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Il verbo di A'Alwe -Parte Prima
Il verbo di A'Alwe -Parte Prima
Il verbo di A'Alwe -Parte Prima
E-book532 pagine8 ore

Il verbo di A'Alwe -Parte Prima

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Info su questo ebook

Quando il bosco di Lorgul inizia a sussurrare presagi di morte, per Andrel non rimane altro che aggrapparsi all’istinto di sopravvivenza. Ma dal momento in cui l’oscura selva decide di mostrare il suo vero volto, nulla potrà più trascendere l’immaginazione, se non il nulla stesso. Inizia così un’odissea per terra e per mari, tra battaglie ed epici duelli,alla ricerca di una bambina, fonte di salvezza contro l’orda del Male che avanza. Un invisibile nemico li attenderà, un’indecifrabile realtà li accompagnerà,una segreta alleanza li sosterrà. Dalla drammaticità degli eventi, eroici cavalieri all’ombra delle Tenebre vedranno emergere dai propri conflitti interiori quei valori persi nel profondo del cuore umano. È infatti in un viaggio spirituale che i protagonisti dovranno affrontare la loro prova più dura ed è nel verbo di Lei, di A’alwe, che dovranno trovare quella fede che li renderà invulnerabili. Un cammino fatto di illusioni e verità, di macabre conoscenze e profetici disegni. Un cammino che porterà alla rivelazione e alla redenzione. Sarà pianto delle Tenebre, grido degli abissi o un’alba morente incatenata da un imperituro tramonto?
LinguaItaliano
Data di uscita8 ott 2019
ISBN9788834196229
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    Anteprima del libro

    Il verbo di A'Alwe -Parte Prima - Andrea Agomeri

    Capitolo I

    Sottili ramoscelli di cerro aggrinziti dal tempo e velati da licheni biancastri crepitavano sotto l’impeto indotto dalla paura, estinguendo il sopore che da anni li quietava, lì dove foglie sempreverdi di leccio e sughero, asperse di rugiada, si sollevavano dal terreno librandosi in aria come piume baciate da un vento gelido. L’odore graveolente del muschio madido d’acqua sa­­­­­­turava l’aria brumosa, rendendola irrespirabile; ivi, una foschia occasionalmente trafitta da fendenti di luce fluenti attraverso i folti rami di imponenti querce ottenebrava i briosi colori dei ciclamini e delle viole che, assieme al folto tappeto di edere e felci, ammantavano il sottobosco. In lontananza, un gheppio planava verso il cuore del bosco di Lorgul, emettendo un verso stridulo ed acuto che andava a scemare man mano che il volatile si addentrava tra le fitte chiome di maestosi alberi secolari, facendo da sfondo allo stormire delle foglie di un isolato pioppo tremulo e al movimento ciondolante dei coriacei frutti dei carrubi. Un enorme tronco giaceva a terra, ammantato di una vecchia e logora carcassa corticale e chiazzato dal muschio e da piccoli funghi; se ne stava lì, infossato nel morbido terreno, ad esternare i segni recatigli dal tempo e dalle forze tenebrose del bosco. Dal suolo, saltuariamente rigato da rivoli d’acqua che andavano a confluire in piccoli ristagni attorniati da euforbie ed equiseti, prorompevano robuste radici; ovunque, era adornato da piante erbacee di ogni genere, palesando una ricca flora perpetuatasi nel lento ed indisturbato sonno del bosco, costantemente vegliato dai solenni alberi in difesa di quel posto oscuro, come le colonne di fiamme che insorgono, in tutta la loro maestosità, attorno al propileo del tempio che conduce al regno degli inferi. Lo Spirito del bosco di Lorgul dimorava sotto la corteccia di ogni singolo albero, scorrendo sotto forma di linfa fino ai rami più alti ed alimentandosi con le ceneri e il sangue di coloro che in epoche passate calpestarono quelle terre, combattendo strenuamente; come soldati devoti ad una potente divinità, si ergevano in tutta la loro potenza, circondati da un’armatura corticale fregiata da tenaci liane e maculata da licheni e muschi. La luce si dissipava tra il denso fogliame, perdendosi nella profonda oscurità e lambendo un sottobosco perennemente tetro e tenebroso. Una Forza Oscura vi dimorava.

    Lì dove la storia è velata dalle ombre del tempo, armi potentissime e tecnologie avanzate avevano sovvertito il volere umano, inducendolo alla quasi distruzione totale per ottenere la libertà; da allora i pochi sopravvissuti avevano condotto una vita volta al recupero dei vecchi valori, al fine di ricostruire la propria integrità morale e la riconciliazione con la pace. Ma la bramosia degli uomini non aveva limiti e nel corso della storia si succedettero diversi regni governati da despoti assetati di potere. La pace non fu mai raggiunta. Battaglie sanguinarie e scontri senza tregua sconvolsero per secoli quelle terre, già devastate dall’ignoranza umana. La fede aveva lasciato il posto all’insofferenza, alla corruzione morale e ai desideri venali, mentre la voce della comprensione si era fatta sempre più debole; l’incapacità di accettare la realtà e il rifiuto di perdonare il prossimo portò ad un processo irreversibile di indebolimento dello spirito umano, superando una linea di demarcazione forgiata dall’irragionevolezza. La sete di vendetta impediva di ricercare nel proprio animo la serenità che avrebbe permesso di soppesare le cause del proprio male interiore, giustapponendole alle azioni scellerate dettate dalla fragilità dell’ego; un ego sottomesso al volere delle circostanze, debole di fronte al caos. L’uomo era caduto in una fitta rete di intolleranze contro uno stato senziente, aggrovigliato in essa e prigioniero delle sue trame, rinchiuso come in un bozzolo imbevuto di sangue in cui ritirarsi e da cui trarre nutrimento. L’incapacità di manovrare la propria istintività, resa violenta sotto i colpi irruenti dell’isteria, e l’offuscamento della ragione, avevano reso gli uomini ciechi, avvolti dall’oblio del passato ed armati di malvagi intenti.

    Dove finiva la ragione si aprirono i cancelli per l’ignoto, verso cui ogni mente si paralizzava per piombare in una dimensione sovrannaturale. Il dominio dell’irragionevolezza, dunque, aveva alterato l’essere umano, sottomettendolo al proprio volere; questa generò incomprensioni e atti violenti e peccaminosi, aumentando la rabbia e la frustrazione; queste generarono un odio incommensurabile tra gli uomini. L’odio rafforzò il Male. Confinate e relegate in un’altra dimensione, le forze maligne riuscirono, col tempo, a crearsi un passaggio per il mondo attuale. Dapprincipio l’aria, poi la terra e le acque, si impregnarono di queste forze demoniache che, col passare dei secoli, sfociarono in una forza senziente capace di pensare, di creare e di distruggere. La sua unica devozione era quella della morte. Il tempo trascorse, la storia si coprì della sua polvere, le epoche si succedettero all’ombra dei miti, all’ombra delle leggende. Una di queste vuole che, nei tempi più bui dell’umanità, comparvero Dodici Cavalieri, a cui il Creatore, in un passato assai remoto, aveva dato loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattia e d’infermità. Fu l’inizio della Guerra Sacra, una leggenda persa tra le scritture dimenticate. Quattro di loro perirono, gli altri otto riuscirono a vincere il Male; ma questo non fu debellato e si richiese il sacrificio di sette di loro per relegarlo, attraverso sette sigilli, in un’altra dimensione, dalla quale non sarebbe mai più potuto uscire. L’ottavo, il più potente, perì infondendo nella Flora tutta la sua forza vitale, affinché questa vegliasse sulle terre. Ma qualcosa di inspiegabile avvenne, i sette sigilli furono intaccati ed incrinati, e il Male tornò. Fu allora che la Flora si risvegliò dal suo lungo letargo, avvertendo il pericolo immane che si stava per abbattere sul pianeta ed invitando gli uomini ad intervenire, prima che le forze maligne risvegliate potessero riorganizzarsi e diventare così indistruttibili. Ma questa, come è già stato detto, è solo una leggenda.

    La ragione presto sembrò sgretolarsi in tante piccole particelle vaganti nell’universo dell’oblio verso ignote destinazioni. Il silenzio della conoscenza andava stillando le sue buie ed evanescenti note. Era come se il Bosco avesse iniziato ad attecchire le sue radici nella cerchia interiore di Andrel, portando seco il lento agonizzare di un’esistenza che si schiacciava attorno al concetto di salvezza. Forza di volontà e desiderio di sopravvivere trotterellavano tentennanti sul tavolo della morte, molestati dal gelido vento dell’abbandono. Solo baluginii di speranza si intravedevano nella burrascosa distesa della disfatta.

    Con il cuore in gola ed i polmoni dilatati, il capitano Andrel Akulnayg correva precipitosamente, senza badare agli ostacoli che gli si paravano davanti. La sua fronte era perlata con gocce di sudore, il volto rigato da sottili rivoli di sangue e le labbra erano screpolate dall’arsura del lungo viaggio. Un dolore lancinante al petto gli impediva di respirare regolarmente, un respiro che si faceva sempre più affannoso, saltuariamente interrotto da stridi acuti indotti da intense fitte tra le coste. I muscoli delle gambe, intorpiditi dall’umidità e dalla paura, non gli impedivano di continuare la sua folle corsa, sebbene i pesanti stivali scuri, inzuppati d’acqua e screziati da fango e frammenti di muschio e licheni, affondavano pesantemente nel terreno. La prospettiva che andava delineandosi in quella nuova dimensione aveva sfumature sempre più bigie, come il colore della sua divisa che presentava copiose lacerazioni e chiazze di fango e foglie, adagiate sul tessuto come fossero medaglie al valore.

    S’incanalò di gran lena giù per un leggero declivio che scendeva sulla destra per poi risalire verso una macchia di farnie dalle cortecce assai rugose; s’addentrò, con la fatica che gli martellava sul petto, sotto un cunicolo di rami cestosi per uscirne con un peso ancora più gravoso sulle gambe. Scavalcò un groviglio di rami spezzati, aggirò una pozza d’acqua stagnante, s’incurvò per schivare un grosso ramo che scendeva minaccioso dall’alto, eluse un tappeto di urticanti pungitopi, ma la creatura partorita dagli inferi era sempre lì, alle sue spalle a mietere terrore e morte. Le gambe mulinavano senza sosta, con le braccia non smetteva di scostare con impeto i rami che gli precludevano il passaggio. Graffi ed escoriazioni andavano di pari passo con il logoramento che defluiva e si abbarbicava nelle sue carni. Era un continuo evadere dal dolore.

    Picee colate d’ombra avvolsero Andrel in un bozzolo, divenuto una delle tante macchie che tappezzavano il sottobosco. La sua presenza si elevò in quella masnada di oscurità quando un dardo di luce rifulse sullo spallaccio di metallo accuratamente legato sulla spalla sinistra, così come il cosciale che faceva da scudo alla coscia sinistra. Su entrambe le corazze era incisa l’effigie della Casa Imperiale, uno scudetto con su dipinto un albero, l’Albero dell’Alleanza, la cui chioma era composta di sette rami, a simboleggiare le Sette Essenze.

    La sopportazione a quel surreale stato interiore veniva continuamente schiaffeggiata affinché corpo e mente desistessero dal difendersi e dal combattere una forza estranea che tentava con insistenza di esplorare ogni aspetto della paura umana, scandagliandone ogni recesso e dilaniandone ogni possibile breccia di fuga. Ma è negli animi più forti che la tenacia innaffia quel terreno del terrore su cui la resistenza tenta di radicare la propria ragion di essere.

    Andrel dovette vincere ogni sorta di ostacoli materiali che gli si paravano dinanzi; il terreno si presentava dissestato ad ogni passo, tra buche e massi che si alternavano agli affioramenti radicali e alle piante rampicanti. Non si finiva di attutire il colpo inferto da una zolla di terra compatta che subito l’altro piede doveva avvedersi di un tratto di suolo argilloso e molliccio. Questo alternarsi di situazioni avverse portò presto ad uno stato di sfinimento e là dove la spossatezza non aveva attecchito, il coraggio nicchiava vacillante.

    Il sentiero si restrinse e per qualche metro gli alberi lasciarono il posto a spinosi rovi i cui rami si protendevano come mille infidi artigli di belve affamate. L’uomo estrasse il pugnale dal fodero appeso alla cintola di cuoio, posta tra due grosse giberne, ed incominciò nervosamente a fendere a destra e a manca ogni cosa, facendo zampillare tranci legnosi e frammenti di foglie. Come la lama del pugnale impattò qualcosa di duro questo volò via, andandosi a perdere nell’infinita distesa vegetale. Frettolosamente Andrel recinse la mano attorno alla mazza d’arme pencolante alla cinghia stretta attorno alla coscia destra e la sfibbiò; menò violenti colpi, spezzando l’intricata rete che il bosco stava tessendo attorno a lui. Il tempo cadenzava in maniera concitata, con i secondi che rincorrevano i minuti. I pruni selvatici si saziarono di una giberna cucita sul braccio, sbrindellandone il tessuto; tutto il suo contenuto s’infossò tra le impronte del fuggiasco.

    La resistenza del roveto dovette cedere presto il passo alle secolari conifere che svettavano brulle di pigne e galbuli dalle coriacee squame legnose. Ne approfittò Andrel per dare più adito alla sua corsa, ora che il suolo era ammantato da uno scricchiolante tappeto di aghi di pini rinsecchiti. Si alleggerì dell’otre di pelle e di una piccola stuoia accuratamente legata sulla schiena; ora il suo unico fardello consisteva nella balestra riposta in una cinghia tra due faretre cucite sulla schiena. Intravvide un varco su cui sfociava un sentiero; vi ci caracollò senza dare adito ad ingannevoli ripensamenti. Sulla destra, una cascata di liane andava a congiungersi con viluppi di radici che prorompevano dal terreno, sulla sinistra garbugli di fuscelli si frammischiavano con un amalgama di foglie dalle forme e dalle tinte più variegate. L’uncino della morte non cessava di iniettare il veleno della paura che gocciolava entro il nero abisso da cui stava scappando Andrel e da cui un vortice di tenebre tramutava tali gocce in sospiri di morte. La salvezza sembrava restringersi come il foro di una clessidra, attraverso cui la sabbia, imbevuta dal travaglio, faticava a scivolare. Ad essere calpestati non furono solamente le edere che si aggrovigliavano attorno alle caviglie o i fragili fittoni che un giorno assai lontano sarebbero arrivati a sfiorare con le loro immense chiome il cielo, ma anche e soprattutto quella linea di demarcazione che delimitava il reale dal surreale. Per qualche istante, o forse interminabili ore, Andrel ebbe come la sensazione che non fosse lui a posare il peso del suo piede sul suolo del bosco ma che fosse il bosco a schiacciare lui con la sua infinita mole. Non vi era più alcuna lancetta a scandire il tempo, bensì enormi magli che colpivano con irruenza sulla grande incudine della vita, come la senescenza degli alberi più vetusti i cui tronchi nodosi s’incurvavano in modo contorto sopportando il peso dei caduchi rami.

    Il distacco da un sempre più intangibile presente prese lentamente ad ingannare il senno, rendendo impalpabile una realtà il cui arco di vita andava deformandosi verso un qualcosa di astratto dove il pensiero alienava nelle sue mille chimeriche sfumature.

    Il terrore scorreva nelle vene del capitano Akulnayg, un terrore che lo trasportava in una realtà surreale; la sua mente stava vorticando dentro una spirale che lo avrebbe portato inesorabilmente verso un nuovo mondo, dove la paura rasentava la pazzia. Con le pupille dilatate, i suoi occhi sembravano trasparire un senso di vuoto e di smarrimento, schiacciato sotto l’opprimente peso del tempo. Il bosco di Lorgul si stava nutrendo della sua razionalità, divorando ogni pensiero e sbriciolando ogni percezione, eccetto quello della paura. Sentiva la fredda morsa dell’agonia invadergli le membra, trascinandolo all’interno di una gabbia senza fine. La sua era una corsa sui binari del terrore, verso una nuova dimensione obnubilata ovunque da ombre, con quel odore nauseabondo e quell’aria così densa da essere irrespirabile, precludendogli ogni movimento, come se la gravità si fosse decuplicata; sentiva, infatti, il suo corpo schiacciarsi sempre più al suolo. Un senso di nausea gli fece contrarre i muscoli dello stomaco, con il cuore che gli martellava le coste e i polmoni saturi che premevano sul diaframma come imponenti macigni; rimase per un momento senza fiato, poi emise un urlo strozzato, interrotto da un conato di vomito. Avvertì i primi segni di vertigini e un principio di svenimento, mentre la sua vista si faceva sempre più offuscata e un ronzio insopportabile gli mulinava tra le orecchie. Il bosco di Lorgul prese a sussurrargli qualcosa, incomprensibili parole ottenebrate da cupi sibili, seguite dai lamenti dei dannati reclusi nelle viscere dell’inferno; almeno così la sua mente delirante gli fece credere. All’improvviso ebbe la realistica sensazione che il mondo intorno a lui iniziasse a mutare, i rumori della natura diventavano sempre più sordi, le felci e il tappeto di edere si afflosciavano sul suolo mentre le foglie sui rami iniziavano ad evolversi molto velocemente verso uno stadio di vecchiaia, perdendo il loro colore naturale e diventando sempre più secche e scolorite, fino a disgregarsi come tanti granelli di sabbia deflagrati dalle intemperie; brandelli di corteccia cadevano a terra, come frammenti di pelle liquefatta, lasciando gli alberi nudi e indifesi. Il tutto sotto un cielo che andava facendosi sempre più scuro e minaccioso. La sua mente, incapace di autocontrollo, proiettava immagini diverse dalla realtà, creando nel suo subconscio un mondo di devastazione e di terrore, finché tutto divenne oscuro. Improvvisamente, da quel piceo vuoto che si era venuto a creare, una massa, dapprima puntiforme e poi allungata, gli si parò davanti con una velocità tale che non fece in tempo ad evitarne l’impatto frontale. Qualcosa lo aveva urtato, forse un ramo, procurandogli un lancinante dolore alla testa, mentre un rivolo di sangue incominciò a rigargli la guancia. Cadde rovinosamente sul terreno, urtando con violenza una costa contro una pietra, per metà incassata nel suolo; la costola si spezzò in un sordo rumore, come un rancido fruscolo secco. Emise un urlo straziante che si prolungò per diversi secondi, come l’eco del rintocco di una campana, con lo sguardo fisso verso le cime degli alberi; imponenti tronchi di rovere e farnia lo sovrastavano, perdendosi tra la fitta vegetazione delle verdi chiome. Come una folata d’aria scostò le coriacee foglie e i rami più fini, un caldo raggio di luce trapelò, colorando le particelle di polvere e le spore danzanti nell’aria e creando un pittoresco insieme di immagini caleidoscopiche. Si guardò intorno portandosi dapprima una mano sul fianco dolorante e poi sulla fronte sanguinante; si accorse che le immagini che poco prima stavano tormentando la sua mente erano svanite, sostituite da una realtà che da lì a poco si sarebbe dimostrata ben più macabra. Si tolse una foglia bagnata cadutagli sulla fronte, quindi strizzò le palpebre, aprì la bocca ed inspirò profondamente cercando di dilatare il più possibile i polmoni, nonostante l’odore asfittico del muschio e del suolo umido. Tentò a fatica di rimettersi in piedi, nonostante il persistente dolore che gli martellava le tempie, tendendo fino allo spasimo tutte le fibre muscolari. Cercò di fissare il piede nel terreno, facendovi leva, mentre con una mano si appoggiò al tronco di un ornello; con l’altra mano sempre sul fianco e con un principio di crampo ad un polpaccio, riuscì a rimettersi in piedi, sia pur incurvato sul fianco dolorante. Lì, rimase per qualche secondo con le spalle appoggiate al tronco, con il sangue che gli fluiva sulla tempia.

    Il senso di frustrazione era devastante, reso scialbo solo dal senso di impotenza. Abiette percezioni spiravano attorno a lui in un devastante gorgo animato da inique forze che contrastavano le naturali leggi padroni di un mondo sempre più lontano dalla realtà. Si guardò attorno, forse per riabbracciare quel senso di tangibilità in ciò che era a lui comune, una vita frutto di concretezze e razionalità. In un primo momento la coltre generata dai vapori dell’ignoto gli offuscò la vista; ma da quella bruna grigiastra si levarono presto delle faville di comprensione, animate dallo spirito della conoscenza. Il tronco screziato di un grosso olmo, poi una schiera di cespugli di mirti, e ancora il tappeto di felci e le infinità di rami che pencolavano dall’alto. La natura, in tutta la sua maestosità, risvegliò in Andrel quel principio di materialità che sistema l’intelletto umano in una posizione di assoluta padronanza di sé.

    Si accasciò leggermente per raccogliere la balestra capitombolata a terra, cercando di non sforzare la costola dolente. La afferrò con decisione e in quella stretta vi cementò un interiore corazza protettiva. Ora che era fermo, ancora appoggiato all’albero, si rese conto di quanto diverso era il mondo in quella nuova prospettiva, un paesaggio immobile non più solcato dai flussi della concitazione. Per un momento, labile e volatile come uno sbuffo di vento, lo scompiglio e il fermento erano stati abbattuti dalla quiete che solo un ambiente perennemente placido può dare. Ma per quanto un castello di sabbia venga eretto con cura e pazienza, sono sufficienti gli spruzzi di un’onda per lederne i contorni e l’onda stessa per travolgerne l’esistenza. Suoni raccapriccianti, urla e lamenti, si mescolarono in una macabra scena assieme alla visione del sangue che ghirlandava la vegetazione. Fu la fine della tregua dei sensi e il principio di quanto più immondo e impuro ci possa essere per la mente. La realtà aveva mostrato le difformità dei suoi due volti ed ora era il lato oscuro e spietato di essa a manifestarsi in tutta la sua crudeltà.

    Incurante dello strepito che gli tamburellava nella testa e del dolore al fianco, Andrel si lanciò in una corsa disperata. La paura era tornata ad attanagliarlo in ogni microscopica parte del suo corpo, mentre la sua mente precipitava in un turbolento groviglio di orrore ed irrazionalità. Impacciato nei movimenti, cercò ugualmente di scalzare con gli arti ogni ostacolo che si frapponeva tra sÈ e la sua salvezza; rami, rovi, tronchi, liane e radici dissotterrate venivano spazzate sotto l’impeto dei calci e dei pugni che Andrel sferrava. Alcuni fusti spinosi di smilace gli si aggrovigliarono attorno ad un braccio, ma furono sradicati e tranciati con un sol colpo in avanti del braccio, sdrucendo la manica della divisa e recidendo la pelle sottostante.

    Con il respiro che si faceva sempre più pesante e il cuore che martellava sempre più irruentemente sulle coste, avvertì dei rumori provenire davanti e a fianco a lui; non era solo. Poi vide i suoi compagni di armata che, come lui, correvano a perdifiato senza voltarsi e con un solo scopo: fuggire. Riconobbe nei loro sguardi terrorizzati e nei loro movimenti irregolari gli stessi sentimenti di terrore che oliavano gli ingranaggi del suo stato d’animo; sguardi confusi persi nel vuoto, privi di ogni emozione e turbati dall’irrazionalità, divaganti con la mente ed il corpo in un surreale vortice a più dimensioni; i movimenti convulsi delle braccia e delle gambe palesavano lo stato di incoscienza, come anguille impazzite sottratte all’acqua. Quella masnada di uomini si affannò per eseguire la volontà della paura, cercando di evadere da uno stato di prigionia interiore che feriva ogni loro emozione. Solo l’indescrivibile poteva essere concepito in quel quadro di terrore ed ogni ragionevole sensazione veniva trasformata in una sensazione inspiegabile che ti afferrava gradualmente, facendo diventare l’immaginazione pura follia. Il male era ovunque, ma lì dove risiede il principio di ogni cosa questo trova la sua massima forza; una sorgente innominabile da cui i flussi di tali maligne forze vanno attingendo tutto il loro essere, flussi che si allontanano, che si espandono, che si assottigliano fino a diventare quasi impercettibili, ma sufficienti per sondare nei rifugi più remoti dell’animo umano alla ricerca di brecce in cui penetrare e infettare il proprio veleno. Ovunque, l’opera della morte era visibile: zolle sollevate, rami spezzati, frasche schiacciate; un sottobosco che si era modellato nel lento ciclo di vita della flora e che ora veniva molestato da qualcosa di innaturale. Eppure in quel momento la natura sembrava non arrecare offesa da quel danno ricevuto, offrendo vie di fuga dove poter marchiare per pochi secondi l’emblema della libertà. Era una corsa contro il tempo, una corsa contro qualcosa di sovrannaturale che incombeva sinistro in quel muro di fogliame che li circondava. Andrel intravvide sulla sua destra due uomini destreggiarsi tra una macchia ricoperta di spinosi cespugli e un canale dall’insidioso declivio, sulla sua sinistra un altro gruppetto di uomini stava cercando di difendersi dalle oscurità generate da un folto intreccio di rami di carpini con quelli di querce, tanto da nascondere la volta celeste. Più avanti si scorgevano altri uomini trafitti da sporadici guizzi di luce che riuscivano a penetrare la frangia degli alberi, oltre cui svettava l’infinito santuario del cielo; come lembi di questo occhieggiavano attraverso le verdi fronde, il grigio dei tronchi degli olmi virava all’argento. Una babele di stati confusionali pervadeva la coscienza di quei forestieri, come se il mondo stesse repentinamente cambiando sotto i loro piedi; tuttavia il paesaggio sembrava non cambiasse mai, pervaso da una fallace staticità che andava persino trasportando lontano le note del vento, come se a questo non fosse permesso l’accesso. Ed infatti, un sobrio profumo permeava ovunque, senza che alcun elemento naturale potesse agirvi con la sua azione modellante. Improvvisamente stille dorate costellarono il bosco; Andrel per pochi secondi si immerse in un mondo fatto di immagini confuse per poi capire che si trattava solamente di un’illusione. Erano entrati in una selva di conifere e quei pochi sprazzi di luce che gocciolava dai rugosi rami dei pini e cipressi andavano a baciare le perle di resina che questi immensi alberi piangevano dai tronchi. Quelle che in un lontano futuro sarebbero divenute gemme di ambra, sembravano assorbire velocemente l’essenza della luce, racchiuderla in un amorevole abbraccio nel suo bozzolo appiccicoso per poi esalarne molto lentamente il dolce respiro fatto di bagliore e balenii. Il suolo si ricoprì presto di un flavo tappeto di aghi di pino e il sottobosco si riempì del loro scricchiolio. Ma il bosco di Lorgul era come un grosso essere vivente che si lasciava cullare da secoli in un imperituro sonno e il suo riposo non si lasciò disturbare neppure da quel tramestio crepitante.

    Il fogliame proliferava ovunque, indistinto, ed ogni punto di riferimento diventava vano, continuamente mutevole. Andrel si girò ripetutamente come a voler scacciare i pensieri disordinati che gli si affastellavano nella testa. Svicolò repentinamente a sinistra, costeggiando un gruppo di vecchi monconi di tronchi anneriti probabilmente da un fulmine, poi si ributtò a capofitto nella direzione che ormai stava seguendo da diverse miglia, controcorrente al libeccio. Solo un pensiero dominava assillante, quello di trovare un rapido riparo, un pertugio dove potervi covare uno spiraglio di libertà; ma in quell’infinito dispiegamento di vegetazione ogni intenzione andava perdendosi assieme all’orientamento. Tutto si assomigliava. Nulla si discerneva. La penombra scalfì la luce, la luce graffiò la penombra.

    Il fuoco del terrore iniziò a ledere le membra di quegli uomini che accoglievano ogni attimo come una possibile ed imminente fine dell’esistenza; il fumo che tali fiamme generavano andava ad accecare la percezione che loro avevano del mondo esterno che li circondava. In quella sfera di fatica e orrore ogni cosa appariva sbiadito o deformato; le lamine fogliari degli alberi divennero all’occhio umano poco più che confuse macchie verdastre che apparivano alla stessa velocità con cui sparivano, con le fronde che si districavano tra le ombre del sottobosco e i sporadici, ma intensi, raggi di luce che vi trapelavano. Ovunque le oscurità gettavano un algido manto lacerato dalle ragnatele di luce che s’intrecciavano. Sembrava di calpestare un campo di perdizione su cui rifulgevano oasi di discernimento.

    Poi qualcosa cambiò; ogni rumore, sterpi secchi che si spezzavano, il timido stormire del vento tra le fronde, il ronzio impaurito degli insetti, sembrava svanire lasciando al solitario silenzio solo un unico compagno, il respiro affannoso degli uomini. Quel suono iniziò a pizzicare di continuo l’udito di Andrel. Cercò più volte di scuotersi dalla testa quel fastidioso rumore, come se in esso si andava materializzando ogni loro stato d’animo. E ciò che si materializzò fece rabbrividire Andrel. Di fatto, era come vedere se stesso riflesso in uno specchio. Leggeva nei volti dei suoi compagni d’armata quell’irrefrenabile desiderio di scappare dal bosco di Lorgul e dalle minacce insite in esso, quello stesso stato di paura che stava invadendo, ormai da diversi minuti, il suo corpo e il suo animo. Tentò di focalizzare la sua attenzione su un tracciato da seguire, sugli alberi, sul dolore che pervadeva le sue membra, ma nulla di ciò riuscì a distoglierlo da quel rumore che ledeva il suo orecchio. Il dolore dei suoi amici, incarnato in quel tremebondo rumore, lo molestò fino a diventare insopportabile. Le note di quell’affanno gli giungevano da ovunque, come tanti dardi acuminati scagliati per ferirlo più nell’animo che nella carne.

    In quel velo di confusione stesosi come un sudario sui loro corpi, il suo subconscio fu richiamato da un labile bisbiglio che si insinuò con insistenza tra i meandri della sua mente, punzecchiando la sua autocoscienza; fu come risvegliato da uno stato catatonico verso il quale stava inesorabilmente sprofondando. Erano poco più di deboli voci straziate che cercavano di distoglierlo dalla sua corsa, diventata ormai irregolare per via delle innumerevoli ferite sul corpo e per gli ostacoli che continuamente gli si paravano davanti. Si voltò a sinistra, dove giungevano quegli strani lamenti, ma vide solo vecchi alberi in mezzo ai quali si allungavano volute di nebbia che si andavano ad intrecciare come le dita nodose di una mano; poi, pochi metri più avanti, in prossimità di una piccola radura, la nebbia si diradò, lasciando scorgere uno squarcio di terreno attraversato da laminari raggi di luce che si andavano a conficcare diagonalmente nel suolo, come spade appena estratte dalla forgia. Tutt’attorno, soffusi baluginii giungevano dall’impercettibile movimento delle particelle di polvere che veleggiavano costantemente sopra il suolo, senza mai toccarne la superficie. Non si trattava di una visione, per quanto questa ne rasentasse l’immagine, ma di quel lato nascosto dell’esistenza incustodito in quanto intangibile, vergine da ogni difetto in quanto inviolabile. Foglie e fronde si muovevano in uno stato di grazia, libero da ogni principio, non prigioniero dalle circostanze o condizionate da leggi fatte di numeri e calcoli. Sembrava di assistere ad una vita indipendente, eterna, dove persino il tempo sembrava esserne prigioniero, un corpo a sé distaccato dal mondo che lo circondava. Era l’altra faccia del bosco, quella fatta di luce, di vita, di resistenza. Ogni ramo con le sue foglie era una corona di vittoria sul regno di oscurità che la circondava. Ma per quanto una corona potesse splendere, la sua immortalità dipendeva dal valore di chi si poneva sul trono della vita, suffragando la sua lotta contro l’incombente buio. Lo scranno era fatto di speranza e la spada conficcata alla sua base era la salvezza; la sola mano che avrebbe potuto estrarre quella spada era quella dell’uomo. La stessa che nel passato si era macchiata di sangue, la stessa che nel presente andava bagnandosi del sudore della diffidenza per poi affondare nell’imminente futuro verso l’insicurezza di una presa sull’elsa della vita. Il terreno cedeva sotto il passo confuso dell’uomo e le ombre andavano a confluire nelle sue cavità, diventando pozzanghere di perdizione, trappole di morte.

    Fu un labile momento di vita che risvegliò in Andrel la debole stilla della speranza. Poi, questo svanì e le tenebre tornarono a incombere.

    Il bosco li opprimeva, ciò che vi regnava dentro li terrorizzava.

    La paura serrò Andrel stretto nella sua morsa. Un ramo gli frusciò sulla fronte e lui sussultò, come ridestato da un incubo; le volute di nebbia avevano ripreso a distendersi in alto come tanti argentini crotali e tutto sembrò svanire assieme ai ricordi. Superò gli ostacoli più velocemente che poteva, con i piedi intorpiditi ed il terreno sempre più pesante. Non avrebbe saputo dire se la fuga avesse avuto inizio pochi minuti prima o parecchie ore addietro; il tempo si era congelato. Come quel breve momento di oblio silenzioso si sciolse, l’udito di Andrel non fu più sconquassato da quel dilaniante respiro affannoso che esternava il dolore dei suoi compagni, bensì da qualcosa di più terribile; l’aria venne graffiata da note di dolore che resero l’ultimo lembo di speranza ciò che di più effimero può esistere. Dal sottobosco giungevano urla strazianti di disperazione e di paura e ivi una furente battaglia per la sopravvivenza si stava combattendo. Quegli uomini vennero rovesciati in una dimensione in cui ciò che era logico divenne assurdo.

    Le ombre delle folte chiome degli alberi rendevano più cupo il sottobosco, mascherando insidie e pericoli. Una leggera brezza gelida si alzò, smuovendo le foglie e i ramoscelli più sottili; ne filtrò qualche sporadico chiarore di sole che andò a tracciare un complesso disegno in chiaroscuro sul terreno. Questo, che poco prima era fradicio e costellato di pozzanghere saltuarie, ora si faceva sensibilmente più duro e compatto, mentre l’aria diventava sempre più respirabile, nonostante il crescente odore di sangue frammisto a quello di legno marcio.

    Andrel vide i suoi compagni oppressi, sperduti, eppure c’era qualcosa in loro che lo destava dalle sue più orribili preoccupazioni. Prese ad osservarli, a scrutarli nei loro movimenti, nei loro gesti, fino a scendere nel più profondo dei loro animi. Esplorò nelle loro più intime paure, scandagliò in quegli sguardi disorientati, cercò qualcosa nei loro sentimenti che potesse redimerlo da ogni turbamento; lesse nel respiro che emettevano la volontà di assaporare il dolce tepore scoccato dal bacio di un’alba ancora, l’abbraccio colorato teso da un ultimo tramonto, il desiderio di esalare un ultimo sospiro, e quando un aureo nastro di luce trapassò le folte fronde e si elevò, adagiato, sulle loro teste ad Andrel sembrò come di vederli sollevare all’unisono i calici dorati della salvezza verso un mondo libero dalla paura. Fu allora che capì. Ciò che si rifletteva nei suoi occhi non erano semplici uomini impauriti e smarriti la cui vita stava per essere spezzata, ma persone in esilio da ogni forma di peccato; in loro non v’era traccia di vizi immorali perché una corazza di purezza li aiutava a difendersi da quelle infide ombre rese ancor più tenebrose dai falsi principi di cui si nutrivano. Ogni empia tentazione aveva trovato in quegli uomini un baluardo insormontabile. Ora Andrel non sentiva più quell’affannoso respiro, ingannevole voce della paura e della morte, ma il battito del cuore che giungeva da ognuno di loro; era un suono puro, distillato da un’essenza incontaminata da ogni forma di colpa e falsità. Le ombre si avviluppavano attorno a quei corpi sviliti, forti dei loro poteri imperituri di rendere malata la carne, ma dinanzi a degli animi così sani le braccia del Male tremavano. Andrel rallentò la corsa. No, non v’era peccato in quegli uomini. Non c’era vergogna in quegli sguardi, non v’era debolezza nelle loro espressioni, mai l’ignominia li aveva sfiorati. Il passo di Andrel si fece lento. No, non v’era peccato in quegli uomini. Li vide correre, allontanarsi sempre più sospinti dal soffio generato dallo sventolio del vessillo del Bene. Aveva finalmente realizzato quale era il suo scopo, il messaggio del disegno della vita che lo accompagnava; sapeva come appagare ogni forma di desiderio fino ad allora sconosciuto. Un intera vita alla ricerca della chiave che apre ogni porta alla redenzione, ad ogni purezza interiore. La sua corsa era finita, il suo destino stava per compiersi. Un minuto, ancora un secondo, un solo attimo per inebriarsi del candido abbraccio offerto dalla luce e per dissetarsi con il nettare d’oro di cui questa è fatta; ciò era quanto Andrel voleva offrire ai suoi compagni, ai suoi amici, ai suoi fratelli. Lasciò che le sue palpebre scivolassero portando un buio che presto si tramutò in ricordi.

    Rammentò il giorno in cui gli fu assegnato l’incarico di comandare La Settima Divisione in una spedizione nelle Sacre Terre. Aveva fino ad allora combattuto in diverse guerriglie contro la Resistenza, guidato truppe fin quasi alle Terre Desolate e prestato più volte servigi all’Impero. Lui era un combattente, non un Ricercatore, eppure fu scelto; La Settima Divisione era un reparto particolare delle Armate Imperiali con lo scopo di ricercare testimonianze de La Sacra Leggenda. In passato fu attivata solo una volta, una spedizione organizzata con l’obiettivo di studiare Le Terre Sacre e per dare delle risposte agli enigmi non decifrati scritti nei Sacri Testi; solo pochi superstiti riuscirono a tornare per raccontare ciò che avevano visto. Ora, per la seconda volta, La Settima Divisione veniva attivata per una nuova missione: ricercare una bambina.

    Le forze maligne si erano risvegliate, la Flora stava rinforzando le proprie difese; un scontro di dimensioni apocalittiche stava per avere inizio. Era l’alba di una nuova epoca e il suo esito dipendeva da una bambina.

    Era una calda mattina, con un accecante sole ancora all’orizzonte che dominava in un cielo velato da occasionali nuvole e con le ombre che iniziavano ad animarsi sul terreno; cogitabondo nei suoi pensieri Andrel, ormai prossimo alla quarantina, si trovava seduto su un masso lungo la riva di un ruscello ad ammirare gli armoniosi riflessi trotterellare sulle creste d’acqua, con gli uccelli che cinguettavano e i fili d’erba danzanti sospinti da un lieve alito di vento. Il tepore prodotto dai primi raggi di sole della giornata era gradevole, l’aria pulita e addolcita dagli odori dei fiori appena sbocciati; minuscoli insetti ronzavano sopra il pelo dell’acqua, riverberando sullo scrosciare del corso, mentre un banco di pesci fluttuava, sospinto dalle correnti, attraverso limpide acque che, in alcuni punti, erano così placide che si poteva scorgere il fondo, con i suoi ciottoli levigati. La superficie azzurrina del fiume mandava riflessi che scintillavano d’argento e d’oro e le foglie coriacee di alcuni allori circostanti luccicavano al sole. Vide una farfalla dai colori vivaci posarsi su un giglio bianco; il suo sguardo rimase fisso su di essa, ammirando la sinergia esistente tra piante e animali. La fissò con tanta attenzione da perdere la cognizione del tempo. Corrugò per un attimo la fronte, interrogandosi sul principio naturale che vedeva gli animali e le piante stretti in una simbiotica partecipazione della vita; un aggrovigliarsi di cortesie e piaceri per il benessere reciproco. Sorrise, aggrottando un sopracciglio, di fronte all’istintività primordiale di tali esseri viventi; un’istintività che aveva permesso loro di sopravvivere in armonia per millenni. Un’armonia che invece l’uomo non aveva mai raggiunto. Abbassò la testa, incassandola tra le spalle e si incupì al pensiero dell’ignoranza umana, della sua convinzione di una superiorità che nei secoli non aveva portato altro che caos e distruzione, odio e violenza. Eppure l’armonia delle cose era nella semplicità della vita, nei raggi solari che forniscono calore, nella terra che produce frutti o nelle piante che sintetizzano essenze per guarire i malanni. La pace era lì, davanti agli occhi di tutti, eppure la cecità generata dall’avidità e dalla stupidità umana non permetteva all’uomo di stendere il braccio e avvolgere nel palmo della sua mano ciò che la natura offriva.

    Adesso la natura chiamava a gran voce l’aiuto e l’intervento dell’uomo, affinché quell’equilibrio che le forze maligne stavano frantumando tornasse come quello di un tempo. Serrò le labbra, distolse lo sguardo perso nel vuoto e tornò ad osservare la farfalla, atta a nutrirsi del dolce nettare del giglio. Era giunto il momento che l’uomo intervenisse.

    La mano dell’uomo aveva piantato il seme della distruzione, da questo ne era germogliato una forza non controllata che rischiava di soggiogare il volere umano, proclamandosi despota e signore sovrano su ogni essere vivente. Con la stessa mano l’uomo ora doveva sradicarne le radici e sgrovigliare la rete di confusione che l’avvolgeva. Era giunto il tempo di strappare le catene dell’odio che tenevano l’uomo relegato in uno stato perenne di interrogativi e incomprensioni, quelle stesse catene che, anziché arrugginirsi, andavano indurendosi giorno dopo giorno.

    Andrel trasse un lungo respiro a pieni polmoni, poi esalò tutto il fiato, si stiracchiò le spalle ed il collo, quindi si alzò, si sistemò la divisa, schiaffeggiandosela per ripulirla dalla polvere e dal polline, ed alzò lo sguardo verso l’orizzonte. Il sole ardeva nel cielo, abbagliandolo; batté le palpebre e si portò una mano alla fronte per non rimanerne accecato, poi le chiuse, rimembrando il suo passato, di quando era giovane e ricco di entusiasmo. Distese i nervi e si lasciò cullare dai ricordi e dalle esperienze di qualche anno addietro. Quando era poco più che bambino, nutriva grande fiducia in se stesso ed aspirava a realizzare i suoi sogni; vedeva la realtà che lo circondava con un’ottica diversa dal comune, assaporando le bellezze della terra e desideroso di fare qualcosa di importante. Studiò con passione le scienze naturali e si dedicò al benessere del proprio spirito; ma le lancette del tempo scoccarono troppo irruentemente su di lui e gli anni che seguirono gli sciorinarono il vero volto della realtà, quello che un bambino o un ragazzo ancora immaturo non sa percepire. L’incapacità di capire e affrontare la nuova realtà parataglisi davanti e i malesseri e malumori generati di conseguenza indebolirono il suo entusiasmo fino a gettarlo in un profondo abisso di solitudine. Rintanato nel suo sconforto, iniziò a guardarsi intorno, in cerca di una risposta alle innumerevoli domande che iniziavano a tormentarlo; aveva il bisogno di dare uno scopo alla sua vita, di guardare al futuro e di raggiungere dei traguardi, sia pur insignificanti. Non voleva essere uno scheletro che cammina, come spesso gli piaceva etichettare le persone, vedendole indaffarate in faccende inutili, senza espressività e con gli occhi persi nel vuoto. Non gli andava proprio giù l’idea di diventare uno come loro, inutile ed insignificante, privo di sentimenti e logorato dalla frustrazione; si sentiva ancora animato da principi benevoli e, cosa ancora più importante, si sentiva diverso. L’arruolamento nelle Armate Imperiali gli aveva offerto la possibilità di vagare in lungo e in largo, alla ricerca di una meta che potesse dare un significato alla propria vita; non conosceva la strada che doveva percorrere per raggiungerla, ma dentro di se ne percepiva l’esistenza. Strinse forte gli occhi, stavolta desideroso di sognare un futuro diverso, plasmato dall’altruismo e dall’amore per il prossimo.

    Quando li riaprì, la consapevolezza che quel sogno potesse divenire realtà lo spinse definitivamente a prendere una decisione.

    Adesso, come allora, i suoi occhi si aprirono ma stavolta era la realtà ad essersi plasmato in sogno; la luce che rispecchiò sulle sue papille portò le agognate risposte a quelle domande che tanto lo avevano tormentato. Era come se le lancette del tempo avessero girato molto rapidamente in senso inverso, andando a ricreare la visione del mondo, i pensieri e le aspettative di quel bambino che un tempo fu. Anche adesso, come allora, qualcosa di molto potente insito nel suo animo lo portò a prendere una decisione.

    Portò per l’ultima volta il suo sguardo verso i suoi amici, ormai quasi del tutto nascosti dalla vegetazione; un labile sorriso di Andrel accompagnò la loro fuga. Poi lentamente sparirono, uno dopo l’altro, fagocitati dalle penombre del bosco di Lorgul. Quel lieve sorriso in cui era incarnato quel senso di appagamento da una vita pregna di aspettative e desideri si sciolse come neve sulle fiamme ed ora solo il fuoco della frustrazione andò a plasmare i duri lineamenti di Andrel. Sospirò e subito una vampata di calore prese a bruciargli sotto lo sterno; vi ci portò una mano, come se quel gesto potesse in qualche modo attenuare la sua sofferenza, ma nulla cambiò. La mano lentamente scivolò lungo il fianco fino ad incontrare la mazza d’arme; la estrasse dalla cinghia di cuoio e prese a stringerla così forte che le nocche della mano gli divennero bianche. Non la impugnò per difendersi, né tanto meno per aiutare i suoi compagni, cosa che in quelle circostanze non avrebbe mai potuto fare; lo fece perché quel senso di giustizia potesse scorrere nelle sue vene per un’ultima volta. Poi si voltò e nulla fu come prima.

    Perse un colpo al cuore, mentre il respiro gli si smorzò in gola; era come se gli artigli della morte gli si fossero affondati nel petto. Fu sul puntò di urlare, ma esitò come a voler combattere quello stato di paura che lo stava penetrando. Sugli occhi di Andrel stava lentamente scivolando un plumbeo sudario. Gli alberi, gli arbusti e le piante che rendevano il sottobosco il tema prevaricante di quel luogo ora avevano smesso di assoggettare chi vi ci vagabondava ed ogni senso assopito dal canto invisibile della flora e della fauna veniva ora catturato e schiavizzato da un’entità estranea, capace di invadere una realtà ad essa assai lontana. La spaventosa apparizione del Morfloc invase e dilatò lo sguardo di Andrel e si radicò nelle sue vene. La creatura torreggiava tra le secolari querce, oscurata dalle ombre proiettate dalle maestose chiome degli alberi e a suo tempo ombreggiando con la sua tenebrosa massa le scure cortecce dei tronchi. Quanto c’era di più sbagliato in questa realtà non poteva uguagliare ciò che gli errori di altre dimensioni avevano partorito. Con un logoro e bigio cappuccio spinto fin oltre quella che poteva essere la fronte, il Morfloc arrestò il suo irruento inseguimento e prese a stazionare sotto un imponente intreccio di fronde intento a studiare la preda che gli si era parata dinanzi, inerme e immobile. Il terrore prese ad annebbiare la mente di Andrel, dilaniato dalla consapevolezza dell’impotenza che lo armava, un armatura che resisteva solo perché ingannata da quella perenne labile luce che si chiama speranza. Quella luce andava ora inesorabilmente spegnendosi. L’enorme sagoma nera si staccò dalle ombre degli alberi e riprese lentamente ad avanzare, un’ombra senziente tra esanime ombre. Ad ogni passo andava allargandosi come una macchia d’inchiostro su una ruvida pergamena; era di un nero così profondo ed intenso da assorbire tutte le altre ombre del sottobosco. Avvolto da un mantello a brandelli di eccessive dimensioni, tali da nascondere mani e piedi, e con un cappuccio a coprire il capo, l’essere arrestò il suo avanzare, sedando per un momento la sua bramosia di sangue e di morte; sollevò il capo, fino ad allora leggermente chino, mostrando nel vuoto più assoluto celato tra le trame del cappuccio solo due occhi di un giallo intenso, minacciosi e pregni di odio e malvagità.

    Tra Andrel e il

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