Il Sangue dei Giganti: Il Popolo delle Torri
Di Andrea Sanna
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Info su questo ebook
le lame sono affilate e il guerriero non teme nulla.
L’urlo di guerra scuote l’Oriente, l'invasore sarà ovunque.
La città sullo stretto cadrà sotto gli occhi del Grande Re
e nulla fermerà i Principi della Guerra.
La Dea sussurra consigli al figlio prescelto,
e lui non cederà di un passo davanti al nemico.
Il Principe delle Sabbie scaglierà i suoi dèi contro l’orda dell’invasore
e il Delta si tingerà di rosso.
Il Sangue dei Giganti è il terzo volume di una trilogia di ambientazione preistorica che racconta le gesta del Popolo delle Torri.
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Anteprima del libro
Il Sangue dei Giganti - Andrea Sanna
Andrea Sanna
Il Popolo delle Torri
Libro Terzo
Il Sangue
dei Giganti
ISBN 978-88-7356-892-6
Condaghes
Indice
Il sangue dei Giganti
1. Isola Sekelesh
2. Troia
3. Fiume Ermo
4. Hattusa
5. Troia
6. Arzawa
7. Apapas
8. Nure
9. Terra dei Lukka
10. Hattusa
11. Hattusa città alta
12. Ugarit
13. Hattusa città bassa
14. Nure
15. Hattusa
16. Ugarit
17. Karkemish
18. Tyro
19. Karkemish
20. Alasyia
21. Ugarit
22. Uaset
23. Byblo
24. Pi-Ramesse
25. Byblo
26. Tyro
27. Ashkalon
28. Ashkalon
29. Ashkalon
30. Pi-Ramesse
31. Pi-Ramesse
32. A est di Per-Amun
33. Ashkalon
34. Djahi
35. Per-Amun
36. Djahi
37. Per-Amun
38. Djahi
39. Djahi
40. Tra Per-Amun e Djahi
41. Djahi
42. Oltre le dune di Djahi
43. Il Grande Verde
Epilogo - Santurio di Arvuène
Nota dell'Autore
L'Autore
Isola sacra degli Sherdan
La collana I Dolmen
Colophon
il sangue dei giganti
«I paesi stranieri ordirono un complotto nelle loro isole.
La guerra si diffuse contemporaneamente in tutti i paesi
e li sconvolse. Nessuno poté resistere alle loro armi.
... e con cuore risoluto e fiducioso:
ll nostro piano è compiuto!
.»
Tratto dalle iscrizioni del tempio di Medinet-Habu, Egitto, XII sec. a.C.
1. Isola sekelesh
– Padre! Padre!
Il capo villaggio smise di pulire il pesce, rinfoderò il pugnale, ancora sporco e unto, e scambiò un’occhiata con la sua donna. Poi seguì suo figlio che aveva cominciato a correre eccitato sul sentiero che portava alla scogliera.
Le onde sbattevano sulle rocce scure e il boato non gli permetteva di udire le urla del figlio, sparito nel fitto del bosco che si trovava prima dello strapiombo. Avanzava ormai spedito, col cuore che gli pulsava in gola e il fiato corto. La vegetazione cominciava a diradarsi, lasciando spazio a una sottile striscia di terra ricoperta di fiori bianchi e gialli. L’uomo credette di sentire un prolungato suono di corni. Vide il piccolo, stranamente immobile sullo strapiombo, con le braccia lungo i fianchi. Si fermò, riprese fiato e udì distintamente varie tonalità di corni provenire dal mare e mischiarsi con la forza delle onde che entravano negli anfratti che si aprivano nella roccia, sotto i loro piedi: entrambi i suoni parevano capaci di frantumare quel tratto di costa.
Avanzò di qualche passo e raggiunse il figlio, abbandonandosi alla visione che prendeva finalmente forma davanti ai suoi occhi.
– Non temere figliolo, sono nostri amici. Li aspettavamo – disse ammirando lo spettacolo della flotta che sembrava fluttuare sull’acqua, spinta da forze oscure.
– Chi sono? – chiese il bimbo, cominciando ad agitare un braccio in segno di saluto verso i nuovi arrivati.
– Sono gli sherdan, vengono dall’Isola dove va a dormire il sole.
– Sono buoni? – chiese ancora, senza staccare lo sguardo dalle navi in avvicinamento.
– Con gli amici sì, figliolo... con gli amici sì.
La flotta sherdan sfilava davanti all’alta scogliera battuta dai venti e tormentata dalla furia delle onde che, col passare del tempo, aveva scavato due profonde grotte che apparivano come grandi occhi scuri che vigilavano sull’isola dei sekelesh. Le navi fecero rotta verso una baia ben protetta dai venti di sud-ovest, un punto di approdo già conosciuto che si trovava a poca distanza da un villaggio che tante volte aveva ospitato i mercanti sherdan che facevano rotta da e verso l’oriente.
Sulla spiaggia si stava già radunando una folla di curiosi che osservava l’avvicinarsi delle imbarcazioni, affascinata dalle terribili protomi taurine scolpite sulla prua e dall’armamento che sfoggiavano orgogliosi i primi guerrieri che si preparavano a sbarcare.
Soltanto una nave da guerra avanzava verso la spiaggia, le altre avrebbero passato la notte all’àncora, poco più al largo. La chiglia scivolò sull’arenile. Davanti ai sekelesh riuniti sulla spiaggia, si allungò minacciosa la sagoma scura delle grandi corna di cervo che abbellivano la polena; il resto dell’imbarcazione, poco illuminata dalla fioca luce rossastra del sole, ormai prossimo a tramontare, aveva una forma lunga e sinuosa. Una strana creatura, metà cervo e metà pesce, sembrava riposare sulla sabbia dopo un lungo ed estenuante viaggio.
I guerrieri iniziarono a calarsi da una scaletta di funi. Erano una dozzina e non portavano armi, tutti tenevano il palmo della mano destra aperto, in segno di amicizia. Andò loro incontro un uomo basso e tarchiato, con due occhi vispi che sembravano voler osservare e memorizzare tutto quello che gli succedeva attorno. Indossava una semplice tunica color ocra, portava un pugnale appeso alla cintura di pelle stretta in vita e puzzava di pesce, un odore penetrante che Ikhor, malgrado la distanza, riusciva già ad avvertire.
L’uomo si fermò a tre passi dai guerrieri sherdan e non disse nulla, continuando a tormentare la barba scura e ispida che gli cresceva sul mento; la sua attenzione era ancora rivolta alla flotta che lentamente si apprestava a occupare tutta la baia.
– Sono Ikhor, di Tharsos.
L’uomo mosse i piccoli occhietti vispi e li puntò sullo sguardo fermo dello straniero. Ikhor odiava le cerimonie, sapeva di non essere la persona più adatta a certe formalità e soprattutto non sopportava le perdite di tempo che in tali situazioni, lo sapeva bene, si verificavano puntualmente.
– La nostra flotta è pronta a salpare, aspettava voi. Potete riposare e attendere domani per ripartire. Il mio villaggio, dietro il bosco, sarà felice di non farvi mancare niente – disse l’uomo osservando le navi al di là della spalla del guerriero sherdan.
– Il tuo villaggio? Uomo fortunato! – disse ironico Ikhor, pensando fosse contro le leggi dell’Isola che un capo villaggio, uno iuke, potesse soltanto pensare di possedere un intero villaggio tutto per sé. Per farne cosa?
si chiese. – Non ci serve nulla, abbiamo tutto. Sta montando un forte vento da sud-ovest, vorremmo evitare di andare a sbattere sulle rocce che affiorano poco più in là, subito dietro quello scoglio... conosciamo bene questa costa. Domani raggiungeremo la vostra flotta. Grazie per l’ospitalità, vi garantisco che nessuno metterà piede a terra. Buonanotte.
Ikhor e gli altri si voltarono e si diressero alla nave, avvolti dalle ultime lingue rosse e arancioni che il tramonto gettava sull’acqua e andavano a riflettersi sulle protezioni di bronzo indossate dai guerrieri, che lentamente perdevano ogni sembianza umana e apparivano quasi evanescenti: un tutt’uno con l’acqua, con la creatura dalle lunghe corna che li aspettava sulla battigia. Un tutt’uno con la notte che calava inesorabilmente, per nascondere quelle terribili creature giunte dagli abissi del Grande Verde.
Il bimbo sgattaiolò dalla capanna appena si accorse che il profondo blu della notte cominciava a schiarire.
Si mise un leggero mantello che apparteneva al padre, il capo villaggio, e sotto lo sguardo curioso dei cani sdraiati sull’erba si diresse verso la spiaggia. Non voleva perdersi lo spettacolo della flotta sherdan che abbandonava la baia: forse non avrebbe più rivisto quei terribili guerrieri, protagonisti di tante leggende che tutti i mercanti del Grande Verde amavano raccontare.
I rumori del bosco, ancora avvolto dalle tenebre, gli incutevano tanta paura e per un momento fu quasi deciso a tornare indietro, pentendosi di aver abbandonato la sicurezza della propria capanna. Nella mente innocente del bimbo, il sentiero che si accingeva a percorrere, nascosto dalla vegetazione, era un passaggio per un altro mondo, abitato da esseri pronti a far sparire chiunque avesse osato calpestarlo prima del sorgere del sole. Il cuore sembrava scoppiargli in petto e temeva di voltarsi, credendo di essere seguito dal guardiano del sentiero. Ma tanta era la curiosità di vedere cosa succedeva nella rada e accelerò il passo.
E tanta fu la delusione quando, privo di mantello, rimasto appeso tra i rovi durante la corsa sfrenata, giunse sulla spiaggia deserta, dove lo accolse soltanto una fredda brezza… e null’altro: le navi sherdan erano sparite, come se non fossero mai apparse, forse inghiottite dagli stessi mostri che avevano generato quei guerrieri tanto temuti, pensò il bimbo. Un luccichio attirò la sua attenzione. Piccole onde si infrangevano su un oggetto che giaceva ai suoi piedi: un dono per lenire la sua delusione.
S’inchinò e lo raccolse: un bellissimo pugnale di bronzo, che non aveva mai visto, diverso da quelli che usavano al suo villaggio. Lo strinse con forza e cominciò a fendere l’aria, fantasticando di combattere al fianco del suo popolo e dei suoi alleati.
Lo nascose all’interno della tunica proprio dove, senza saperlo, lo indossavano gli sherdan, all’altezza dello sterno, tra i pettorali. Affrontò l’oscuro e stretto passaggio tra i rovi, verso casa, più sicuro e senza timori infantili, sentendosi un vero guerriero che poteva sfidare chiunque e qualunque cosa.
Forse appartiene a Ikhor di Tharsos
pensò.
– Dov’è finito il mio pugnale? – Ikhor si apprestava a scendere dalla nave, accorgendosi solo allora di non possedere più il suo nuovo pugnale, forgiato pochi giorni prima da un abile armaiolo di Abinur, ora imbarcato sulla sua nave.
La flotta sherdan era giunta in vista delle navi sekelesh poco prima del tramonto. Non tutte le imbarcazioni potevano entrare in rada, quindi avanzarono all’interno della baia soltanto tre navi da guerra, quelle di Tharsos, Solky e Nure. A bordo erano riuniti tutti gli iukes che partecipavano alla guerra e i comandanti dell’Arcipelago dell’Ovest e dei tursha, questi ultimi aggregati alla flotta sherdan, con le loro navi, quando questa si era lasciata alle spalle la costa sud-orientale dell’Isola Sacra. I tursha portavano con sé un prezioso carico: spade e pugnali forgiati col nuovo metallo delle miniere oltre il mare, a nord-est dell’Isola, ma anche tanti lingotti, facili da trasportare, che presto avrebbero preso la forma di strumenti di morte.
Sulla spiaggia erano state montate piccole tende e alcuni guerrieri sedevano intorno ai fuochi, intenti ad arrostire il pesce: il profumo stuzzicò l’appetito dell’ambasceria che avanzava con l’acqua alle ginocchia. Una dozzina di uomini, i comandanti della flotta sekelesh, aspettava i nuovi arrivati illuminati dalle fiamme avvolgenti e ospitali di un grande falò.
– La volpe di bronzo! Sapevo che ti avrei rincontrato. – Un guerriero sekelesh, con lunghi capelli lisci legati dietro con un laccio di pelle, si fece avanti per abbracciare il guerriero di Solky.
Maraxane accettò il benvenuto, senza riuscire a nascondere un po’ di imbarazzo; gli occhi attenti dell’amico di Nure, al suo fianco, osservavano la scena. Quel nomignolo gli ricordava le razzie e gli incendi nei villaggi della costa tracia che aveva assalito con la sua piccola flotta: ‘la volpe di bronzo’ era sinonimo di morte, di lutti e distruzione, inflitti da un gelido guerriero ricoperto di bronzo che non manifestava nessuna pietà verso il nemico. Cominciava a pesargli, ma allo stesso tempo sapeva che la sua fama, nei lontani regni d’oriente, avrebbe avuto un ruolo determinante. Ciò doveva per forza influenzare il giudizio dei suoi pari nella scelta dei comandanti che avrebbero guidato gli sherdan in battaglia. Si era sacrificato per l’Isola, aveva cambiato pelle, messo a repentaglio la sua fama di guerriero saggio e giusto. Pretendeva la ricompensa.
– Il mio nome è Maraxane, solo il nemico mi chiama così – rispose, cercando di mantenere un tono ironico e scherzoso. – Ben trovato Parchige, vedo che siete in tanti anche voi! Pronti a menar le mani!
– Vi hanno visto arrivare, dalla scogliera. So quanti siete! Non oso immaginare quanto sarà grande la flotta quando si uniranno gli altri.
Dopo le presentazioni di rito, gli sherdan vennero ospitati in una grande tenda circolare, sorretta da grossi tronchi d’albero. Sul pavimento, ricoperto da tappeti di vari colori, giacevano decine di cuscini e otri di vino. Incensi bruciavano in piccoli piatti di bronzo, profumando la stanza di reminiscenze del Namer. Gli occhi dei guerrieri sherdan si posarono sul banchetto che gli alleati sekelesh avevano preparato come segno di benvenuto: vari tipi di carne e pesce arrosto, formaggi e frutta.
– Non sarete disturbati e qua fuori troverete due miei uomini fidati. Per qualunque bisogno rivolgetevi a loro, io mi troverò in una tenda a pochi passi da qui – disse Parchige allontanandosi.
– Grazie di tutto, la vostra accoglienza ci fa sentire a casa. Domani, alle prime luci dell’alba, saremo pronti a salpare – disse Ikhor.
Il comandante sekelesh lasciò gli ospiti sherdan alle loro incombenze. Il primo Consiglio di Guerra doveva iniziare: i guerrieri più esperti avrebbero ricevuto gli incarichi più consoni alle proprie esperienze e capacità, avrebbero così eletto il comandante unico per gli arcieri e per i lancieri, e ognuno di loro avrebbe avuto un sottoposto di fiducia. Durante quel primo Consiglio di Guerra, tutti avrebbero conosciuto il nome del comandante supremo, il Danur, scelto dal Consiglio del Toro dopo lunghissime consultazioni con i vari rappresentanti delle Tribù che si erano susseguite nelle ultime lune.
Talena e Brundesai, l’unico membro del Consiglio del Toro che seguiva la flotta, prima che cominciasse il Consiglio svolsero un piccolo rituale di purificazione: accesero delle erbe in un grande braciere e ogni comandante s’inchinò, facendosi avvolgere il viso dalla sottile colonna di fumo bianco che saliva tremolante. I sacerdoti versarono a tutti del vino in basse e tozze coppe di terracotta, di chiara fattura cretese, poi imposero le loro mani sulla gola di ogni presente, affinché la saggezza della Coppia Divina filtrasse attraverso le loro parole.
– Il mio primo pensiero va all’amico di Borumene, Allairtiti. Lui riposa nel Ventre della Madre e ci consiglia dal Mondo Capovolto – Talena alzò gli occhi sui guerrieri riuniti, sentiva che non aspettavano altro che conoscere l’identità del comandante che li avrebbe guidati. Poi lasciò la parola al sacerdote, spettava a lui comunicare ai comandanti il nome del Danur.
– Abbiamo sentito i rappresentanti dei Consigli delle Tribù di tutta l’Isola, abbiamo raggiunto ogni villaggio di montagna, chiamato gli iukes a raccolta, inviato messaggeri, senza ignorare alcun consiglio e giudizio – Brundesai scambiò un sorriso dolce e sereno con la Maestra, che muoveva lenta le labbra fissando il braciere, forse recitando una supplica. Poi continuò: – Sempre con l’aiuto del Sacro Consiglio delle Dodici, abbiamo scelto l’uomo che guiderà l’armata, colui che impugnerà le antiche armi del Danur, colui che, secondo il Popolo delle Torri, saprà guidarci con saggezza, frutto di anni di comando, conoscitore delle rotte del nord, delle vie del metallo bianco…
I comandanti iniziarono a sorridere e a darsi pacche sulle spalle: il loro volere era stato ascoltato e ora, allegri, guardavano il guerriero che tutti avevano sperato coprisse il ruolo di comandante supremo.
– Il comandante più esperto che ha guidato, anni fa, una spedizione nel Rhodan e ha ripristinato quelle vie di commercio tanto battute dal nostro popolo, allora messe in pericolo dalle scorribande di feroci assassini. Un uomo che ha portato Tharsos, dopo la grande onda, a rinascere come un tempo, forte di una flotta che ha sempre portato benefici a tutta l’Isola.
Brundesai aprì l’arca che conteneva le antiche armi del Danur. All’interno, una pelliccia tinta di rosso copriva il prezioso contenuto. – Ikhor di Tharsos, sei Danur, Primo fra i Dan. Il destino dei guerrieri è riposto nel filo della tua spada, sarà protetto dal tuo scudo, e nessuno perderà di vista il tuo elmo!
L’assemblea esplose in un boato di gioia, qualcuno versò del vino per terra, in ricordo degli Antenati, ringraziandoli di aver guidato la scelta degli uomini; altri riempivano le coppe, alcuni si precipitarono a fare le congratulazioni al nuovo Danur. Ma l’euforia fu presto placata dagli sguardi severi dei due sacerdoti. Ora altre questioni, più delicate, andavano discusse: spettava direttamente al Danur e ai vari iukes decidere i ruoli che avrebbero ricoperto i comandanti.
Tornato il silenzio, Ikhor ringraziò i guerrieri riuniti. Poi il ‘bastone della parola’, che un attimo prima aveva stretto il Danur, passò di volta in volta ai comandanti che proponevano i nomi dei guerrieri che sarebbero dovuti entrare nella stretta cerchia dei consiglieri del comandante supremo dell’armata, che a loro volta avrebbero eletto i propri sottoposti.
Alcuni avevano evidenziato il grande impegno e il successo di Hijastu contro le bande di predoni che avevano infestato i Giardini di Dan e i villaggi a nord-ovest di Nure, fino ad arrivare alle terre del Sacro Monte Shu, sotto il controllo della triplice alleanza del rame — Solky, Sheruky e Sirai —, dove antiche tombe erano state saccheggiate. In tanti ricordarono che era stato lui, quando era solo un ragazzo, a riportare a casa le antiche armi del Danur. Questi proponevano Hijastu come consigliere del comandante supremo.
Maraxane tratteneva la rabbia, aspettando il momento di ricevere il bastone che gli avrebbe permesso di intervenire. Nessuno aveva ancora accennato ai suoi viaggi nell’Egeo, alle sue imprese ai danni dei traci, all’abbondante carico di stagno che aveva portato dopo un lungo viaggio a nord nel Rhodan.
– Io e lo iuke di Sirai vorremmo che al giovane Hijastu venisse dato un ruolo determinante nel Consiglio – disse lo iuke di Sheruky – e ufficialmente chiediamo che lo iuke di Solky non ne faccia parte. Ha già dimostrato di non tenere alle sorti del suo villaggio, figuriamoci a quelle di un intero popolo!
– Come osi? – sibilò tra i denti Maraxane, alzandosi di scatto e rovesciando il vino su un prezioso cuscino proveniente dalle terre del Namer.
– Taci, avido pirata! Quando i tuoi più cari amici avevano bisogno dei tuoi guerrieri, tu dov’eri? – intervenne paonazzo lo iuke di Sirai.
– Silenzio! – urlò Brundesai, e conoscendo i fatti che avevano rischiato di compromettere la reputazione del giovane iuke, aggiunse: – Credevo fosse un problema risolto! Solky vi ha ospitato nel suo porto per costruire e riparare le vostre navi, Maraxane ha tentato di armare i vostri guerrieri, donandovi il metallo bianco. Voi avete preferito le offerte di Tharsos e ognuno ha pensato al proprio tornaconto! Maraxane ha armato un terzo di questo esercito e, dopo un lungo viaggio, ha portato con sé informazioni importanti che riguardavano le città e gli eserciti che andremo a combattere. Tutti ne trarremo beneficio. Io suggerisco invece il contrario: lui merita un ruolo nel Consiglio, come pochi!
Seguì un lungo e pesante silenzio.
Due occhi grigi, disegnati in un viso tremendamente pallido e rugoso, fissavano Hijastu dall’angolo opposto della tenda. Talena era seduta sul pavimento, le braccia intorno alle ginocchia, e si dondolava come una bambina impaurita. In questo modo il suo viso appariva solo a tratti dal buio dell’angolo da cui aveva scelto di seguire il Consiglio. Hijastu, per un attimo, credette di vedere un viso più giovane e un paio di lunghe trecce rosse, come il sangue che per un istante gli sembrò di vedere sul collo della sacerdotessa e poi colare lucido e denso sulla tunica bianca, di lino finissimo.
– Hijastu! – Merselai, apparso alle sue spalle, muoveva il bastone davanti al suo viso, cercando di attirare l’attenzione.
– Dopo la grande onda che ha sommerso tutto – cominciò calmo Hijastu – siamo stati in grado di risollevarci. Le nostre navi, quelle lasciate alla furia del mare, sono state ridotte a un ammasso di legna da ardere, eppure eccole nuovamente a dominare il Grande Verde. La terra ha tremato abbattendo i nostri templi, ma la Dea ha deciso di tornare tra le loro mura. Qua fuori c’è un esercito che mai nessuno è stato in grado di riunire, e soprattutto siamo davanti a un’occasione che non si era mai presentata prima: ci troviamo obbligati a raggiungere un obiettivo comune, cioè salvare i nostri fratelli d’oriente dalla carestia e dalla strafottenza di Arzawa e Hattusa. Sarebbe pericoloso per tutti noi soffermarci in inutili diatribe. – Fece una pausa e prese fiato. – Dimentichiamoci il nome del nostro villaggio e il nostro clan, dimentichiamoci in quale tempio andiamo ad ascoltare la voce della Dea e in quale pozzo ci rechiamo a offrire sacrifici: ricordiamo di essere sherdan, null’altro, e che gli Antenati ci guardano.
Hijastu osservò Talena. Il viso della Maestra era tornato a essere quello di sempre: una smorfia, incisa nelle rughe intorno alla bocca. Non dondolava più e indossava una triste e logora tunica di lana grezza. Dov’è andata a finire la candida tunica di lino?
si chiese il giovane iuke. Sparita, come le lunghe trecce rosse, come la ferita sul collo. Un altro prodigio, un altro mistero
pensò. Intorno a lui, gli altri iukes lo osservavano con occhi pieni di fiducia e speranza. Ma lui non ricordava più le sue parole.
Quando tutti i fuochi dei bivacchi sulla spiaggia furono ormai spenti e l’alba annunciava che presto avrebbe inondato la spiaggia coi suoi primi raggi, i comandanti erano pronti ad annunciare il nome del Danur.
Fuori dalla tenda, Brundesai e Talena appiccarono il fuoco a un’enorme catasta di legna, innalzata durante la notte appena trascorsa: il fumo avrebbe informato i guerrieri sherdan che si trovavano sulle navi oltre il piccolo golfo che ora potevano contare sul Danur.
Dinanzi agli sguardi assonnati dei sekelesh che avevano passato la notte sulla spiaggia, gli uomini uscirono dalla tenda, chi stiracchiandosi, chi sbadigliando o strofinandosi gli occhi. Le fiamme avvolsero la catasta di legno e il fumo cominciò a salire nel cielo che magicamente lasciava spazio al nuovo giorno.
Merselai avanzò sulla battigia. L’acqua fredda lambì i suoi piedi scalzi e rabbrividì, ma soffiò con forza dentro il corno e subito, dalle navi distanti, centinaia di altri corni gli risposero, ma nessuno, sulle imbarcazioni, ancora conosceva il nome del comandante supremo.
Il rito che celebrava la nomina del Danur poteva iniziare. Brundesai aprì la pesante arca di legno. I guerrieri formarono un cerchio intorno al falò, abbracciando i sacerdoti e il nuovo condottiero, immobile dinanzi al vecchio sacerdote.
– Questo è l’elmo dei Danur del passato. Indossalo, rispettalo e sii degno! – tuonò Brundesai.
– Gli Antenati mi guidano, i Giganti combattono al nostro fianco – rispose il Danur, indossando l’antico elmo dalle lunghe corna.
– Questa è la spada dei Danur del passato. Combatti, rispettala e sii degno!
– Gli Antenati mi guidano, i Giganti combattono al nostro fianco – rispose il Danur afferrando la pesante spada di bronzo.
– Questo è lo scudo dei Danur del passato. Non indietreggiare mai, rispettalo e sii degno!
– Gli Antenati ci guidano, i Giganti combattono al nostro fianco, gli sherdan non indietreggeranno davanti a nessuno! – il Danur imbracciò lo scudo e Brundesai gli strinse le cinghie intorno al braccio. Ikhor sentì il peso dell’antico scudo e ammirò le placche di bronzo, su cui erano incisi i Sacri Circoli della Dea, simbolo di rinascita. Chissà quante battaglie aveva combattuto e quante vite aveva salvato, pensò il Danur.
I corni continuavano a risuonare al di là del golfo, rimbalzando nell’alta scogliera, dando il benvenuto al sole che si staccava dalla linea dell’orizzonte. I guerrieri intorno al falò cominciarono a percuotere i propri scudi con le spade e a urlare il nome del comandante supremo.
– Ikhor! Ikhor! Ikhor! – l’urlo si levò nel cielo del nuovo giorno e il nome del Danur raggiunse le navi poste all’àncora. Dalla flotta di Tharsos echeggiò l’urlo dei guerrieri, il boato raggiunse la spiaggia e Ikhor, commosso, rabbrividì.
– Ho ascoltato tutte le vostre proposte e credo di aver preso la decisione migliore – esordì il Danur. – Le nostre leggi mi impongono di nominare un certo numero di consiglieri, ma mai, come ora, gli sherdan hanno radunato una flotta così numerosa. Quindi, miei cari amici, ognuno di voi verrà chiamato a presenziare ai Consigli di Guerra. Tutti avranno l’occasione di mostrare le proprie capacità di comando, perché la guerra che stiamo per muovere ha bisogno di uomini degni degli Antenati, degni di essere ricordati come Giganti!
Si levò alto l’urlo di guerra, «Sherdan! Sherdan! Sherdan!», che giunse alle orecchie