L'infamia originaria: Facciamola finita col cuore e la politica
Di Lea Melandri
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Info su questo ebook
Lea Melandri
Teorica femminista, insignita dell’Ambrogino d’oro dal Comune di Milano nel 2012. Dal 1971 al 1978 redige insieme a Elvio Fachinelli, la rivista “L’Erba Voglio”. Attualmente collabora con: Alfabeta, Internazionale. It, Corriere della sera, www.universitadelledonne. it Tra le sue pubblicazioni: Come nasce il sogno d’amore (1988); Le passioni del corpo (2001); M.Fraire, R. Rossanda, La perdita, (L. Melandri a cura di, 2008); Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà, (2011); Alfabeto d’origine, (2017). Per i nostri tipi ha pubblicato: Lapis.Sezione aurea di una rivista, (1998). L’infamia originaria è alla terza edizione.
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Anteprima del libro
L'infamia originaria - Lea Melandri
Esplorazioni
Parola di Donna
Lea Melandri
L’infamia originaria
Facciamola finita col cuore e la politica
Nuova Edizione
Prefazione di
Angela Azzaro
© 1997 manifestolibri
© 2007 manifestolibri
© La Talpa srl-manifestolibri
Via della Torricella 46
Castel San Pietro Romano (RM)
ISBN 979-12-8012-409-8
www.manifestolibri.it
book@manifestolibri.it
in copertina: Shutterstock
Prefazione alla nuova edizione
di Angela Azzaro
L’amicizia tra Lea Melandri e me risale al 1997, lo stesso anno che la manifestolibri ripubblica L’infamia originaria. La prima volta il saggio, una raccolta di testi scritti per la rivista Erba voglio
, era stato infatti dato alle stampe nel 1977. Per il Ventennale del movimento avevo proposto e ottenuto di preparare un inserto sul femminismo. Lavoravo a Liberazione, il quotidiano di Rifondazione comunista, e chiesi a Lea Melandri, che ancora non conoscevo personalmente, di scrivere l’editoriale. Lea rappresentava quell’epoca, quella storia, quel pensiero. Ma mentre per alcuni e alcune si trattava del passato, per me – che l’avevo da poco letta e studiata – era il futuro.
Quando a vent’anni mi chiedevano se fossi femminista, rispondevo senza esitazione e con orgoglio. «Sì – dicevo – sono femminista». Ma allora, oltre Simone de Beauvoir e alcuni testi sparsi, non conoscevo bene la storia e i vari filoni del femminismo italiano e internazionale. Una cosa mi era chiara: la mia libertà, la mia autonomia, non potevano che essere pensate fuori dagli schemi e dai ruoli consolidati. Quel «sì» era un bisogno di libertà che nasceva prima di ogni altra istanza. Memorie di una ragazza perbene della scrittrice femminista francese era anche un po’ la mia storia, come io vivevo la mia esperienza. Solo dopo la laurea, iniziai un percorso di studio e approfondimento dei femminismi. Un corpo a corpo che in poco tempo mi portò a conoscere le varie scuole. Allora in Italia, nei primi anni Novanta, era in auge il pensiero della «differenza sessuale». Per me il colpo di fulmine fu invece per l’analisi di Lea Melandri che continuai a seguire anche grazie alla rivista da lei diretta e curata Lapis
, in cui era possibile leggere le più interessanti tendenze in ambito artistico, filosofico, storico, psicoanalitico.
Le chiusure identitarie che scorgevo da altre parti, non le trovavo nella sua riflessione: trovavo invece una messa in discussione radicale del potere patriarcale a partire dalla critica del «maschile» e del «femminile» in quanto costruzioni storicamente definite. Tutti gli opposti erano decostruiti: natura-cultura, uomo-donna, individuo-società, biologia-identità. Un ripensamento totale che attraverso la psicoanalisi e la critica del marxismo non permetteva nessuna idealizzazione dell’essere donne, nessun «specifico» a cui aggrapparsi, nessuna àncora di salvezza nella madre reale o simbolica. Lea proponeva non una Verità, ma un punto di vista complessivo sul mondo: indicava una strada impervia, ma che a me appariva – in sintonia con la scuola anglosassone del gender e poi del queer – l’unica possibile.
Rileggere L’infamia originaria è un tuffo nella storia migliore di questo Paese. Sono gli anni delle grandi riforme votate in Parlamento. Riforme che furono possibili, anche quando frutto di mediazioni, perché dietro c’era un grande movimento che premeva e costruiva giorno dopo giorno i cambiamenti: la legge sul divorzio, la legge sull’interruzione di gravidanza, il nuovo diritto di famiglia, la nascita dei consultori, la chiusura dei manicomi sono alcune delle conquiste di quel decennio. La rivista Erba voglio
è dentro questa temperie. Diretta da un grande intellettuale come Elvio Fachinelli è il racconto in presa diretta dell’importante lavorìo culturale e libertario che è alla base dei movimenti anti autoritari. Gli anni Settanta per il femminismo sono il periodo dei «gruppi di autocoscienza», di un cambiamento che si costruisce «a partire da sé», dalla conoscenza e messa in discussione anche della propria storia e delle sue ricadute sull’incoscio. Non è però quel «partire da sé» spesso diventato una frasetta da appiccicare per legittimarsi qualsiasi discorso, come avverte Lea Melandri nella prefazione alla prima edizione della manifestolibri. È invece uno scavo interiore profondo, doloroso, ma necessario, che parte dal presupposto – ogni più che mai attuale – che le donne hanno introiettato quello stesso potere che le vuole seconde e subalterne agli uomini. È una messa in gioco totale che Lea Melandri non ha mai dimenticato e che spesso si tende a mettere da parte ogni qualvolta si santificano le donne, le si mette su un piedistallo o si tende a dimenticare le loro «complicità». Per me quella strada, anche allora, era l’unica possibile. Negli anni 90 non c’erano più i gruppi di autocoscienza, ma da poco avevo iniziato un percorso psicoanalitico con un’altra importante protagonista di quegli anni, Francesca Molfino. Lo sapevo sulla mia pelle: il cambiamento non poteva, non può essere che un esercizio continuo, una scelta prima di tutto personale.
Ristampare oggi il saggio di Lea non è solo un omaggio, comunque dovuto, agli anni Settanta e al femminismo, è la riproposizione di un testo necessario perché ci riporta, in un periodo di forti semplificazioni, alla complessità. Il movimento me-too, che a partire dal caso del produttore hollywoodiano Weinstein, ha aperto una sfida mondiale contro le molestie sulle donne, sta suscitando comprensibile entusiasmo, ma anche un altrettanto importante dibattito. Diverse intellettuali, tra queste Lea Melandri, hanno sollevato alcuni dubbi, tra cui quelli sul rischio di schematizzazione – da una parte gli uomini tutti cattivi, dall’altra le donne tutte vittime – e sul rischio di criminalizzazione del singolo. È la logica del capro espiatorio che punisce uno per lasciare tutto il resto intatto. Il problema, ci ricorda invece L’infamia originaria, è in un potere e in una cultura che hanno normato il maschile e il femminile e che richiede un sovvertimento radicale. Questo non significa che non si debba denunciare, tutt’altro. Ma è la consapevolezza che il vero cambiamento non si può ottenere se non con una messa in discussione totale del rapporto uomo-donna e dei ruoli. Senza l’analisi del profondo, di quel potere che abbiamo ereditato e introiettato, la denuncia resta più vicina al processo mediatico, alla caccia alle streghe e al voyeurismo che a una sfida radicale ma necessaria.
Mi chiedo allora quale sia il segreto di Lea, come il suo pensiero sia stato così lungimirante. Questo dipende sicuramente dalla capacità che ha avuto di cogliere i nessi tra i diversi aspetti della vita e del pensiero. Ma forse non avrebbe ancora oggi così tanta forza, se la sua teoria non fosse costantemente calata nella relazione, personale e politica, tra donne. Lea non si è chiusa in una torre d’avorio dove pontifica sul femminismo e sulle altre: su cosa sia giusto fare, dire, scegliere. Non l’ho mai sentita invocare censure o divieti contro qualcosa che disapprova, ma ogni volta si ostina a voler ragionare, scavare, capire. In tutti questi anni il suo impegno è continuato con la Libera Università delle donne di Milano e con i corsi di scrittura d’esperienza che la portano in giro per l’Italia. Oggi ha trovato una nuova casa nel movimento di Non una di meno: una realtà internazionale molto giovane che si batte contro la violenza sulle donne, avendo la forza, il coraggio e l’intelligenza di capire che, per vincere questa battaglia, si deve rivedere tutto, in sintonia con altri movimenti come quello gay, lesbico, queer. È lo stesso orizzonte che Lea persegue dagli anni Settanta: un ripensamento della soggettività a partire dalla critica al femminile e al maschile per come li abbiamo ereditati da due millenni di storia. È quel lavoro, forse con poco appeal mediatico, ma pieno di carica sovversiva e libertaria. Per questo L’infamia originaria andava ristampato e va riletto.
L’infamia originaria
il mio sessantotto
Lea Melandri
Ho rubato più volte questa suggestiva e confortante definizione a Elvio Fachinelli, che di quella stagione fu un geniale interprete e insieme continuatore. Al suo pensiero a alle iniziative che abbiamo condiviso per quasi tutto il decennio successivo, devo molto della mia formazione intellettuale e di una passione politica duratura, legata al movimento non autoritario nella scuola e al femminismo, incontrato negli stessi anni. Quando già la folata
fluida della dissidenza giovanile ,mossa da logiche di desiderio e di accomunamento , si era ripiegata su forme rigide partitiche, isolate, come fortezze ai limiti del deserto
, cominciammo insieme la pubblicazione della rivista L’erba voglio
con l’intento di capire le ragioni per cui riemergono, anche all’interno di una rivoluzione libertaria come quella del ’68, tendenze alla passività, all’attesa inerte verso l’esterno, bisogno di miti e di capi e di gerarchie rassicuranti. Gli stessi bisogni, coltivati dall’apparato di dominio, proprio perché esclusi da ogni ricerca e controllo ,tornavano in campo e affrontarli era l’unica proposta di intervento politico reale.
Quando arrivai a Milano in fuga dalla provincia, nel ’66, ero appena laureata e già in condizione di poter entrare di ruolo nella scuola. L’incontro con le assemblee degli insegnanti e poco dopo con Fachinelli, che sulle pratiche non autoritarie nell’educazione stava preparando un convegno – da cui sarebbe uscito il libro L’erba voglio (Einaudi 1971)ebbe su di me l’effetto di una illuminazione: dimettere
quel ruolo, prima ancora di assumerlo, significava ripensare la mia formazione scolastica alla luce di tutto ciò che era rimasto il fuori tema
: esperienze dolorose legate all’essere figlia di contadini molto poveri, a cui era stato dato il privilegio, allora raro per una femmina di studiare, senza per questo potermi sottrarre al dolore di assistere alla violenza di tre nuclei famigliari stipati in poche stanze. Con sorpresa, scoprivo che il fuori tema
sarebbe diventato Il tema
: la vita e tutte le vicende, le più universali dell’umano che per secoli erano rimaste confinate nel privato
, potevano uscire dal sottobanco
e mettersi al centro di una cultura e di una politica che le aveva considerate dei rifiuti
, dei tabù, degli scarti innominabili nelle lingue colte.
Di Fachinelli, prima ancora di conoscerlo di persona, avevo letto alcuni articoli usciti sui Quaderni piacentini –Don Milani e la scuola di Barbiana (1967) Gruppo chiuso o gruppo aperto?, del febbraio 1968, e Il desiderio dissidente (novembre 1968) Cosa chiede Edipo alla Sfinge (1969). Ad aprirmi prospettive impensate, fuori –come scriveva Elviodalla rovinosa dialettica
in cui si era inoltrata la Ragione, così come ci è arrivata dalla storia, era stato soprattutto un passaggio del suo commento a Lettera a una professoressa. Nel libro, scriveva, c’era qualcosa di più
che la denuncia della disuguaglianza e della selezione di classe: una verità che stava montando da più parti del mondo, una verità che conosciamo ma che finiamo per dimenticare:
"La mia rimozione individuale del sociale è parallela alla mia rimozione sociale degli individui. Questo rimosso permane, sta sempre sveglio, mi deforma dal di dentro anche se lo ignoro."
Si trattava di ricollocare l’individuo e tutto ciò che era stato visto come non politico
, consegnato perciò all’immobilità delle leggi naturali, all’interno della storia e della cultura, a cui ha appartenuto da sempre. E’ stata questa a mio avviso l’intuizione più originale dei due movimenti che ho avuto il privilegio di conoscere tra la fine degli anni ’60, inizio ’70, sintomi essi stessi del modificarsi dei confini tra privato e pubblico, ed embrione di una ridefinizione della politica.