Rivoluzione e cinema fra Terzo mondo ed Europa: Dalla militanza politica al film I dannati della terra. Dialogo con Mariano Mestman
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Recensioni su Rivoluzione e cinema fra Terzo mondo ed Europa
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Anteprima del libro
Rivoluzione e cinema fra Terzo mondo ed Europa - Alberto Filippi
Prefazione - Fabio Frosini*
* Dipartimento di Studi umanistici, Università di Urbino Carlo Bo, fabio.frosini@uniurb.it
Il libro che ho l’onore di presentare contiene, nella sua brevità, molteplici e succosi tracciati che, come sotterranee vene d’acqua in una grande pianura, traggono i fluidi della vita – mondiale, nazionale, amicale – di cui Alberto Filippi è stato volta a volta testimone partecipe o protagonista, o tutto ciò allo stesso tempo. E come queste vene d’acqua, invisibili alla superficie, si manifestano sul terreno nel fiorire di piante ed erbe, allo stesso modo le tantissime vicende qui rievocate «pulsano» negli incontri più o meno casuali o cercati e nei progetti realizzati dal giovane e giovanissimo Filippi. Pulsano e premono, come la grande storia «urge» dentro i fatti quotidiani: non però al modo di una logica estrinseca e superiore a essi, ma – per proseguire con l’immagine naturalistica – come un canale di alimentazione, la cui corrente spetta al singolo, o ai singoli associati, o ai grandi organismi politici, saper intercettare e usare per spingere in avanti la lotta, la prassi dell’emancipazione.
In questo libro – la cui parte principale è costituita da una lunga e appassionata intervista di Mariano Mestman: Rivoluzione e cinema fra Terzo Mondo ed Europa. Scritti e ricordi intorno a I dannati della terra (1956-1969) – troviamo il giovane Filippi che, tra Caracas e Roma, e poi tra Roma, Parigi, Mosca, Guinea Bissau, La Habana e di nuovo Caracas, cerca e trova sé stesso, in una specie di vivace romanzo di formazione anti-intimistico, dentro cerchi concentrici sempre più ampi, fino ad abbracciare le grandi vicende mondiali. Le circostanze rievocate sono le più varie: congressi politici e culturali, amicizie e interminabili passeggiate, progetti di film e lunghe spedizioni per girare, interviste e polemiche. Ma tutte ruotano senza forzature attorno al progetto di un film: I dannati della terra, ispirato al grande libro di Frantz Fanon e girato dal regista Valentino Orsini in collaborazione con Filippi. Il progetto del film, presentato per la prima volta in forma completa al controfestival del cinema di Venezia nel 1968 [1] , si intreccia con le vite dei due giovani intellettuali Orsini e Filippi, con la loro amicizia e con l’amicizia e la frequentazione di altri cineasti, intellettuali, politici, in una serie appassionante di incontri, scontri o incontri mancati. Ma, come si è detto, in queste vicende «pulsano» sempre, appena sotto la superficie, le grandi forze della storia: la tragica vicenda di Che Guevara, il Sessantotto, i movimenti di liberazione e di emancipazione dei popoli coloniali, e prima ancora i funerali di Togliatti e il Memoriale di Yalta, la militanza rivoluzionaria in Venezuela e gli ultimi sussulti del movimento comunista internazionale, con il Congresso mondiale per il disarmo e la pace del luglio 1962 a Mosca.
La forza del racconto di Filippi – in ciò egregiamente accompagnato dall’interlocutore – sta nell’intrecciare sapientemente privato e pubblico, amicizie e vicende politiche, questioni di poetica e di politica ed economia; insomma, ridotto a una formula, nel tenere insieme cinema e realtà, per riprendere la grande sfida che ha a lungo tenuto impegnati teorici, cineasti, intellettuali, almeno fino a quando il mondo è parso capace di sfuggire all’inevitabile. Nel progetto di questo film si riflettono punto per punto i percorsi biografici dei protagonisti, con la loro caparbia volontà di realizzare qualcosa che fosse parte della realtà, ma prendendo posizione in essa con forza e testardaggine, senza tentare di eluderla narcisisticamente. Ma ne I dannati della terra precipita anche la storia delle dispute politiche, ideologiche, spesso sterili e perdenti, della sinistra italiana e mondiale.
Riproduco qui un passaggio che ritengo possa utilmente esemplificare questa affermazione:
Ricordo ancora bene, perché conservo la lettera di Ciruzzi ad Ivens, che alla fine del 1963 il già famoso cineasta olandese organizzò una riunione a Parigi con l’intento di sondare la possibilità di organizzare il suo viaggio per fare delle riprese in Venezuela. Fu in quel caso che ci rendemmo conto, attraverso Elizabeth Burgos, antropologa venezuelana che aveva studiato a Parigi con il mio compagno di partito Alfredo Chacón e fidanzata di Regis Debray, che anche loro stavano lavorando in contatto con il direttore della rivista Révolution, Jacques Vergès, per un progetto simile di documentazione e divulgazione in Francia ed Europa della guerriglia venezuelana, e cercammo quindi di unire le forze in una comune impresa. Tuttavia, le complicate discussioni e discrepanze fra la concezione politica maoista di Ivens e della sua compagna Marceline Loridan, e quella trotskista e poi «guevarista» di Debray e degli altri compagni francesi, invischiati nella grande disputa per l’egemonia dottrinaria fra Pechino, Mosca e L’Avana, ci fecero capire rapidamente che questo progetto non sarebbe avanzato e che l’unica cosa che sembrava fattibile era cercare alternative con i compagni cineasti italiani. Decidemmo quindi con Neruda di parlare con Mario Alicata.
L’idea che queste righe trasmettono – e che circola in tutta l’intervista – è che c’è un «mondo» fatto di violenza, di oppressione e subalternità; un mondo in cui i «dannati» tentano sempre, in ogni momento, anche quando sono apparentemente sconfitti, di riprendere la lotta (a questo proposito, Filippi scrive delle pagine molto belle sul Che, al cui «mito» ha dedicato un libro appassionato) [2] ; un mondo in cui i diversi livelli del potere si intersecano e sovrappongono al centro e alla periferia secondo logiche sempre specifiche ma interdipendenti; un mondo, infine, che, ponendo dentro un’unica logica dominatori e dominati alimenta la produzione di utopie concrete di ribellione e di emancipazione. E che, dinnanzi a questo mondo che a gran voce reclama coscienza, analisi e progetti all’altezza della complessità e gravità del problema, ci sono piccole logiche di spartizione e rivendicazione del primato ideologico e politico, logiche di disputa intestina che pretendono di ridurre il mondo alla misura di qualche partito o di qualche nazione, ma che sempre sono indietro, terribilmente indietro rispetto a ciò che quelle utopie richiedono. E che, infine, se qualcosa di buono è stato comunque fatto, ciò si deve in parte a congiunture fortunate, in parte all’energia di uomini e donne che, dentro e fuori dei partiti e dei movimenti, hanno guardato alla foresta e non al singolo albero.
È importante notare, a questo proposito, che Filippi non ritrae mai sé stesso come un isolato, un «senza partito» in linea di principio. Egli non trasmette alcun tipo di sfiducia verso le esperienze organizzative del movimento operaio e comunista. Del resto Alicata, verso cui, con l’appoggio di Pablo Neruda, convergono i giovani e volenterosi Filippi e Orsini, era in quegli anni a capo della Commissione culturale del Pci. Solamente, ci mostra con estremo realismo come, a ogni passaggio decisivo, questa trama organizzativa sia esposta al proprio fallimento, alla fragilità di uomini e donne, e strutture. Non dunque un mondo fuori della politica, ma dentro e fuori di essa: dentro la vitalità di partiti e movimenti, e fuori dei limiti personalistici e settari che sempre si insinuano nelle formazioni sociali subalterne, in forza appunto della loro subalternità. Così, dall’angolo visuale di un film, ci viene illustrato il tumultuoso e sofferto processo di apprendimento che, nell’interazione tra prassi e teoria, tra masse e intellettuali, il movimento per l’emancipazione deve percorrere per poter uscire dalla subalternità.
Gli strumenti teorici con i quali Filippi guarda a questi intrecci problematici vengono dalla sua stessa traiettoria: veneto, quindi venezuelano, quindi italiano, in un movimento di va-e-vieni che non è un ritorno al punto di origine ma una dinamica di crescita, una spirale anche drammatica, ma che «trattiene» dentro di sé tutte le scintille dello strato precedente. In Venezuela, figlio di emigrati veneti, ma integratosi e capace di essere partecipe di un movimento di liberazione dalla dittatura militare di Pérez Jiménez. A Roma, con una conoscenza dell’italiano all’inizio solo rudimentale, si integra rapidamente nella vita de La Sapienza, con maestri come Ugo Spirito, Lucio Colletti, Carmelo Lacorte e ottiene la laurea in Filosofia con una tesi (relatore Spirito, correlatore Lacorte) su Dialettica e conoscenza. Dalla Filosofia alle scienze storico-sociali. Il titolo indica già la direzione da prendere: la dialettica – ma per farne che? Si tratta di uscire dal castello incantato della speculazione, della filosofia che pretende di fondarsi autonomamente, e di assumere il compito di capire il mondo come un insieme di relazioni organizzate in modi sempre specifici, ma interdipendenti.
La spinta verso questa comprensione è in Filippi inseparabile dal fatto di portarsi dietro l’esperienza venezuelana, cioè lo sguardo extra-europeo che rende possibile evitare di cadere nell’illusione ottica dell’equivalenza tra Europa e mondo, tra umanesimo e umanità, tra la lotta di classe e la disputa politica nei paesi del capitalismo avanzato e nelle «periferie»; tra, insomma, la storia di una «provincia» e quella del «mondo grande e terribile». Di Marcuse, che a Berlino Ovest proclamava nel 1967 la fine dell’utopia, Filippi dice che si trattava piuttosto di «un utopismo ‘metafisico-escatologico’ radicalmente opposto a quello che proponevo io e che continuo a sostenere, che potremmo definire come un ‘utopismo storicista’, dell’utopia concreta». Le forme di questa utopia concreta o storicista