A spasso con Armstrong
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Tra casa Tamagnone, la Taverna (un Hot Club clandestino torinese gestito dall’anziano Professore e dal siculo Aristide), e la fabbrica tessile Sordero (capitanata dalla spietata Agata), “A spasso con Armstrong”, ispirandosi a fatti realmente accaduti, restituisce al lettore, con una buona dose di ironia e poesia, un romanzo su come si diventa grandi scoprendo cosa ci rende felici.
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Anteprima del libro
A spasso con Armstrong - Vincenzo Zoda
Il rumore della felicità
Prefazione di Paolo Fresu
Chichin è un giovane ragazzo che comunica con il mondo attraverso il silenzio, scoprendo il suono della vita grazie al jazz. Personaggio di fantasia, ci porta per mano dentro questo racconto avvincente ambientato tra le due guerre.
Sono gli anni della propaganda fascista e del proibizionismo in cui la musica afro-americana è bandita dal regime, seppure molti gerarchi la apprezzino e la ascoltino in privato.
È la scoperta di un 78 giri a regalargli una speranza e a farlo incontrare con Luigi Fortebraccio, al secolo Louis Armstrong.
Il musicista di New Orleans si esibisce al Teatro Chiarella nella buona e vecchia Torino
per poi fare notte a Chieri in uno dei primi jazz club italiani: la Taverna Sordero (trasfigurazione della reale Taverna Sobrero), diventata il teatro di vita di Chichin che, grazie al fascino del trombettista, scopre il senso della musica come via per la libertà.
Vincenzo Zoda e Roberta Tiberia compongono un affresco della poliedrica società di quegli anni. Nella città che trasmette i primi programmi radiofonici e che, grazie al veto fascista, trova la via di un jazz all’italiana giustificando così uno stile definito barbaro e primitivo.
Ancora una volta le passioni si uniscono alle emozioni laddove i sogni percepiscono e catturano il rumore della felicità: il suono che fa una tromba (ascoltata in penombra oppure rubata a un appassionato dilettante durante la veglia per il suo funerale, o che semplicemente schizza fuori da un disco). E quel suono diventa oggetto del desiderio oltre che passione e scoperta, portando Chichin fino a Satchmo che, con il suo viso sorridente, riempie la copertina di un disco da far ascoltare a una ragazza per farla innamorare.
A spasso con Armstrong è un romanzo poetico, avvolgente e vero.
La fotografia della società dell’epoca a ripercorrere gli albori di una musica che viaggia tra l’Italia del Novecento e arriva fino a noi, senza invecchiare mai.
Romanzo
a Dirce,
perché questa storia le apparterrà per sempre, ovunque si trovi.
1
Le Alpi erano un muro di sasso verso nord, una parete affrescata di bianco per molti mesi all’anno. Sulle propaggini a sud, come una zecca sulla schiena di un mulo, Chieri.
L’inverno del 1934 era cominciato rigido e indiavolato. Era meriggio e i viandanti con i loro carretti pieni di stoffa lavorata andavano dalle case alle fabbriche e correvano per fare presto. Chichin invece tornava da scuola e, dalla parte opposta, correva per salvarsi la pelle.
Francesco Tamagnone detto Chichin, undici anni, smilzo e spettinato con calzoni troppo corti di cotone blu che sfioravano ginocchia sbucciate da giochi arditi. Accelerava sempre di più, tanto che il cuore sembrava sul punto di guizzargli fuori da un momento all’altro. Aveva la fronte bagnata dal sudore freschissimo e le scarpe impolverate dalla strada, che percuoteva con passi istantanei come un battere di ciglia.
Chichin non parlava. Le parole gli sembravano bugie troppo grandi. Una farfalla poteva anche chiamarsi forchetta e questo non le avrebbe impedito di volare, pensava e correva sopra tutto, calpestando la confusione del mondo che sentiva esplodere dentro come lava nel suo vulcano-petto. Aveva una paura fottuta di consumarsi il fiato. Provò a trattenerlo e la testa gli si gonfiò come un mappamondo che riproduceva il solo emisfero del caos, dove fluttuavano alghe di fango azzurro e pesci primordiali con le tempie rigonfie. Pensò a quante parole aveva sprecato quel giorno. Solo una, per dire buongiorno alla Sara che neanche gli aveva risposto. Sara, la sua ragazza, anche se lei ancora non lo sapeva. A quel punto di parole gliene restavano novemilaottocentotrentuno per quell’anno che stava per finire; se le avesse sprecate tutte prima del tempo, sarebbe morto. Gliel’aveva detto Don Pepè, davanti alla salma del povero Antonio, mortammazzato.
«Perché è morto, Don Pepè? Era giovane!».
«Perché parlava troppo», gli aveva risposto il parroco, fulminandolo con lo sguardo. Così il ragazzo aveva iniziato a contare le parole che pronunciavano i vivi. Aveva preso come campione il rigattiere, che di anni ne aveva ottantadue, e il maniscalco che ne contava solo tre in meno. Erano i più anziani del paese e così li aveva seguiti, spiandone i movimenti in strada, origliando dietro porte e stando acquattato negli angoli più reconditi. Se erano arrivati a quell’età, di parole davvero poche dovevano averne sprecate. In media, tra i due, ne contò sessantaquattro al giorno. Loro parlavano poco e solo se direttamente interpellati: non sciupavano insomma nessuna parola; per di più, quelle che adoperavano avevano un significato univoco ed erano dirette, precise. Nessun ciarlare superfluo. Si convinse presto che era quello il segreto della longevità e quindi decise di pronunciarne al massimo sessantaquattro al giorno, ventitremilatrecentosessanta all’anno. Per stare sicuri, pensò poi, sarebbe stato meglio tenersi ancora più stretti. Insomma, se fosse stato zitto il più a lungo possibile si sarebbe forse guadagnato l’immortalità. C’erano però da considerare i suoi tunc, quei suoni nervosi che gli uscivano dalla bocca senza che potesse farci niente. Ma erano parole quelli? Forse il Signore misericordioso non li avrebbe considerati tali, visto che di tunc ne sprecava tanti contro la sua volontà, specialmente quando il mondo tutt’intorno si faceva confuso e lui diventava triste e arrabbiato. Oppure al contrario, quando era troppo felice. Nel dubbio era meglio andarci cauti, poiché se i tunc il Signore li avesse tenuti in conto, sarebbero stati cavoli amari.
L’anno volgeva quasi al termine e novemilaottocentotrentuno parole rimanenti erano un bel numero. Con parsimonia ne aveva risparmiate più del necessario, per paura di crepare.
«Chichin an’tè d’vaj parej d’cursa?», gli urlò la S’gnura Vigliotti continuando a filare ritmicamente senza guardarsi le mani. Pareva che suonasse con uno strano strumento una musica che conosceva a memoria.
Lo scapestrato non si voltò neppure per salutarla, nessun gesto, nessun cenno del capo. Doveva far presto lui per salvarsi la pelle, perché Giraudo Agostino, il figlio del Segretario dei Fasci di Combattimento di Chieri, lo voleva pestare a sangue da quella volta che aveva riso per un suo capitombolo. Lo voleva morto, l’aveva giurato, e così ogni giorno gli toccava darsela a gambe non appena suonava la campanella.
Correva Chichin, sulla strada, al disopra del mondo. E mentre correva si teneva la tasca che custodiva il tesoro per Sara: un anello bello e grande con un occhio di tigre. La S’gnura non si sarebbe mai accorta della sua assenza; ne aveva tanti perché glieli regalavano gli uomini. E lei gli anelli se li prendeva, però non sposava nessuno. Uno in meno, cosa avrebbe contato?
Pensava al giorno in cui avrebbe infilato l’anello al dito di Sara. E si sentì in un mare di nuvole fluttuanti, con le braccia aperte, come vele spiegate.
Ma la Sara era più grande di lui e i seni già le fiorivano sotto lo scialle. A vederli gli si strozzava il respiro, ma sapeva che per conquistare il suo cuore avrebbe dovuto presto imparare a fumare. Infatti, si era accorto un pomeriggio sbirciando dalla finestra che dava sul cortile, che la Sara se ne stava a rosicchiarsi le unghie e a mangiarsi con gli occhi Ricciardi Alberto. Il ragazzo, sotto un’audace scriminatura che gli separava come un colpo di mannaia la chioma unta di brillantina, fumava spavaldo, esibendo stratosferici anelli in direzione della fanciulla. Chichin, rosso di rabbia, si era convinto che a quello sbruffone poco importasse di fumare e che tutto quel teatrino era stato messo in piedi col solo intento di far colpo sulla sua futura moglie. Perché lo sapeva che alla Sara quelli con la sigaretta in bocca piacevano molto.
La mente di Chichin somigliava a una stanza fredda con le pareti rivestite di nebbia densa e grigia ferraglia dalle strane forme: una fortezza che nessuno poteva espugnare. Certe volte però, inaspettatamente, qualcosa riusciva a penetrarvi come una scia luminosa. Succedeva, ad esempio, quando vedeva il sorriso della Sara. Code di lucciole comparivano e trasformavano quella stanza in una notte stellata. Per Chichin le cose belle erano blu, come le iridi della Sara e se l’avesse sposata, sarebbe diventato anche lui tutto blu, per sempre.
«Una lila le clavatte», ripeteva l’ambulante cinese con la valigetta appesa al collo.
Gli schizzò davanti come una saetta.
Per quando le darò l’anello, mi servirà una bella cravatta
, pensò, mentre le gambe iniziavano a tremargli dalla stanchezza.
«Dove sta quello sciagurato di mio figlio?», gli urlò contro il ciabattino sull’uscio di bottega, ma il frenetico corridore alzò le spalle perché doveva andare, macinare strada per mettersi al sicuro.
Intravide il vicolo di casa e si sentì salvo. Svoltato l’angolo, appoggiò la schiena al muro scrostato e si lasciò scivolare per concedersi un attimo di riposo. Poi tirò fuori l’anello dalla tasca e lo osservò a lungo. L’ansia lo divorava e almeno quattro o cinque volte al giorno ripeteva il gesto, ma anche stavolta l’occhio di tigre era intatto.
Devo trovare il momento giusto per darglielo. Il prima possibile
.
2
All’ingresso di casa Tamagnone, il corsetto navigato della S’gnura Teresa ondeggiava spavaldo tra gli aliti caldi della stufa, esibendo vistosi buchi sulla stoffa, lasciti di qualche amante in preda ai morsi della fame. I lacci abituati a stringere il prosperoso petto, lasciati ora liberi di muoversi, parevano le braccia di un galeotto appena liberato dalle catene. Le parti vuote della stoffa scura, che avevano avviluppato le cosce, ne mantenevano ancora la forma, ostentando la sensualità brutale dell’ospite. S’gnura Teresa adorava essere amata di un amore carnale. Lo spazio vuoto tra le gambe le conferiva una sorta di opprimente solitudine che tentava di scacciare nell’unico modo possibile: ospitando. S’gnura era una specie di casa umida aperta a tutti. Aveva la pelle morbida come argilla e dello stesso colore dell’ebano. Occhi grandi e scuri come il buio. Di indole rissosa e inopportuna, viveva il suo tempo con passione agitata e pareva non esserci niente al mondo che potesse sconfiggerla; qualunque cosa fosse accaduta, lei sapeva come cavarsela, lo sapevano tutti… Era una rondinella. Una di quelle donne che frequentavano gli appartamenti degli amanti ma, a differenza della maggioranza delle rondinelle, lei non voleva farsi sposare. Non le interessava. Gli uomini, si ripeteva, l’unica cosa che possono darti è riempirti le gambe per mezz’ora.
A far compagnia allo sfrontato corsetto, assaporando i tepori della stufa, giacevano anche i lembi discreti