno, cioè l’allevatore, il fattore, quegli animali se li portava via magari per allevarli, lavorarci assieme.

    Nulla di tutto questo a Wuhan.

    A Wuhan non succede niente di tutto questo.

    Là, le tradizioni sono assai diverse.

    Wuhan è un mercato di animali vivi – vivissimi – da consumarsi lì, sul posto. D’ogni specie; di terra, mare, cielo. Tu vuoi quella bestia lì, be’, a Wuhan la trovi; e te la mangi, senza tante storie.

    (Quando avevo letto la notizia – ché, per mestiere, la prima cosa che faccio ogni mattina appena assolte le necessità primarie, è quella di controllare le agenzie – era una mattina di fette biscottate e succo d’arancia, ma pure di vento e pioggia. Il caffè, mezza tazzina, al solito. E insomma, l’avevo letta, quella cosa lì, e m’era venuta in mente quella volta a Indianapolis. No, non il circuito della 500 Miglia, un magazzino enorme, grande cioè a perdita d’occhio, dove stoccavano di tutto, ma proprio tutto: un Amazon ante litteram. E se non trovavi quel che cercavi, da americani quali erano/sono, ti davano il corrispettivo in dollari, ché Here you will find everything!!!. Non so se esista ancora. Io, all’epoca, ci trovai un orologio per mancini, che regalai a un amico fotografo).

    Ecco, il mercato di Wuhuan è qualcosa del genere, con la differenza che là sono cinesi (con tutti i distinguo del caso). E vendono animali, cioè, solo animali. Nella maggior parte dei casi, come detto, da consumare lì, sul posto, dopo aver apprezzato i fianchi di un quadrupede meticcio, notato il bel collo grasso di un corvo, le movenze sinuose di un serpente. Non so se, come a Indianapolis, ti diano il corrispettivo in renminbi o in altra valuta se non trovi il caimano che quel giorno avresti ingoiato volentieri per pranzo, ma so che particolarmente ricercate, perché tradizionalmente assai apprezzate, sono le carni dei cani. Carni che hanno sempre imbandito le tavole cinesi, dalla dinastia Ming a quella di Xi Jiping, passando per Mao, in vari modi: arrosto, umido, lesse.

    Cani che, quando gli va bene, gli staccano la testa e via (testa da riporre subito in un’apposita cesta per i soliti raccomandati, a cominciare dal capo della polizia). Quando invece così bene non gli va, vengono arrostiti e/o bolliti vivi. Un addetto – armato di lungo bastone appuntito – provvede infatti a respingerne gli ostinati tentativi di sottrarsi all’usanza millenaria, cavandosi fuori dalla pignatta. Un colpo secco e vedi come il peloso cocciuto torna in ebollizione. (E non si ceda all’umidiccia convinzione tutta occidentale che si tratti di gratuita crudeltà, ché la sofferenza, per chi non lo sapesse, restituisce poi carni più croccanti).

    Ma chi se ne frega del mercato di Wuhan?

    In effetti, tutto l’Occidente o quasi non ne conosceva manco l’esistenza. Fatto è però che si sarebbe poi detto da più parti che era stato a causa di quel mercato, proprio quello, l’inizio della fine. I più informati – per meglio dire, quelli che si spacciavano per tali – avevano giurato che era stata tutta colpa dei pipistrelli (lì usati a fini gastronomici non cinematografici). Altri sostenevano che quella cosa lì era scappata da un laboratorio. Cosa, il pipistrello? Ma no! Quella nuova Peste, Coronavirus, Covid-19. Le chiacchiere aumentarono in fretta. E infatti, loro, le chiacchiere, trovano tanto più spazio quanto poche sono le parole. In buona sostanza, al momento, nessuno sapeva niente. E si dava credito al cicaleccio: una pacchia per i tuttologi. Da noi, da mammarai in giù, giù, fino alle tante telepannocchia, i palinsesti divennero tribune pestilenziali, nel senso che solo di quello si parlava, della Peste.

    A favorire questo stato confusionale, erano stati gli stessi cinesi che, tradizionalmente contenuti nella comunicazione, s’erano guardati bene dal rivelare come stessero le cose. Il sempre attivo commercio delle minchiate s’era così nutrito di teorie di vario genere e natura. E se le minchiate trovavano ampio spazio sui giornali, in televisione pascolavano come fossero a casa loro (come in effetti è). C’era pure chi, televisivamente parlando, le spacciava in fascia protetta fra una pubblicità e un’altra. I social? Per carità. Ci vorrebbe un libro (e in realtà non mancano). Sul portale cinese Weibo, la polizia di Wuhan aveva annunciato d’aver «intrapreso un’azione legale» (una cosa molto lieve, insomma) contro alcuni scriteriati che avevano «pubblicato e condiviso dicerie in rete, causando un effetto negativo sulla società». «Dicerie» che arrivavano però da medici, non da untori. Medici che avevano lanciato l’allarme e qualcuno era riuscito a sfondare la ragnatela della censura.

    E a me era venuto in mente una cosa. Cosa? Ecco qua.

    (La primavera si annuncia soltanto con la qualità dell’aria o con i cesti di fiori che i ragazzetti portano dai sobborghi; è una primavera che si vende nei mercati.)

    WUHAN

    L’allarme dell’Oms era infine arrivato, inquietante ma non inatteso: «quarantaquattro pazienti con polmonite di eziologia sconosciuta sono stati segnalati dalle autorità nazionali in Cina». Di quei casi segnalati – bontà loro – «dalle autorità nazionali di Cina», undici erano gravi. I restanti trentatré, «per il momento», godevano di condizioni stabili. Per il momento.

    Messi alle strette, i cinesi avevano ammesso quel che si sospettava. E cioè che avevano identificato un nuovo Coronavirus. Cioè, uno della famigerata famiglia degli Hendra, Zika, Nipah, Ebola, Lyme, Sars, Mers. (Covid-19 precisavano già gli scienziati). Trovato dove? In alcuni pazienti di Wuhan. Manco a dirlo. 

    (Intanto, in Egitto, era stato incarcerato un altro studente. Zaki. Un ragazzo egiziano che studiava a Bologna. Patrick Zaki. E il pensiero era corso subito a lui, a Giulio, ma della sua storia, della storiaccia di Giulio Regeni, si sarebbero presto perse le tracce, come pure di Zaki, ché la nuova Peste pretendeva tutto per sé. Come detto: parole, chiacchiere, minchiate et similia).

    Manco a dirlo, i laboratori di diversi Paesi s’erano messi subito di lena buona per produrre test diagnostici specifici (PCR precisavano già gli scienziati), utilizzando le sequenze genetiche del nuovo virus messe a disposizione tramite l’OMS. Da parte sua, il governo cinese tranquillizzava: «nessuna prova sicura che il virus si trasmetta da persona a persona».

    Bene, adesso siamo più tranquilli.

    Fatto è che nei giorni successivi, la Tailandia notificava il primo caso al di fuori della Cina: una donna arrivata da Wuhan.

    A grappolo, altri casi li denunciavano Giappone, Nepal, Australia, Malesia, Singapore, Corea del Sud, Vietnam, Taiwan, Tailandia e Corea del Sud. Ma pure la Francia, che sta lì, a due passi d’elefante, anche se però non era stata la terra dei Macron e dei Sarkozy a primeggiare negativamente in Europa. Era stata la Germania. Tutta colpa di uno di Shanghai. Uno arrivato in Baviera per visitare un’azienda. Le persone con cui era entrato in contatto erano state sottoposte a test, e la trasmissione del virus era stata confermata agli asintomatici ma anche a persone che non avevano avuto contatti diretti. Gli autori dello studio di quel primo caso in Europa avevano affermato che «Il fatto che le persone asintomatiche siano potenziali fonti di infezione potrebbe giustificare una rivalutazione della dinamica di trasmissione dell’epidemia in corso».

    Da noi in Italia? Beh, c’era stato prima un ignavo che aveva infettato i suoi genitori, poi a Roma erano stati scoperti un paio di appestati cinesi (mortacci sua, aveva sintetizzato un mio caro amico romano; un sociologo che quando vuole sa essere molto incisivo). Ma l’apoteosi, la pompa magna provirus s’era celebrata a San Siro. In una partita di calcio fra la bergamasca Atalanta e la spagnola Valencia, tutti sugli spalti, slogan vs slogan. Mr Covid si sarà commosso per tutte quelle belle coroncine andate in rete.

    «Ma quanto è grande, professore, quanto è grande un virus?». (Questa è una professionista dell’entertainment pomeridiano da sorriso Durbans).

    «Uno? Beh, tenga conto che…»

    «Facciamo così, professore, andiamo in pubblicità, così poi mi dice con calma.»

    E andiamo.

    Passata la buriana di balocchi e profumi, per non dire delle mutandine di contenimento e divertimento «perché la pubblicità in primis» (e ci mancherebbe), era riapparso il faccione del professore in collegamento esterno con un grandangolare impietoso. Professore pronto quindi a rivelare che…

    «Aspetti, aspetti… le faccio vedere questo servizio, così poi ci spiega meglio».

    Il servizio incombente? Una minchiata con immagini di repertorio.

    Tu ti dici, adesso lo lasciano parlare, il profe, e finalmente ci svela l’arcano, ché se non ce lo svela lui, chi sennò?

    (Eravamo agli inizi, alla nascita cioè dell’homo televisivus virologus/epidemiologus/infettivologus/microbiologicus. Poi, il mercato degli scienziati si sarebbe aperto, con tanto di agenti che ne avrebbero parcellizzato i minutaggi, che manco una rockstar).

    Seee.

    La parola viene infatti concessa prima a un opinionista, uno di quelli che tutto sa. Alla fine, quando ormai incombe il tg, seppur stremato dalle dinamiche televisive, ce l’aveva fatta, il professore. In poco più di una decina di secondi, cioè il tempo di una pubblicità per sdentati, era riuscito a rivelare che: «su una punta di spillo, di coroncine, se ne accomodano facilmente quindicimila».

    «Quindicimila, professore? Ho sentito bene?»

    «È quello che ho detto. Quindicimila.»

    «Ma è una cosa incredibile…»

    «Nient’affatto. Lei deve pensare che…»

    «Ma chi penserebbe mai che su una punta di spillo ci possano essere tutti quei cosi!»

    «Beh, stiamo parlando di…»

    «Senta professore, facciamo così, andiamo in pubblicità e facciamo in tempo a rientrare in studio prima del tg…»

    Mortacci sua (Ma questo era il mio amico sociologo).

    Passavano i giorni e la situazione si faceva seria.

    Assai proprio.

    Prima timidamente, poi velocemente, la preoccupazione correva di bocca in bocca, cioè di mascherina in mascherina. Ma pure sulle onde del telefono, delle chat. Dopo i primi ricoveri, i primi morti. E altri e altri ancora, in un rosario sempre più disperato. Fino ai camion.

    (I camion che si portavano via le persone. Non derrate alimentari o elettrodomestici, le persone. E dalla tv, fra una mela e un caffè di una cena finita, era arrivata quella macabra fila indiana. Cinque, sei, dieci, venti camion, con vite che non erano più. E a me cadde giù il cuore, fin nelle scarpe).

    Le strade deserte, le città morte. Le finestre sbarrate, a inumidirsi di dolore e sospiri. Le porte chiuse, l’irreale oltre le case, e ti ritrovavi a esercitare l’impervia arte dell’assenza di pensiero. Aiutava guardare fuori dalla finestra, e fissare un rivolo d’acqua che scorreva lungo un marciapiede, ma poi la stanza t’aspettava paziente con i suoi perché? D’improvviso c’eravamo ritrovati tutti - ma proprio tutti, dico - mendicanti del necessario. Nell’aria, un incantamento subdolo d’un tempo obnubilato. Scippato. I giorni che si susseguivano così, promettendo il nulla. Per terra, passi sospesi su coriandoli di un carnevale mai consumato, le maschere a impolverare pure nell’acqua alta di Venezia. L’ultimo babbonatale, quello dei nonni e i padri e gli zii travestiti di festa, era scivolato nel lavabo da quel dì, con i figli, i nipoti, rimasti così, il naso per aria, ad aspettare. Che? Un’immagine lontana seppur dietro l’angolo di qualche settimana.

    Che succede?

    E chi lo sa?

    Ora, fuori dalla finestra, una nuvola. Una nuvola grande. Occupa tutto il cielo. È così bassa che potrebbe finire su quella casa. Un bambino sfuggito alla mano di sua madre prende da terra un sasso e lo lancia, finché, glup, va a cadere in una poccia d’acqua davanti al supermercato. Nel mentre, una macchina passa incurante; i tergicristalli, tric-trac, fanno il loro mestiere.

    (Una delle conseguenze più notevoli della chiusura delle porte fu la subitanea separazione in cui si trovarono persone che non vi erano preparate…)

    I GIORNI IN TASCA

    Quando s’era capito, quando era arrivato forte e chiaro il messaggio della Peste, per difendersi, ognuno s’era calato nella propria – invisibile – identità, geloso dei propri giorni infilati nelle tasche. Era sceso nei ricordi passati, e dal forziere della memoria ne aveva recuperati diversi: scampoli di vita che ora andavano spesi con parsimonia. Una scorta da usare con oculatezza, in un futuro incerto, come proiezione per poter sognare ancora. Cosa? In buona sostanza, la vita. E insomma, era come cantava quello lì negli anni belli. I Settanta, orsù!

    Looking out at the road rushing under my wheels/ Looking back at the years gone by like so many summer fields./ In ‘65 I was seventeen and running up 101/ I don’t know where I’m running now, I’m just running on…

    Ma la memoria è spesso irriverente. Arriva quando vuole e nelle forme che vuole, e ti rovescia sul tavolo l’inatteso. Frammenti di passato, che è sempre un po’ aggiustato. Mica tanto, ma un po’, sì, dai. Ché non è mai, mai come ce lo rappresentiamo, il passato. Lo sistemiamo sempre per benino. Lo prendiamo, lo ripuliamo di questo e quello, lo lucidiamo, e alla fine viene una cosa proprio bellina, venuta bene, come il solitario della nonna quando le riusciva. La memoria, insomma, ci porta cose lontane o vicinissime, ma tutte impreviste e imprevedibili. «Scostumata», la memoria; come si diceva al tempo dei grembiulini neri coi fiocchi azzurri delle scuole elementari. E pure ingannevole, come sappiamo bene. Ma che ci vuoi fare.

    Bisognava rimboccarsi le maniche, ed essere pronti a fare a botte, con la Peste. Di nuovo. Nella consapevolezza che cercare di prendergli le misure era astrazione o, se preferite, calcolo, che è pure peggio. Avevamo a che fare con un maledetto. Un virus che c’aveva scovati nudi agli angoli degli iPad e delle tv. E c’eravamo ritrovati sguarniti davanti all’ignoto. Di nuovo. Ma non sapevamo tutto, o quasi? Invece c’eravamo scoperti armati solo d’inutilità. Con il doloroso risveglio su un’unica certezza: che quel tutto, quell’insieme accatastato nell’ampio ripostiglio del Novecento e della sua protesi ventennale, non era abbastanza. E ci voleva altro spazio in questo nuovo secolo, ma che dico!, questo nuovo millennio. Ma il nuovo tutto era forse una parodia di ciò che avevamo sognato. Cosa? Ma il futuro, cosa sennò? Che invece - verrebbe da dire per dispetto - s’era presentato senza tante moine con forme diverse da come ce l’eravamo ritagliate. Non migliori o peggiori. Diverse. E questo, questo futuro da secondo decennio di quel braccio lungo del Novecento, era ora segnato da un virus, Coronavirus, Covid-19, Pandemia. Peste. Un tattoo sulla pelle del pianeta, a futura memoria per gli storici e chi vuole avercela, una memoria.

    Aveva attaccato all’improvviso, la Peste.

    (Ché bisogna pur sceglierlo un nome, alla fine. Battezzarlo, quel coso lì, e usare sempre quello, di nome, sennò ci si confonde. Il nominalismo è una cosa seria, non da quaquaraqua. Ne scegli uno, di nome, e che sia sempre quello, suvvia!).

    Nel suo incedere senza barriere, la Peste, aveva disatteso tutte le regole dell’etica della guerra, da quella di Troia a quella del Peloponneso, fino al Vietnam. Un’azione terroristica. Figlio di puttana! Da Twin Towers. Da Modern Times; e scegliete voi fra Charlie Chaplin e Bob Dylan. Un maledetto, bastardo velenoso parassita, inaccettabile perché... perché…Perché: e lo devo dire io, perché? Io so solo che compare ciclicamente per risistemare le cose. Si presenta ora così, ora cosà. Ora cammina sui sandali dei soldati di Alcibiade, ora sui vascelli dei conquistadores, ora sui Boeing 808.

    (Madri, figli, sposi, amanti che avevano creduto, alcuni giorni prima, di procedere a una temporanea separazione, che si erano abbracciati sulla banchina della nostra stazione con due o tre raccomandazioni, sicuri di rivedersi pochi giorni o poche settimane dopo, affondati nella stupida fiducia umana, appena distratti, per quella partenza, dalle loro abituali preoccupazioni, si videro di colpo allontanati senza rimedio, impediti di raggiungersi o di comunicare.)

    MAGGIO 1981

    Non c’è pace per questa parte del bresciano che volge verso il Lago di Garda sotto lo sguardo della Valsabbia. Dopo il ritrovamento sulla Rocca di Manerba del cadavere di una giovane donna morta in seguito a una overdose d’eroina (vedi Bresciaoggi del 4 maggio u.s) e che tanto scalpore ha suscitato nella cittadina di Salò dove la sua famiglia è assai nota, nella boscaglia valsabbina di Degagna, domenica scorsa è stato rinvenuto quello di Gerardo Savoldi, 32 anni, meccanico di Vobarno noto alle forze dell’ordine per reati comuni contro la proprietà, per lo sfruttamento della prostituzione e lo spaccio di sostanze stupefacenti. Il cadavere presentava già segni di aggressione da parte di qualche animale per i giorni rimasto nel bosco. In attesa della perizia necroscopia disposta dal dott. Trocino, titolare dell’indagine avviata per omicidio, il Savoldi sarebbe stato strangolato con un filo elettrico lasciatogli per altro attorno al collo. Il meccanico vobarnese era stato visto l’ultima volta nella serata dello scorso mercoledì 6 maggio, quando, dopo aver assistito in un bar di Salò alla finale di coppa Uefa, s’era allontanato col suo motorino. Le indagini condotte dal maresciallo Frangipane della stazione dei carabinieri di Gavardo, hanno appurato che il Savoldi aveva lasciato il bar dopo la mezzanotte. Da quel momento, di lui s’erano perse le tracce. L’allarme è scattato quando sua sorella, che abita a Gavardo, dove svolge l’attività di inserviente nel locale Ospedale, dopo averlo cercato per due giorni di seguito e trovando l’abitazione del Savoldi deserta, con il suo motorino parcheggiato nell’atrio prospiciente il condominio in località Collio, aveva sporto denuncia per scomparsa presso la stazione dei Carabinieri di Gavardo. Il Savoldi viveva da solo. Nessun legame affettivo, stando alle dichiarazioni di sua sorella. La relazione più lunga pare quella avuta per un anno con una giovane donna di Lonato che lavorava come cameriera in una nota pizzeria di Manerba. Relazione interrotta dalla donna dopo l’ennesima lite presso la sua abitazione in località Barcuzzi, finita con un’aggressione che aveva provocato alla donna alcune escoriazioni ed ematomi, come risulta da una medicazione presso l’Ospedale di Desenzano cui era seguita una denuncia. Le indagini s’erano attivate senza tuttavia alcun riscontro, finché il cadavere del meccanico è stato rinvenuto nel bosco di Degagna dal signor Filippini, titolare di un noto negozio di fiori di Vobarno, e sua moglie Iones, che vi stavano effettuando una passeggiata col loro cane, come consuetudine nelle belle giornate domenicali. Pare sia stato proprio il piccolo meticcio della coppia a fare la macabra scoperta. Per la signora Iones sono state necessarie alcune cure mediche perché, sentitasi male a quella vista, era stata accompagnata dal marito al pronto soccorso di Gavardo. Al momento, nessuna ipotesi può essere formulata sulle cause di quella che appare come una vera e propria esecuzione, anche se l’ipotesi più accreditata, anche da parte delle forze dell’ordine, è che si tratti di un omicidio legato allo spaccio delle droghe pesanti. Un commercio di morte che si sta facendo sempre più consistente e allarmante fra la Valsabbia e le rive del Garda fra Salò e Desenzano.

    (da Bresciaoggi di martedì 12 maggio 1981 a sigla s.b.)

    COME ENOLA GAY

    «Papà non c’è più.»

    Un messaggino. Cioè, una crudeltà. Di prima mattina, fra doccia, caffè e tg. È successo a Milano, ma pure a Bergamo, Vo’, Salò.

    Papà non c’è più.

    A me arrivò appena acceso il Samung. Saranno state le otto. «Papà non c’è più». Cioè, quel mio amico non c’era più. Me lo diceva con quattordici caratteri, suo figlio. Cercai di versare almeno una lacrima, ma non ci fu verso. L’estetica del dolore non ne voleva sapere di uscire da dove era andata a rifugiarsi. E quelle parole – Papà non c’è più – m’erano roteate in testa per tutte le ore a seguire; fino alla notte.

    (Un dolore non si racconta.)

    E succede di pensare cose sensate. Cioè? Cioè che non moriamo perché ci ammaliamo, ma che ci ammaliamo per morire. Dobbiamo far posto. Le spalle di Geo, quelle sono. Vabbé, una panacea. Cos’altro, sennò? È

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1