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Non esisterà più il tempo: Eternità e trama nell’arte del racconto
Non esisterà più il tempo: Eternità e trama nell’arte del racconto
Non esisterà più il tempo: Eternità e trama nell’arte del racconto
E-book325 pagine5 ore

Non esisterà più il tempo: Eternità e trama nell’arte del racconto

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L’oggetto di questo studio è la forma narrativa che l’intuizione dell’infinito ha assunto in letteratura. Trama ed eternità sono, a prima vista, incompatibili. La prima organizza gli eventi in successioni temporali e causali di inizio, svolgimento e fine, causa ed effetto, mentre la seconda è l’esatta negazione di un ordine di questo tipo: essa è la percezione della pura durata di Henri Bergson, di un tempo che riposa per sempre oltre qualsiasi distinzione tra passato, presente e futuro.
Allora, com’è possibile rappresentare, attraverso l’intreccio narrativo, quelle epifanie dell’infinito che sono state, sin dalle origini, materia più per i poeti che per gli affabulatori? L’indagine parte dal mito classico, passa per la novella medievale, tocca la stagione del grande romanzo realista dell’Ottocento e si conclude con il modernismo «avant la lettre» di Marcel Proust. Al centro di ogni capitolo vi sono quegli episodi in cui l’eroe della trama sente il suo Io affrancarsi dal fluire quotidiano del tempo, dal tick tock dell’orologio, e finalmente vivere in sintonia con realtà extra-temporali che danno l’illusione di aver risolto il problema della mortalità. Alcune novelle dell’ultima giornata del «Decameron» – quella di Natan e Mitridanes e quelle in cui compare il personaggio del negromante – testimoniano dell’influenza che l’astrologia e l’astronomia arabe ebbero sul sentimento e sull’intuizione del tempo nell’Occidente cristiano. Il principe Myškin nell’Idiota di Dostoevskij vive, durante gli ultimi minuti che precedono un attacco epilettico, un’esperienza di «fusione con la sintesi suprema della vita», grazie alla quale può intuire il profondo significato delle parole dell’angelo forte che, nell’«Apocalisse» di Giovanni, annunciano la seconda venuta di Cristo: «non esisterà più il tempo». Sono i miracoli della memoria involontaria – come nel caso della celebre madeleine – a trasportare Marcel in un tempo per il quale il passato è, di nuovo,  presente. Siamo, però, alla fine della «Recherche» e il narratore deve constatare, con terrore, il legame necessario con la propria finitudine: nonostante il ricordo permetta di sentirsi eterni, si invecchia e si deve pur morire. Come sa bene Shaharazâd nella cornice delle «Mille e una notte», la via migliore per ritardare l’istante della morte è stordire il nemico con la suspense del racconto, farlo perdere, e perdersi con lui, nei meandri di trame che, come in un labirinto, continuano a condurre ad altre trame secondo il ritmo di una narrazione senza fine. Se la vita è rapida, raccontare storie può, se non altro, rallentarla.
LinguaItaliano
Data di uscita2 dic 2020
ISBN9788838250415
Non esisterà più il tempo: Eternità e trama nell’arte del racconto

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    Non esisterà più il tempo - Riccardo Antonangeli

    Riccardo Antonangeli

    Non esisterà più il tempo

    Eternità e trama nell’arte del racconto

    Tutti i volumi pubblicati nelle collane dell’editrice Studium Cultura ed Universale sono sottoposti a doppio referaggio cieco. La documentazione resta agli atti. Per consulenze specifiche, ci si avvale anche di professori esterni al Comitato scientifico, consultabile all’indirizzo web http://www.edizionistudium.it/content/comitato-scientifico-0.

    Copyright © 2020 by Edizioni Studium - Roma

    ISSN della collana Cultura 2612-2774

    ISBN 978-88-382-5041-5

    www.edizionistudium.it

    ISBN: 9788838250415

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    Introduzione

    I. L’intuizione del tempo al crocevia tra Oriente e Occidente nelle raccolte di racconti medievali

    1. Tempo dei negromanti e tempo cristiano nell’ultima giornata del Decameron

    2. La cornice narrativa che insegna e rinvia la morte

    II. Memoria e profezia da Dostoevskij a Proust

    1. Gli occhi di Rogožin nell’Idiota

    2. La narrazione di realtà extra-temporali nell’Apocalisse di Giovanni

    3. Le Temps retrouvé e la sveltezza di Myškin, Aladino e Ali Baba

    Indice dei nomi

    Cultura Studium

    Introduzione

    MELEAGRO E L'OROSCOPO DEL CONDANNATO A MORTE

    Il mito di Meleagro è la storia più triste che sia mai stata raccontata? L’eroe che sconfigge il cinghiale Calidonio ha un destino particolarmente malinconico soprattutto per due motivi. Primo, perché è la madre, Altea, che lo uccide. Secondo, poiché muore giovane, al culmine della gloria. Dopo aver sconfitto la bestia invincibile mandata in terra da Artemide per vendicarsi di Eneo, il quale si era dimenticato di offrire primizie in omaggio anche a lei, Meleagro spazza via pure la schiera degli invidiosi che avevano provato a impadronirsi della preziosa pelle dell’animale. Tuttavia, nella foga dello scontro, ignaro, la sua lama ferisce a morte anche gli zii materni. Non fa in tempo a esultare per la doppia vittoria che, sente, d’un lampo, la vita affievolirsi misteriosamente dentro di sé finché, piano piano, non capisce di stare per morire. Meleagro non può saperlo, ma la madre, venuta a conoscenza che il figlio aveva ucciso in battaglia i fratelli, si era ricordata improvvisamente della maledizione ordita alla sua nascita dalle Parche: la vita di Meleagro sarebbe durata lo stesso tempo che un tizzone ardente avrebbe impiegato a estinguersi in cenere. Allora, la personalità divisa tra amore filiale e dovere verso i fratelli, Altea sceglie, sorprendentemente, quest’ultimi. Va, come una furia, a cercare il ramo – che aveva custodito in uno scrigno istoriato e tenuto nascosto nel più recondito dei meandri della casa affinché nessuno lo bruciasse – e lo getta tra le fiamme, non senza aver prima, tragicamente, esitato. Meleagro, così, muore, mentre la madre non resiste al dolore di aver ucciso la carne della sua carne e si trafigge il petto.

    Il racconto della morte di Meleagro è narrato da Eschilo nelle Coefore (604-611), da Bacchilide nell’ Epinicio 5 (127-154), da Igino nelle Fabulae e da Ovidio nelle Metamorfosi (8, 430-546). Ciascun autore presenta gli eventi da una prospettiva diversa, dando, così, risalto e voce a vari aspetti della vicenda. Da una versione all’altra l’invenzione si migliora [1] , ma sempre costante rimane lo spazio centrale che tempo e durata hanno nella storia. Il tizzone è metafora per la vita intesa come il consumarsi inesorabile di una riserva, ben finita, di combustibile. Meleagro, poi, non sa perché sta morendo, ma, capisce, con lucidità, che l’istante della morte è ormai vicino, nonostante la sua giovinezza. Egli ha il tempo, pertanto, di riflettere sulla propria fine finché la fiamma vive. Nonostante siano lontani nello spazio, legno e Meleagro condividono un’uguale temporalità e il loro morire è simultaneo. Tutto il mito tende al racconto, impossibile, dell’istante fatale di cui nessuno può prevedere il momento esatto, né, tantomeno, ricordarsi delle circostanze e, quindi, narrarle. Meleagro, dunque, vive solo perché se ne possa raccontare la morte così intricata e triste. Questo mito è punto di partenza ideale per iniziare l’indagine intrapresa da questo libro sui rapporti che legano trama, tempo e morte in un destino comune, osservato nei suoi punti di svolta e transizione nel Medioevo, tra il XII e XIV secolo, alle origini della narrativa occidentale, e nella stagione d’oro del grande romanzo europeo: l’Ottocento.

    Se nelle Coefore la storia è cantata dal coro a partire dalla figura di Altea, come l’ennesimo esempio di donna incapace di porre freno alle passioni più sregolate, in Bacchilide è lo stesso eroe a narrare, in prima persona, della sua morte. Nel primo caso, Eschilo si limitava a dire il tizzone «coetaneo» [2] di Meleagro, sottolineando l’uguale misura súmmetrón») tra le due vite, considerate, quindi, come estensione, mentre nell’epinicio il punto di vista tutto interno all’Io provoca una sostanziale dilatazione del tempo simultaneo della morte. Si passa, dal considerare il tempo come spazio, all’evidenziare la sua rapidità okúmoron») , la brevità, insomma, della vita, rispecchiata, in nuce, da un altrettanto veloce morte:

    A ciò non prestò considerazione

    la valorosa figlia di Testio,

    mia madre, sciagurata, e da donna che non cede

    all’esitazione ordì la mia morte.

    Dal baule istoriato trasse

    il tizzone che rapida

    procura la morte e lo bruciò: la Moira

    aveva decretato che quello sarebbe stato

    il termine della nostra vita. Io mi trovavo

    a spogliare delle armi

    il valoroso Climeno, figlio di Deipilo,

    dal corpo senza difetto

    – Lo avevo sorpreso dinanzi alle torri –,

    gli altri fuggivano in direzione

    dell’antica, ben costruita città

    di Pleurone. Si fiaccò la dolce vita,

    e sentii venir meno le forze,

    ahimé. Nell’esalare l’ultimo respiro piansi, infelice,

    poiché lasciavo dietro di me la splendente giovinezza [3] .

    Il pathos della scena raggiunge il suo apice nel riferimento alla giovinezza perduta, quando Meleagro usa l’attimo dell’ultimo respiro per voltarsi indietro a considerare il passato, ed è cosciente della profonda ingiustizia che il tempo della sua fine sia giunto troppo presto. Sembra quasi sentirlo sospirare tutto scorato: si jeunesse savait! L’eroe racconta la fine retrospettivamente, dal punto di vista trascendente degli Inferi. È qui, dopo i fatti, che Eracle l’ha incontrato e interrogato, subito, su come sia stato possibile che egli sia morto così giovane, quando ancora adesso, nell’oltretomba, appare come un virgulto nel pieno delle forze e degli anni. La sua narrazione s’arricchisce, dunque, dello strazio di sapere che sua madre è stata la sua aguzzina, in collaborazione, certo, con la volontà degli dei. Un dolore talmente grande che dura, quindi, anche oltre la morte, tanto da commuovere a pietà persino Eracle, guerriero che, altrimenti, «non teme grido di guerra» [4] . Nonostante la prospettiva della fine permetta a Meleagro di ordinare gli eventi della sua trascorsa esistenza secondo una precisa successione di causa ed effetto, sopravvive, nel racconto, ancora la traccia, tenue, di un punto di vista immerso negli eventi. Parlo della sorpresa provata nel morire non per mano di un nemico visibile, ma, all’improvviso, a causa di una forza a lui interna e inconoscibile. Lo stupore è reso, nel testo, tramite la messa in risalto della simultaneità tra un’azione esteriore e la percezione tutta interna allo spirito che la forza vitale lo sta per abbandonare: la vita comincia a fiaccarsi proprio lì, a quell’ora, nello stesso istante in cui egli si era messo a spogliare delle armi il «valoroso Climeno».

    Nel libro centrale delle Metamorfosi, Ovidio amplia ancora la leggenda e ne altera la sequenzialità. Il vaticinio-maleficio delle Parche è ricordato – anzi riportato esattamente com’era stato pronunciato dalle tessitrici del fato con un flashback dentro al flashback – solo dopo che se ne rammenta la madre, Altea, e Meleagro ha già fatto fuori cinghiale e zii. « Tempora » [5] è la parola che, di fatto, sancisce l’inizio del racconto della sofferta decisione di Altea e, quindi, anche delle riflessioni di Meleagro in punto di morte. Tizzone e vita hanno, finalmente, una stessa, non estensione, non velocità, ma durata che comincia non appena le Parche proferiscono la sentenza che condanna a morte l’eroe. Ovidio, si concentra, così, sul ritmo alterno, sincopato delle fluttuazioni dell’animo della madre, dilaniata dal dilemma: «cupio et nequeo» [6] , voglio e non voglio. «Quattro volte » [7] fa per gettare il ramo e quattro volte ritrae la mano, «più volte» [8] si pente del «delitto imminente » [9] che vorrebbe compieree più volte gli s’infuocano gli occhi dell’ira della vendetta, mentre il suo volto «ora» [10] è minaccioso, ora sembra mostrare compassione. Prima che il legno cada nel fuoco, Ovidio guida il lettore nello spirito di una madre che non sa se uccidere il figlio oppure disonorare la memoria e il sangue dei fratelli. Il lettore s’immerge, così, nella durata interiore di una decisione estrema, nella lacerazione spirituale di un personaggio, intesa e narrata come un divenire. Rapida, questa corrente emotiva ci conduce a ciò che nel frattempo accade, simultaneamente, nel corpo e nell’anima del figlio:

    Con mano tremante, girandosi altrove,

    gettò il tizzone di morte in mezzo al fuoco.

    Il legno emise un gemito, o sembrò farlo,

    e subito avvolto nelle fiamme, pur riluttanti, tutto bruciò.

    Ignaro, lontano da quelle fiamme, Meleagro

    tuttavia ne arde, da un fuoco misterioso sente le viscere

    bruciare, con coraggio sopporta il lancinante dolore.

    Di cadere d’una morte vigliacca e senza versare una goccia di sangue

    molto si duole e dice fortunate le ferite di Anceo,

    e invoca, con le ultime parole, il vecchio padre, i fratelli, le pie sorelle, la sposa e, forse, persino la madre. Crescono il fuoco e il dolore,

    poi decrescono insieme: insieme muoiono entrambi.

    Lo spirito vitale si disperde pian piano per l’aria lieve,

    pian piano la cenere imbianca velando la brace [11] .

    In Bacchilide la vita, come le fiamme, si «fiaccava», mentre ora più che uno spegnersi progressivo e del fuoco e dello spirito vitale, Ovidio racconta una passione, quella della madre, e un sentimento di morte, quello del figlio, che procedono entrambi per sussulti, e solo dopo le sistole e diastole dell’anima, dopo una certa durata, finiscono. Autore, madre e lettore sanno del tizzone, mentre Meleagro è subito detto « inscius » [12] e « absens » [13] , ignaro e lontano dal fuoco. Sopporta, dunque, tutto un dolore fisico piuttosto che spirituale. Non c’è il rimpianto per la giovinezza perduta ma solo, da vero guerriero, l’invidia per chi è potuto andarsene di morte violenta, per chi ha avuto la possibilità di vedere il proprio sangue versato. Meleagro impiega gli ultimi istanti, oltre che per sopportare, stoicamente, il dolore, soprattutto per rivolgersi alla famiglia. In sequenza invoca: il padre, i fratelli, le sorelle, la sposa. Ovidio non esclude, alla fine, che, forse, un ultimo pensiero abbia fatto in tempo a volare anche verso la madre. « Forsitan et matrem » [14] scrive, prima che fuoco e dolore crescano, decrescano e finiscano. Cosa si cela dietro a quel forse? La madre viene menzionata in coda all’invocazione estrema perché Meleagro, nonostante la rapidità del suo consumarsi, fa comunque in tempo a legare, misteriosamente, l’uccisione degli zii alla vendetta di Altea? Ecco che il dolore di quell’ultimo pensiero sarebbe ben superiore a quello corporale descritto in precedenza e a cui è concesso più spazio testuale, e resterebbe accennato con dubbio, in coda, solo perché esso ripete, in piccolo, qualcosa che è già stato descritto nei versi dedicati al dilemma di Altea. I due movimenti interiori di madre e figlio si riflettono l’un l’altro simultaneamente, come in uno specchio temporale. Quel « crescunt » [15] e « languescuntque» [16] ripetono, nel brevissimo spazio di un verso, tutta la durata, ben maggiore, dello strazio sussultorio di Altea. Al ritmo prestissimo della passione corrisponde, paradossalmente, il pianissimo del morire. La durata simultanea dei due spiriti è, forse, velatamente, portata all’estrema conseguenza di una morte anch’essa sopraggiunta nello stesso istante. Infatti, « simul est extinctus uterque» [17] si riferisce, se interpretato alla lettera, a fuoco e dolore, ma, quell’«insieme morire entrambi» potrebbe anche alludere al fatto che Altea si uccida proprio nello stesso istante in cui s’estingue il fuoco sia del tizzone che di Meleagro. Il maleficio ha finito per fondere in sintesi vittima e carnefice.

    Nelle Fabulae di Igino il mito sarà presentato, infine, in ordine cronologico, a partire dalla nascita e dalla predizione delle Parche: «Si dice che allora nella reggia sia apparso un tizzone ardente. Giunsero colà le Parche e predissero il fato di Meleagro: sarebbe vissuto fintantoché il tizzone fosse rimasto intatto» [18] . Il mitografo latino narra i fatti in ordine logico e teleologico, in sequenza di causa-effetto, d’inizio, svolgimento e fine, ponendo la sentenza di morte delle Parche come premessa di tutta la storia, mentre Bacchilide aveva fatto parlare, a posteriori, lo stesso eroe dagli Inferi e Ovidio aveva organizzato la narrazione inserendo la profezia in mezzo agli eventi. In Igino il mito si trasforma, dunque, in intreccio, e la trama di Meleagro è, in sostanza, la durata tutta particolare del suo morire. Anche Apollodoro nella Biblioteca (I, 8, i) aveva introdotto la narrazione con questa formula: «Meleagro morì in questo modo» [19] . Tutta la storia del cinghiale e dello scontro, vittorioso ma fatale, con i figli di Testio è, pertanto, incorniciato come racconto della sua morte. La storia della sua vita si riduce, in queste cinque versioni, ad antefatto e pretesto per il racconto non semplicemente della fine, ma del suo ultimo, preciso istante, mentre, per esempio, nell’ Iliade (IX, 529-594), Meleagro non muore in scena, egli è prima di tutto eroe cheha saputo ascoltare le suppliche di chi era in pericolo e prestare, così, soccorso in battaglia agli Etoli, un esempio che Fenice narra ad Achille per convincerlo a tornare in guerra.

    Se la poesia scompagina l’ordine degli eventi e narra il mito anche dal punto di vista nel mezzo, interno allo spirito di Meleagro che, dalla sua prospettiva, non può sapere né perché muore né chi, in realtà, sia l’autore del delitto, la prosa di Igino e Apollodoro racconta le azioni come trama, seguendo la successione teleologica di inizio, svolgimento e fine. Seguendo Aristotele, costruiscono bene l’intrigo come «connessione di fatti» [20] . Così, l’immortalità condizionata dell’eroe è raccontata, nel primo caso, dal punto di vista di uno spirito che si meraviglia di morire perché credeva di essere eterno – in quanto semidio o, semplicemente, come ne è convinto chi è giovane – mentre, nel secondo caso, la prospettiva è quella trascendente di chi, dagli Inferi, è perfettamente cosciente della propria finitudine e caducità. Anzi, la mortalità è, in questo caso, addirittura premessa del racconto. Il tempo è, da una parte, sentito come durata rapida e misteriosa di una corrente spirituale, dall’altra, è percepito come exemplum leggile seguendo il filo logico che dalle cause finisce per rivelare gli effetti. Questo libro cercherà di mostrare quando il tempo della poesia, inteso come eternità, prende forma dentro la trama, nella cornice dell’altra temporalità che, dal punto di vista della morte riesce a dare un significato coerente, ma approssimativo, alla vita. Meleagro, in questi racconti, sente il tempo sia come un dio – che, nell’eternità, vede le cose simultaneamente e non teleologicamente – sia come un comune mortale che, invece, deve soccombere al fluire inesorabile del tempo di passato in presente e futuro.

    La fine illumina di senso, e chiude in una definizione, il tempo di una vita che, altrimenti, non sarebbe possibile interpretare dalla prospettiva interna agli eventi che ancora durano e, pertanto, sono ancora potenzialmente aperti a una molteplicità infinita di significati e direzioni. È la prospettiva della fine che trasforma la pura durata dell’individuo in sillogismo e biografia, dimodoché la serie di istanti eterogenei – ciascuno un frammento separato dal punto che lo precede e da quello che lo segue – muta in catena di momenti di crisi e verità, colpa e redenzione, caduta e resurrezione, svolte, agnizioni, ritorni, errore, decadenza e corruzione. Dal punto di vista dell’effetto, il narratore, a posteriori, lega gli atti a partire dal «numero del movimento secondo il prima e il poi» [21] . Il tempo, così, si spazializza e diventa più a misura d’uomo, che riesce a imbrigliarne la corsa dandogli la forma di trama narrativa:

    Let us take a very simple example, the ticking of a clock. We ask what it says: and we agree that it says tick-tock. By this fiction we humanize it, make it talk our language. Of course, it is we who provide the fictional difference between two sounds; tick is our word for a physical beginning, tock our word for an end. We say they differ. What enables them to be different is a special kind of middle. We can perceive a duration only when it is organized. [...] The interval between the two sounds, between tick and tock is now charged with significant duration. The clock’s tick-tock I take to be a model of what we call a plot, an organization that humanizes time by giving it form; and the interval between tock and tick represents purely successive, disorganized time of the sort that we need to humanize [22] .

    Senza la chiusura e finalizzazione, direbbe Bachtin, della morte non può esistere trama alcuna, poiché essa è «la sanzione di tutto ciò che il narratore può raccontare» [23] . Non la propria di morte, che rimane un istante inenarrabile il cui presente è destinato per sempre a sfuggirci, ma quella dell’ Altro da me, l’unica che possiamo inquadrare entro due orizzonti di tempo e quindi classificarne il significato, dirla felice o infelice, degna di lode o di biasimo:

    Car il y a une poétique du temps! Nous n’avons pas l’éternité devant nous. Nous ne sommes pas placés au milieu d’une durée indéfinie, plongés dans un temps inorganique et informe dont le terme serait situé à perte de vue. [...] Le temps de la vie est un temps limité auquel sa finitude même prête une organisation, une détermination, une succession de moments: le temps de la vie s’articule en laps de temps; et de même que les périodes enchainées et les épisodes successifs se limitent l’un l’autre dans le grand temps de la vie, de même ce grand temps à son tour, ce Temps de tous les temps, resserré entre naissance et mort, apparaît comme un épisode dans l’éternité du néant: les deux néants qui l’étreignent, le néant d’avant le commencement et le néant d’après la fin, font du grand temps une durée vertébrée, charpentée, structurée, où à l’infini s’articulent entre eux les petits temps segmentaires. Comme la silhouette actuelle de la personne est une sorte d’enclos découpé dans l’infini de l’espace, ainsi la vie personnelle est une carrière de quelques décennies circonscrite dans l’océan de l’éternité sans bornes. La finitude est ce qui donne une valeur au temps nu, c’est-à-dire à la chose du monde la plus impalpable et la plus neutre, à la vile durée! [24] .

    Il tempo «vertebrato», di cui l’uomo può calcolare le strutture, nega, però, qualsiasi possibilità di penetrare oltre il mistero dell’essere e di raggiungere la prescienza atemporale di un dio. Perché le verità divine sono eterne mentre l’Io è imprigionato nella caducità terrena. Trama e infinito sembrano, così, non poter coesistere. La fabula può educare e predisporre l’uomo all’informe che l’aspetta dopo la morte, ma dal momento che appare, e se ne sgomitola il filo, l’altra scompare e viceversa. Sono incompatibili come il cerchio e la linea. Il tempo è un «implicatissimum aenigma» [25] che nella sua fuga perpetua sembra eludere ogni tentativo di conoscerne l’essenza. La nostra mente, per misurare il tempo, è costretta a scomporre il divenire, altrimenti un fluire illimitato, a distendersi verso passato, presente, e futuro, quando, in realtà, essi non esistono, come racconta Sant’Agostino nel celebre libro undecimo delle Confessioni:

    Mi appresto a cantare una canzone, che conosco: prima di cominciare, la mia testa è rivolta all’intera canzone, ma dopo che ho cominciato, tutto quello che via via consegno al passato riempie la mia memoria, e dunque il corso di questa mia azione si divide distendendosi nella memoria per la parte cantata, nell’attesa per quella ancora da cantare: ma presente è l’attenzione attraverso cui ciò che era futuro passa per diventare passato. E man mano che l’azione si compie, proporzionalmente diminuisce l’attesa e cresce la memoria, finché l’intera attesa è consumata e l’intera azione, portata a termine, è passata nella memoria. E ciò che avviene per l’intera canzone avviene anche per le sue singole parti e le sue singole sillabe, e avviene anche per un’azione più lunga, di cui forse quella canzone non è che una parte, e avviene per la vita intera dell’uomo, di cui sono parti le singole azioni dell’uomo, e avviene nell’intera storia [26] .

    L’uomo comincia a capire di non essere più parte dell’armonia del cosmo, ma trova, dentro di sé, nella propria anima individuale, la consapevolezza di obbedire a un tempo diverso. Come nel paradosso eleatico di Achille e della tartaruga, dio e le verità eterne possiamo inseguirle solo attraverso il mezzo del tempo umano del mito e della narrazione, che cercano di fermare per sempre il presente, di eternizzarlo come farebbe un dio, ma che sono costretti a vederselo ogni volta sfuggire dalle mani, perché l’istante vero e proprio non ha estensione, fugge, è breve, è indescrivibile: di esso si può dire solo ciò che lo precede e quello che viene dopo. Come scriverà György Lukács in Teoria del romanzo:

    Il tempo costituisce la discrepanza più vistosa tra l’idea e la realtà: intendiamo lo scorrere del tempo in quanto durata. [...] Nel romanzo senso e vita si separano, e con essi l’essenziale dal temporale; si può quasi dire: tutta l’azione interna al romanzo non è che una lotta contro il potere del tempo. [...] Il tempo esprime infatti la pienezza della vita, e ciò malgrado il fatto che la pienezza del tempo importi l’autorevocazione della vita, e dunque del tempo. E la positività, la natura affermativa, che la forma del romanzo esprime di là dalla mestizia e dal dolore dei suoi contenuti, non trae alimento solo dalla lontananza indistinta di un senso, che riluce di opaco splendore dietro il naufragio di ogni ricerca, ma anche da quella pienezza vitale, che affiora nella multiversa inanità del cercare e del lottare [27] .

    L’essenziale, che il temporale vela nel tentativo di formarne una copia, è, ormai, anche per Lukács, la durée di Bergson, non un tempo diviso in quantità eterogenee, ma un tempo inteso come qualità, una sintesi di stati successivi dell’anima, distesi nell’armonia di un progresso infinito, uno stato dinamico, la vera durata di un sentimento profondo o di un’idea che tiene insieme, simultanei, le cause e gli effetti, il prima e il dopo: «un progrès dynamique où le moi et les motifs eux-mêmes sont dans un continuel devenir, comme de véritables êtres vivants» [28] . È questa verità che gli eroi del romanzo cercano senza poter afferrare, perché tra l’Io e il mondo si frappone lo scoglio della trama, il peso insormontabile della parola che può solo alludere al vero, senza centrarlo. L’intelligenza è perennemente in ritardo, una spanna dietro alla durata pura, viva, degli stati immediati della nostra coscienza, perché questi sfuggono a qualsiasi tentativo di calcolo: «La durée proprement dite, elle reste en dehors du calcul, et ne serait perçue que par une conscience capable non seulement d’assister à ces simultanéités successives, mais d’en vivre les intervalles» [29] . Se la ragione è condannata a desiderare, senza mai ottenere, una conoscenza perfetta, aritmetica, di queste realtà extra-temporali che costituiscono la vera, ineffabile, identità dell’Io come del cosmo, lo spirito può intuirle, sentirne l’eternità, in momenti di estatica fusione con esse, durante le epifanie della memoria e il presentimento misterioso del futuro, quando, come gli angeli, l’uomo non ha più il «vedere interciso / da novo obietto» [30] . Il souvenir pur è un ricordo che, nella sua viva durata non è mai rimasto indietro nel passato, ma è sempre stato a noi «coetaneo», presente seppur latente e invisibile. Quando cerchiamo di fissarlo in un’immagine o nel linguaggio, però, esso cessa di essere vero e reale, perché non è diventato altro che l’istantanea di una morte, di uno stato che ha continuato a esistere, come pura durée, anche dopo il nostro tentativo di averlo finalizzato, immortalato, in una forma. In questo libro, al centro di ogni capitolo, incontreremo personaggi che, come Meleagro, intuiscono il Tempo e, liberandosi dalle catene della trama – dalla necessità di ordinare la realtà, e il rapporto tra essa e il Sé, secondo le categorie di passato, presente e futuro – sentono, all’improvviso, di vivere una durata fuori dal tempo, oltre la cornice d’inizio e fine. L’esperienza di Meleagro è, così, la stessa di Natan nel Decameron, del principe Myškin nell’ Idiota e di Marcel nel Temps retrouvé. In tutti e tre i casi, secondo modalità diverse, memoria e profezia aprono il racconto alle vie della poesia e dell’infinito.

    Natan, Myškin e Marcel hanno un’altra caratteristica in comune: sono dei condannati a morte. L’istante della fine è, però, non l’occasione per riordinare, retrospettivamente, gli eventi in una classificazione coerente, ma, piuttosto, il punto estremo dell’enigma del tempo che stimola tutti e tre ad affrancarsene in qualche modo. Natan prova a tornare indietro alla giovinezza, Myškin, grazie alla malattia, vive in simbiosi con il divino, mentre Marcel, pungolato dalla morte imminente, si mette a scrivere un libro infinito. Anche Meleagro era, di fatto, un condannato a morte – seppure di natura del tutto speciale, visto che lo stesso tizzone era, in sé, una simultanea possibilità di vita eterna – poiché la sua esistenza è costretta a condividere la durata di una fiamma. Ora, se, come abbiamo visto, il racconto della vita è, in realtà, racconto della morte, ecco che anche la trama è «coetanea» al ramo e all’eroe, dura il loro stesso tempo. In qualche modo, si può dire che l’intreccio ritarda l’istante della morte, ne dilata la durata, cosicché si crei lo spazio necessario al distendersi della narrazione. Possiamo dire che la fine è nascosta nella trama finché essa dura, come il ramo è celato al sicuro nello scrigno. Se Meleagro morisse subito – e infatti Altea si pente di non aver gettato immediatamente, sentite le Parche, il legno

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