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Sindacalismo autonomo
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E-book221 pagine2 ore

Sindacalismo autonomo

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Info su questo ebook

La nuova edizione del saggio sull'autonomia del sindacato, che risale agli anni ’50 del secolo scorso.
L'opera di Ferrarotti cercava di capire come era il lavoro, che la forza lavoro subalterna si stava configurando secondo linee organizzative non ideologiche e neppure nazionali o internazionali, dovendo legarsi alle caratteristiche della tecnologia produttiva, che non potevano essere che aziendali. Costretto fra due grandi organizzazioni, temibili concorrenti, legate a due impostazioni, teoriche e di lotta, contrarie e simmetriche, il cammino del sindacalismo autonomo non è agevole, ma tuttavia procede, giorno per giorno. Un volume che, a oltre cinquant'anni di distanza, mantiene ancora inalterata la sua lungimirante visione sulle dinamiche sindacali nel mondo del lavoro.

Dalla prefazione di Franco Ferrarotti

LinguaItaliano
Data di uscita20 ott 2023
ISBN9788832104769
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    Anteprima del libro

    Sindacalismo autonomo - Franco Ferrarotti

    L’autore

    Franco Ferrarotti è oggi il più noto dei sociologi italiani all’estero.

    I suoi libri sono tradotti in francese, inglese, spagnolo, in russo e in giapponese. Autore di numerosi libri apprezzati da scrittori, artisti e scienziati sociali, ha collaborato con le maggiori riviste scientifiche statunitensi, oltre che europee.

    Ferrarotti si è interessato dei problemi del mondo del lavoro e della società industriale e postindustriale, dei temi del potere e della sua gestione, della tematica dei giovani, della marginalità urbana e sociale, delle credenze religiose, delle migrazioni. Una particolare attenzione è stata dedicata nelle sue ricerche alla città di Roma. Ha sempre privilegiato un approccio interdisciplinare e insistito sull’importanza di uno stretto nesso tra impostazione teorica e ricerca sul campo.

    Ferrarotti è stato consigliere di Adriano Olivetti, diplomatico, deputato, professore ordinario.

    Sinossi

    Il cammino del sindacalismo autonomo

    non è agevole, ma tuttavia procede,

    giorno per giorno, dalla protesta operaia

    fino all’attuale trasformazione del lavoratore

    in tuta blu in operatore in camice bianco.

    Franco Ferrarotti

    Sindacalismo Autonomo

    Sindacato

    © Arcadia edizioni

    I edizione ottobre 2023

    Isbn 9788832104769

    https://arcadiaedizioni.it

    È vietata la copia e la pubblicazione, totale o parziale,

    del materiale se non a fronte di esplicita autorizzazione scritta

    dell’editore e con citazione esplicita della fonte.

    Tutti i diritti riservati.

    Prefazione

    Edizione 2023

    Sono grato alle Edizioni Arcadia, che fanno capo alla UIL (Unione Italiana del Lavoro), per questa nuova edizione di un mio antico libro sull’autonomia, originaria ed essenziale, del sindacato, che risale agli anni ’50 del secolo scorso. La mia gratitudine non ha nulla di meramente benevolo. Tocca una questione di sostanza. Mi riporta a un clima intellettuale e a fervide polemiche, che sono tuttora di una inaspettata attualità.

    Il problema di circa ottanta anni fa riguardava la concezione e l’organizzazione pratica di un sindacato che garantisse la libertà dai partiti politici cui invece si inchinavano, variamente ossequiosi, sia la CGIL, legata al Partito Comunista, sia la CISL, braccio sindacale della Democrazia Cristiana. Il mio tentativo, in quegli anni, così come si rende evidente nelle pagine che qui di seguito si pubblicano, consisteva in sostanza in un forte richiamo del sindacato all’azienda, ossia nei luoghi di lavoro, dove si realizzava l’effettiva condizione operaia, non per fare dell’aziendalismo o, peggio, del «sindacalismo giallo», ma per comprendere a fondo e in maniera diretta le condizioni del lavoro operaio. Di qui, l’idea della «Comunità di fabbrica». Dando prova di singolare miopia ideologistico-settaria, il settimanale locale della CGIL, Il Tasto, mi criticava con il pettine di ferro, non risparmiandomi insinuazioni calunniose. Lo stesso Notiziario sindacale della CGIL, diretto dall’ottimo fotografo Ando Gilardi, non mi risparmiava censure e critiche acerrime. In quell’occasione, e del tutto inaspettatamente, si levò a mia difesa Giuseppe Di Vittorio, per dire che avevo torto a tacciare la CGIL di massimalismo ideologistico, ma che, in realtà, c’erano stati «errori di schematismo» e che, con la Comunità di fabbrica, io avevo ragione, che occorreva, con urgenza, tornare ai luoghi di lavoro, all’azienda, per mettere i piedi per terra. Forse erano necessarie la lunga esperienza e l’«apertura mentale» dell’ex bracciante di Cerignola per comprendere le esigenze degli operai in officina e dei contadini.

    È un nesso problematico che mi obbliga a ricordare le insistenti domande in proposito, in più occasioni rivoltemi dalla mia intelligente e leale assistente, per oltre mezzo secolo, Maria Immacolata Macioti, (si veda in proposito Un dialogo interrotto, Chieti, Solfanelli, 2023, passim).

    «Ma perché i sindacati?», continuava a domandarmi. Rispondevo, stancamente: «Per mettersi i piedi per terra. Perché sai, Pavese si lamentava che non riusciva mai a trovarmi, non sapeva dove ero: mi scrisse due o tre volte proprio a Hastings, dove io stavo poi a un certo punto per curarmi la bronchite cronica buscatami a Londra. E tornai. E, tornando, per la verità, avevo intessuto una strana relazione, una buona amicizia con Annamaria Levi; lei mi indusse a partecipare a un party in cui c’era la prima moglie di Olivetti, Paola Levi, il fratello Gino Martinoli, tutta la Juiverie dei Levi di Torino, compresa lei, Annamaria, che era solo una cugina un po’ lontana, non faceva parete di questi Levi ricchi; lei era dei Levi piuttosto poveri, però era sempre Levi, sai, quando ti chiami Levi… E il fratello Primo, lo scrittore e chimico, non era ancora tornato da Auschwitz.

    E lì incontrai Olivetti. Ebbi con lui un garbato scontro polemico sui Laburisti inglesi. Nel mese di ottobre o settembre, non ricordo bene, comunque dopo avermi parlato, dopo aver visto tra l’altro la mia Prefazione al Veblen che non andava bene, il mio articolo per Comunità che non andava bene neppure quello, eccetera, che però, credo, mi pagò poi più tardi, non lo so, non ricordo più con chiarezza, mi mandò una lettera: una offerta di lavoro che non si poteva rifiutare, perché mi offriva un favoloso stipendio senza obbligo di ufficio, senza far parte della ditta, senza obbligo di stare a Ivrea, solo per fare il suo consulente personale specifico per problemi particolari, quali problemi soprattutto sindacali.

    Perché Olivetti si rendeva conto, e io devo dare atto della incredibile chiaroveggenza dell’uomo, che però si prestava anche a interpretazioni più dubbie, per esempio a interpretazioni manipolative, come Foa credeva, come Franco Momigliano credeva. Vale a dire, lui vedeva la crisi del sindacato, perché la tecnologia produttiva ormai andava al di là delle categorie, cioè delle federazioni di mestiere, delle federazioni di categoria, metalmeccanici, metallurgici, tessili, edili, e così via.

    E allora lui voleva un sindacalismo moderno.

    Si trattava in fondo di capire come era il lavoro, che la forza lavoro subalterna andava organizzata secondo linee, diciamo, dei modi organizzativi non ideologici e neppure nazionali o internazionali, ma fossero dei modi adatti, compatibili con le effettive caratteristiche della tecnologia produttiva dovendo legarsi alle caratteristiche della tecnologia produttiva, non potevano essere che aziendali.

    Se i sindacati erano aziendali, allora essi non potevano essere altro che autonomi rispetto al quadro globale del sindacalismo ideologico nazionale; ma, essendo sindacalismo autonomo a base aziendale, i vecchi sindacalisti dicevano: È rottura della solidarietà di classe, della coscienza di classe, manipolazione psicologica degli operai, tipico Accornero, no, che allora ebbi una terribile polemica, qualche anno dopo con lui su queste cose proprio in piazza e io gli diedi del cretino, proprio a Villar Perosa. Lui lavorava alla RIV di Villar Perosa, che era degli Agnelli, faceva dei cuscinetti a sfera, è stata poi venduta dagli Agnelli a una ditta svedese.

    E allora, tu capisci, – chiarivo alla mia assistente – delle due l’una: o facevi la famosa unità della classe operaia, la coscienza di classe, ma perdevi i contatti con la tecnologia dell’azienda, cioè, facevi solo della retorica, oppure facevi un sindacalismo radicato, obiettivo, radicato nelle condizioni di lavoro effettive, ma dovevi farlo azienda per azienda e questo si chiamava sindacalismo autonomo.

    Olivetti mi parlò una sera di questo. Mi disse tre parole e io capii immediatamente tutto; anzi, cominciai subito a spiegargli come stavano le cose, perché citai Sorel. Sorel dice che tutto l’avvenire del socialismo risiede nello sviluppo autonomo dei sindacati, perché è lo sviluppo autonomo locale che ti dà la partenza dalla radice libertaria proudhoniana. Anche la famosa volta quando gli ho detto: Ma, guardi, lei è proudhoniano ma non lo sa, lui mi ha chiesto chi fosse Proudhon, e che bisognava studiarlo, eccetera. Insomma, lo impressionai moltissimo.

    E allora mi fu affidata una relazione da fare al Movimento Comunità. Ti devo dire che io ero appena arrivato lì, quindi era un enorme…, che si chiamava Premesse al sindacalismo autonomo, che fu fatta nel ’49 e che fu poi pubblicata nel ’50 e nel ’58; poi ne uscì una seconda edizione molto allargata, sotto il titolo, credo, di Sindacalismo autonomo.

    Questa è l’origine di Premesse al sindacalismo autonomo. Io non lo chiamai sindacalismo libero, perché chiamarlo così voleva dire proprio fare i provocatori, cioè, rompere l’unità di classe, eccetera».

    Fra una CGIL, legata al Partito Comunista, e una CISL, sostanzialmente democristiana e filogovernativa, si apriva uno spazio «libero», democratico, di totale autonomia sindacale. Era lo spazio vitale della UIL.

    Il lettore troverà in questo libro il ricordo della sua fondazione, il 5 marzo 1950, all’EUR, a Roma.

    Ricordo, con una precisione che ancora mi commuove, il discorso di Italo Viglionesi, il silenzioso consenso di Antonio Chiari, Luigi Polotti, Valerio Agostinone, e dei molti astanti.

    Costretto fra due grandi organizzazioni, temibili concorrenti, legate a due impostazioni, teoriche e di lotta, contrarie e simmetriche, il cammino del sindacalismo autonomo non è agevole, ma tuttavia procede, giorno per giorno, dalla protesta operaia fino all’attuale trasformazione del lavoratore in tuta blu in operatore in camice bianco.

    Da «cinghie di trasmissione» come lo voleva Lenin, il sindacato diventa, nelle condizioni, la fondamentale pressione dal basso che realizza e garantisce la democrazia partecipata.

    Roma, 25 luglio 2023

    F. F.

    Citazione

    GEORGES SOREL, Materiaux d’une théorie du prolétariat

    Paris, 1919, p. 133.

    Prefazione

    Credo non inutile ripubblicare qui, come prefazione alla nuova edizione di questo libretto, la lettera inviatami da Rinaldo Rigola verso la fine del 1950 e il commento, da cui allora la facevo seguire nella rivista Comunità(1). Molti sono i cambiamenti intervenuti nella situazione obiettiva. Alcuni assunti, che potevano in quel tempo venir considerati estravaganze polemiche, appaiono oggi validi come presupposti acquisiti, da cui muovere per una azione di rinnovamento effettivo del sindacato. Azione che, per non risolversi in tatticismo deteriore e da sé condannarsi al fallimento, è da vedersi collegata e articolata con una iniziativa a più largo raggio, che investa e metta in crisi sia gli schemi politici tradizionali che le rigide ideologie dottrinarie su cui poggiano e alle quali si richiamano allorché la realtà sociologica e lo stesso sviluppo tecnologico ne rivelino il carattere anacronistico, irreale e, in senso proprio, reazionario.

    Il fallimento di ogni iniziativa sezionalistica, anche quando ci si limiti alla considerazione del problema sindacale, è reso inevitabile dalla natura fondamentalmente unitaria del processo sociale e dalla stretta interdipendenza delle sue istituzioni, per cui non v’è, per esempio, innovazione tecnologica che non abbia immediato riflesso economico, politico, umano. Ciò non induca il lettore frettoloso a pensare ad una nostra accettazione di soluzioni tecnicistiche o tecnocratiche, nel nome di quello che altrove ho definito il «mito organizzativistico», ossia la convinzione che i grandi problemi sociali del nostro tempo sono essenzialmente problemi di organizzazione, in senso tecnico, e che pertanto è possibile risolverli con mezzi e in termini puramente organizzativi (Cfr. Il dilemma dei sindacati americani, Milano, 1954, p. 49 e segg.). Qui mi limito a osservare che lo sviluppo tecnologico, che di per sé non risolve nulla, pone tuttavia, raggiunto un certo livello, problemi analoghi indipendentemente dalle ideologie; problemi, la cui soluzione cade di là dalle ideologie e richiede un impegno comune, umano, che sfugge alla definizione puramente ideologica per ritrovare la propria giustificazione in un criterio funzionale.

    Al testo di «Premesse al sindacalismo autonomo», che viene qui ristampato così come era stato elaborato nei primi mesi del 1950,(2) ho creduto opportuno far seguire in appendice alcuni saggi e articoli che, per il loro carattere frammentario e occasionale, più direttamente possono gettar luce sulla continuità e organica coerenza di un lavoro, teorico e di laboratorio sociale, che non si è ancora placato in approdi definitivi. Ad essi ho inoltre unito un documento, «La dichiarazione di Ivrea», che sta a indicare il tentativo pratico di rispondere alla necessità di collaborazione, richiesta dalla evoluzione stessa del macchinario industriale, senza cadere in collusioni corporativistiche o tecnocratiche.

    Ho letto con il più vivo interesse il suo saggio sul sindacalismo autonomo, del quale sentitamente La ringrazio.

    Credo di aver compreso abbastanza bene la sua tesi sulla comunità aziendale e in che consiste l’autonomia sindacale secondo il Suo punto di vista. Si tratterebbe in sostanza di un perfezionamento dell’organizzazione scientifica della fabbrica, nel senso di fare non soltanto delle combinazioni tecniche ma benanco psicologiche. È esatto che sia il riformismo sia il massimalismo sono assenti, oggi come oggi, dal processo produttivo. Capitale e lavoro non collaborano affatto, anche se non fanno degli scioperi a singhiozzo. I riformisti sono psico-operaisti ed i rivoluzionari psico-ideologi, ma né gli uni né gli altri sono psicotecnici, cioè disposti psicologicamente e sindacalmente a far prosperare l’azienda e con essa tutta l’economia nazionale, giusta la legge del minimo sforzo.

    Abbiamo qualche esempio in essere di questo collaborazionismo, promosso quasi sempre dai datori di lavoro, ma abbiamo purtroppo anche un’avversione assai diffusa nei datori di lavoro ad ammettere una qualsiasi ingerenza del personale nella conduzione dell’impresa. Basti dire che in Italia nel 1925 le organizzazioni padronali stipularono col Governo fascista il famoso patto Vidoni col quale si impegnavano a riconoscere soltanto le organizzazioni fasciste a patto che i contratti si facessero soltanto fuori dalla fabbrica e venissero soppresse le commissioni interne. Questo per dire che la propaganda per il sindacato autonomo va condotta su due fronti.

    Oggi forse è più facile avvicinare le parti su questo terreno perché il clima politico è mutato. Comunque il sindacalista deve preoccuparsi di sottrarre la classe operaia alle suggestioni di un politicantismo che non fa né la rivoluzione, né la conservazione. Ho avuto giorni fa notizia di un professore comunista (Candeloro, se non erro), il quale ha scritto un libro in cui dichiara che il comunismo è il vero partito rivoluzionario perché è quello che ha fatto e fa il maggior numero di scioperi.

    Io penso invece che il sindacato sarà veramente rivoluzionario quando si proporrà di fare il minor numero di scioperi possibile senza nulla abbandonare, naturalmente, per ciò che riguarda la giusta ripartizione del prodotto tra lavoro e capitale. E l’idea di questa educazione psicotecnica mi sorride non tanto per le imprese gestite dai privati, quanto e più per quelle che passeranno alla collettività. Non ci sono che due soluzioni: o la coscienza e quindi la volontà degli operai di lavorare per la collettività e quindi di ottenere l’alto rendimento, o la servitù, la massa di manovra che subisce il comando di un pugno di burocrati e nulla sa di quel che i padroni fanno.

    Rinaldo Rigola

    È forse in questa

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