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La Madonna della luce: Svetlaja Bogorodiza
La Madonna della luce: Svetlaja Bogorodiza
La Madonna della luce: Svetlaja Bogorodiza
E-book274 pagine2 ore

La Madonna della luce: Svetlaja Bogorodiza

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Info su questo ebook

“Due famiglie, di pari dignità…” Inizia così, in omaggio a Shakespeare, il Cap.XI – Parte I del romanzo di cui sono protagoniste due famiglie che si odiano e si attraggono, e i cui destini sono intrecciati dalla “Madonna della Luce”, un’icona russa di inestimabile valore, ma soprattutto un’immagine di abbagliante e ambigua bellezza. Il tutto sullo sfondo della Storia, i cui tragici eventi, dal 1917 al 2015, coinvolgono i personaggi cambiandone la sorte, oppure li sfiorano soltanto, cambiandone il pensiero…
LinguaItaliano
Data di uscita16 mar 2017
ISBN9788893780346
La Madonna della luce: Svetlaja Bogorodiza

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    Anteprima del libro

    La Madonna della luce - Laura Giorgi

    compagni

    Prima parte

    I. La Madonna della Luce

    Nessun giorno è mai come un altro.

    Quanto male ci fanno i luoghi comuni, mentre siamo colpiti a tradimento dalla verità.

    Quanta luce ci viene da dentro, ma la confondiamo e la barattiamo con quella di fuori, degli occhi traditori di una donna, dell’ingannevole bagliore dei fanali, del luccichio di una cornice.

    Eppure quel tredici di novembre nella ville lumiére sembrava un giorno come un altro; era un autunno mite e tiepido, le automobili sfrecciavano nelle allées, i passanti si avviavano frettolosi verso le loro mete e una folla di giovani si stava già ammassando all'ingresso del teatro.

    Il viale esisteva già sotto Napoleone III, solo che all'epoca era dedicato al Principe Eugenio; prese nel 1870 l'attuale nome da quel grande filosofo dei lumi prima perseguitato, poi acclamato, ucciso forse da un cancro alla prostata oggi curabilissimo, e che ebbe l'ardire di rinnegare Cristo sul letto di morte.

    In una elegante palazzina, lungo il viale fiancheggiato da alberi, abitavano gli Orlov sin dagli anni '30; Svetlana Orlova non aveva che da fare un centinaio di metri a piedi per raggiungere il luogo dove avrebbe festeggiato il suo compleanno con l'amica del cuore, Alizée, cui aveva dato appuntamento davanti all'ingresso.

    Il Bataclan, storico locale per concerti datato 1854, era stato di recente ristrutturato e riportato ai colori originali della facciata. Svetlana e Alizée, che avevano già i biglietti, passarono eccitate saltando la fila.

    Più o meno quando gli Eagles Death Metal avevano iniziato a suonare, di fronte ai millecinquecento spettatori, praticamente al tutto esaurito, nell'XI arrondissement il sonno della ragione, o il fuoco devastante dei lumi impazziti, aveva già prodotto una quarantina di morti. Dopo, gli assassini entrarono al Bataclan indisturbati, dall'ingresso laterale, cominciando subito a sparare raffiche di mitra sugli ignari spettatori.

    I musicisti non si resero subito conto di quello che stava accadendo e continuarono a suonare per un po', come l'orchestrina sul Titanic; poi compresero e si defilarono dal palco attraverso l'uscita degli artisti.

    Mentre il suo cuore si fermava per un attimo, uno solo, Svetlana vide una luce che cadeva dall'alto e poteva essere un faro impazzito, abbandonato da un tecnico delle luci trapassato dai proiettili, o forse il bagliore di una raffica, o qualcosa di infinitamente celestiale e immensamente impensabile, in quel luogo e in quel momento; a ogni modo, senza esitare, prese la mano della sua amica che urlava disperata e seguì la luce, attraverso sedie rovesciate, tavoli usati come scudi e ridotti a colabrodo, corpi che si contorcevano nel brivido nervoso della morte, odore di sangue e polvere da sparo, trascinando Alizée, che continuava a urlare, fino a una porta che dava sulla salvezza.

    ***

    È molto triste tornare a casa, nella propria casa vuota e fredda, bere una birra e accendere la televisione per convincersi che il mondo fuori fa molto, molto più schifo di quello dentro; c'è amarezza dal retrogusto sadomaso nell'invidiare le disgrazie altrui, di persone che almeno fino a un minuto prima di morire erano state vive. Ma quanto successo quel giorno era davvero troppo. Il dottor Savona si lasciò andare ammutolito sul divano e posò la lattina ai suoi piedi, guardando sullo schermo il via vai delle ambulanze nelle strade parigine e ascoltando le accorate cronache dei giornalisti e le devastanti interviste con i giovani sopravvissuti. Parigi, la città simbolo della libertà, dell'integrazione, dell'illuminismo! Per un istante di fronte alle telecamere passò anche Svetlana Orlova, senza nemmeno un graffio, con l'amica sottobraccio che pareva un cencio, e disse qualcosa che gli sfuggì, anzi non la notò proprio, e del resto non si conoscevano.

    Il dottor Pietro Savona aveva quarantacinque anni, metà dei quali spesi sui libri, sognando di volare alto, e l'altra metà in caduta libera, inseguendo un rimpianto. Viveva solo in un piccolo appartamento nel centro storico di un paese toscano, famoso per aver dato i natali a un artista amico del Magnifico; dopo la laurea a Pisa, aveva affittato ad altri studenti il proprio appartamento e si era trasferito, rispondendo all'annuncio di un anziano veterinario prossimo alla pensione, solo e senza famiglia come lui, che cercava un assistente. Sì, certo, una famiglia lui l'aveva, un paio di genitori non si negano a nessuno, ma il solco scavato era profondo almeno quanto quello che fece bisticciare Romolo e Remo: là finì nel sangue, qua era finita con la rottura.

    Il paese, tranquillo e discreto, gli era piaciuto e l'aveva eletto a propria dimora. L'unico cruccio era non aver trovato un appartamento vicino all'ambulatorio, giù nella zona nuova; invano era stato in trattativa con una megera che teneva due locali sfitti per l'improbabile matrimonio di un nipote, che aveva intenzione di accasarsi quanto lui. Infine però aveva apprezzato il suo tenero nido tra le mura antiche e la vista mozzafiato, dalla sua piccola terrazza, sulla valle dell'Orcia lo ripagava di tutto. Il dottor Pietro Savona non aveva amici, anche se tutti lo salutavano con simpatia, quando passava a piedi per raggiungere l'ambulatorio, con qualsiasi tempo; molti cani e gatti del paese erano passati per le sue mani, aveva salvato casi disperati, curato i veltri dei cinghialai da ferite devastanti, ultimamente gli erano capitati anche conigli, i cosiddetti nuovi animali da affezione. Aveva aiutato a piazzare molti cuccioli orfani o abbandonati in famiglie accoglienti ed era disponibile in qualsiasi giorno, a qualsiasi ora. Ma nonostante questo la sua gli sembrava la più inutile e insensata delle vite.

    Davanti al televisore, terminò la sua birra scuotendo la testa, pensando a quanti pazzi si agitano per niente, andando in giro a seminare morte quando basta aspettare in pace che quella arrivi da sola. Poi andò nel cucinino e mise a scaldare il minestrone preparato dalla fedele Bibiana, santa donna di casa che gli era rimasta in eredità dal suo predecessore. Dette un'occhiata al terrazzo, ma fuori era buio pesto, si vedevano solo le luci delle case sparse nella vallata e i lampioni nebulosi del paese. I lumi.

    ***

    La mattina dopo, di buon'ora come sempre, dopo la doccia e il caffè scese per le scale ripide del vecchio palazzo e bussò a Bibiana, che abitava al piano terra, per lasciarle le chiavi in modo che potesse rassettare e preparare qualcosa per cena, ché lui a pranzo non rientrava mai.

    – Ha visto, dottore, che macello! – lo abbordò subito l'anziana donna, sul pianerottolo. – Tutti quei morti.. quei ragazzi... ma cosa c'hanno nella testa quei negri lì? Ma cosa c'entra questo con la religione?

    – Niente, suppongo. Ora scendendo prendo il quotidiano, stasera glielo porto. – tagliò corto lui, chiudendosi il portone alle spalle.

    Si fermò all'edicola, acquistò uno dei giornali che fuori titolavano sulle civette i numeri della strage e continuò a camminare in direzione dell'ambulatorio. Aprì la saracinesca, accese il riscaldamento perché faceva un po' freddo, indossò il camice e si apprestò, in attesa dei pazienti a quattro zampe, a sfogliare il giornale.

    Foto e numeri da tregenda campeggiavano nelle pagine sull'attentato, che occupavano quasi metà del quotidiano, seguiti dalle dichiarazioni di fuoco di politici e opinionisti. C'erano anche brevi interviste che i cronisti avevano strappato ad alcuni sopravvissuti al massacro del teatro; cominciò a leggere quasi senza volere, rabbrividendo ai racconti, fino a che non arrivò al trafiletto che avrebbe cambiato la sua vita.

    Mi chiamo Svetlana Orlova... sì, vivo a Parigi... sì, ero là dentro con la mia amica... all'improvviso hanno cominciato a sparare da tutte le parti, era un inferno... sì, stiamo bene... non so come ne siamo uscite o... meglio, lo so: è una luce che ci ha guidate verso l'uscita. È la Madonna della Luce. Mi protegge sempre, protegge la mia famiglia da generazioni.

    Il dottor Savona fu avvolto da un curioso brivido caldo che gli fece sentire a uno a uno i capelli drizzarsi sulla testa. Sudava e non udiva, per la prima volta da quando esercitava la professione, il trillo del telefono.

    Chiuse il giornale e rimase fermo a fissare fuori, dalla porta a vetri, vedendo sfilare i fantasmi del suo passato, mentre il telefono smetteva di trillare e forse qualche cane o gatto stava andando a gambe all'aria, proprio come la sua esistenza.

    II. Mosca, 1917

    La prima cosa che Alexander Ilič Orlov vide, lasciando con la slitta la strada principale e indirizzando il cavallo verso il viottolo che portava alla radura dove si trovava la sua dacia, furono le tracce fresche di zoccoli nella neve, come se un drappello a cavallo fosse passato poco prima di lui.

    La seconda cosa furono le impronte di piedi che uscivano dalla porta aperta e affondando nella neve si dileguavano dietro la casa di legno; la terza, dopo che fu sceso dalla slitta ed ebbe seguito a piedi le orme, fu la lunga striscia di sangue che imbrattava curiosamente il bianco, irregolare, vivida e quasi viva, come una lunga esse che arrivava fino al bosco.

    Alexander seguì correndo la scia, senza riuscire a gridare; da quanto capì, dopo aver ammucchiato i corpi avevano cercato di dar loro fuoco, ma la legna bagnata non aveva permesso quell'ultimo scempio; prima, si erano dati da fare con i fucili e le baionette.

    Dopo aver rivoltato i corpi e cercato, Alexander tornò correndo sui suoi passi e dalla porta spalancata vide la devastazione che era stata compiuta nella dacia; girò per le stanze, si erano portati via tutto, ma forse avevano dimenticato qualcosa.

    Col cuore impazzito, Alexander spostò il letto e aprì la botola di legno del pavimento. Lena Andreevna stava rannicchiata come un topo nello spazio angusto; si rintanò, se possibile, ancora più in fondo, poi sbarrò su di lui gli occhi pieni di terrore e infine sospirò di sollievo. Cingeva con un braccio la neonata addormentata e sotto l'altro stringeva l'icona d'argento.

    Oh, barin – disse tremando – grazie al Cielo!

    Alexander prese la bambina, l'adagiò sul letto e aiutò Lena a uscire dal pertugio. La niania gli mostrò l'icona, dicendo:

    Svetlaia Bogorodiza. È stata lei a salvarci. Lei ci ha protette.

    Chi erano, Lena? Quanti erano?

    Non lo so, barin. Non ho visto, il signor Ilia mi ha fatto nascondere qui con la bambina, anche se diceva che volevano solo le provviste…

    Vieni con me, ora. Dobbiamo far presto. Potrebbero tornare. Loro, o altri.

    ***

    All'inizio del 1917, Mosca era stretta nella morsa di uno degli inverni più rigidi della storia e messa in ginocchio da anni di guerra; solo la nobiltà viveva ancora cullandosi nell’illusione che tutto fosse, o sarebbe tornato, normale. Qualcuno pensava di essersi liberato dal Male che opprimeva l’impero annegando il monaco di corte, dopo averlo avvelenato, bastonato e crivellato di colpi, ai quali a quanto pare l’inossidabile Griša aveva opposto una resistenza del tutto diabolica.

    Una sera di gennaio, uscendo da teatro dopo aver assistito a un’opera lirica, Alexander e il suo amico Vladimir Lenskj, assieme agli altri spettatori ignari ed eleganti nelle loro pellicce, erano stati aggrediti da un gruppo di giovani esagitati che, al grido di Vergognatevi! Dateci pane! Morte allo Zar! avevano lanciato alcune pietre. Subito era intervenuta la polizia a cavallo, disperdendoli.

    Dio mio, Lenskj, cosa sta succedendo a questo Paese? – chiese Alexander sconvolto.

    L’avete sentito voi stesso, amico. Chiedono pane.

    Non solo. Chiedono riforme, giustizia. La nostra classe sociale continua a vivere come gli struzzi, con la testa sotto la sabbia.

    I bolscevichi vi spaventano? Se chiedono riforme, basterà dargliele.

    Chiedono anche la fine di questa maledetta guerra! Questo è uno degli inverni più freddi che io ricordi, i nostri soldati sono allo stremo, e il fatto che lo Zar abbia preso il comando delle operazioni non è così rassicurante.

    Lenskj lo guardò.

    Parlate come un sovversivo, e se vi ascolto divento vostro complice.

    La verità, amico mio, è che il nostro bel mondo ci sta cadendo addosso! Meno male che Kira non è qui, si sarebbe spaventata a morte! – sospirò Alexander.

    Già, perché vostra moglie non è venuta? Non si è ancora ripresa?

    Il parto l’ha assai provata. Le è dispiaciuto, perché Mazeppa è la sua opera

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