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Il leone di Lissa: Viaggio in Dalmazia
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E-book256 pagine3 ore

Il leone di Lissa: Viaggio in Dalmazia

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Info su questo ebook

Nella seconda metà del XVIII secolo, l'abate Alberto Fortis, intellettuale di cultura illuministica, fece diversi viaggi in Dalmazia: allora faceva parte della Serenissima repubblica di Venezia; un arcipelago di 1152 isole di cui solo poche decine abitate. I viaggi in Dalmazia dell'abate Fortis, raccontati nei suoi libri, fecero conoscere questo angolo incantato del Mediterraneo a tutta l'Europa dei lumi. A duecento anni dalla morte dell'abate, Alessandro Marzo Magno torna nei luoghi di quei viaggi, girando tra città e isole, raccontando storia, tradizioni e sapori di quelle terre e di quei mari, riscoprendo legami tra le due sponde dell'Adriatico negati e rimossi dalla tragica storia del '900.
LinguaItaliano
Data di uscita8 gen 2014
ISBN9788898475681
Il leone di Lissa: Viaggio in Dalmazia
Autore

Alessandro Marzo Magno

Alessandro Marzo Magno è nato a Venezia nel 1962. Laureato in storia, è giornalista. Inviato nei Balcani durante il conflitto che ha dilaniato l'ex Jugoslavia dal 1991 al 2001, ha poi lavorato in vari quotidiani, quindi è stato per dieci anni il responsabile degli esteri del settimanale "Diario". Ora scrive libri, ne ha pubblicati più di 10, fra gli altri, L'alba dei libri. Quando Venezia ha fatto leggere il mondo (Garzanti, 2012), tradotto in lingua inglese, L’invenzione dei soldi. Quando la finanza parlava italiano (Garzanti, 2013). A Trieste ha conosciuto Mirjam che è diventata sua moglie e hanno aumentato la popolazione terrestre prima di una unità (Marco,1998), poi di una ulteriore (Peter, 2000). Lì si sono fermati. Apprezza il buon vino, la buona tavola, le buone letture. Gli altri apprezzano la sua cucina, soprattutto il risotto. Alessandro Marzo Magno (Venice,1962) graduated university with a major in history and journalism. Posted in the Balkans from 1991 to 2001, during the conflict that ravaged the former Yugoslavia, he then worked in various newspapers, including the weekly Il Diario, where he directed Foreign Affairs for over ten years. Marzo Magno has published over 10 books of non fiction, including The Dawn of Books: when Venice allowed the world to read (Garzanti, 2012), translated into English and Korean; The Invention of Money. When the finance spoke Italian (Garzanti, 2013). Married with two children, he enjoys fine wine, good food and good books.

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    Anteprima del libro

    Il leone di Lissa - Alessandro Marzo Magno

    Prefazione

    Dalmazia. L’altra costa. Lo stesso mare. Il mare dell’Intimità. Nitida. Vicinissima. Nelle belle giornate di bora talvolta la vediamo. Da Ancona, Lignano o dalle Tremiti. Eppure non ne sappiamo niente. La invadiamo ogni estate, in barca o via terra. Ma resta una terra incognita, più che al tempo della Grande Venezia o dell’Austria-Ungheria. Gli esodi del dopoguerra, poi il conflitto dei Balcani ha reso più distanti le sponde. La nostra perdita di memoria ha fatto il resto.

    Oggi non sappiamo più che Rijeka vuol dire Fiume, che Split è Spalato. Proviamo meraviglia se sentiamo pescatori parlare veneto a Curzola. Solo sull’altra costa si navigava, al tempo della vela. La linea sabbiosa e rettilinea della penisola non offriva ripari. Le navi cercavano l’arcipelago. A Venezia, bastava affacciarsi sulla riva degli Schiavoni – gli slavoni – per percepire da Oriente la voce della leggenda. Un Oriente nostro. Bastava aspettare il tocco della Marangona sul campanile di San Marco, per sentire i campanili dell’altra costa rispondere, oltre la linea blu cobalto.

    Ecco: questo libro sulle orme dell’abate Fortis non ci parla solo di Dalmazia. Ci dice quanto la Dalmazia sia uscita dal nostro immaginario. Chi sa più della corazzata Viribus Unitis che dalle foci della Neretva portò a Trieste il corpo di Francesco Ferdinando ucciso a Sarajevo? Chi si ricorda di Lissa, l’isola al largo della quale veneti e dalmati sotto bandiera d’Austria batterono genovesi e napoletani col vessillo d’Italia? In che libri di scuola si parla di Lussino, terra di capitani e fantastiche insenature, o dell’ultimo caravanserraglio turco accanto al lago di Vrana? Chi conosce quella linea desertica di montagne che strapiomba sul mare e fu tagliata da una strada solo dai genieri del Bonaparte? E chi ha più sentito parlare dei misteriosi morlacchi, pastori e contrabbandieri, feroci abitanti delle terre ai confini del Turco? Ma allora, se persino il mare più fantastico sparisce dai nostri sogni, vuol dire che l’Italia non sente più il Mediterraneo. Ha dimenticato il mare.

    Parlata veneziana e faccia da birraio boemo, perfetto esemplare del contatto fra Mare di mezzo ed Europa di mezzo, Alessandro Marzo Magno ce ne parla. Ci racconta una storia affascinante, come quella delle altre due grandi acque chiuse che guardano a Oriente: Baltico e Mar Nero. Quante genti. Veneti, croati, greci, armeni, albanesi, tedeschi, romeni. Quanti mestieri. Uniti dalla stessa ecumene, la stessa lingua franca. Mille origini, un popolo solo. Un’unica appartenenza. Un imprinting indelebile. Canzoni di mare, vento e voglia di andare. La luminiera, le vecchie lampare, fuochi resinosi galleggianti che punteggiano l’arcipelago nel novilunio. L’andare di bolina, sotto le stelle, tra isole-montagne color della pece, nell’odore di salvia e resina che ti porta alla Grecia.

    Insomma, è ora. Tenetevi forte alle sartie e via: buona lettura. Anzi, buon viaggio. Che in fondo è la stessa cosa.

    Paolo Rumiz

    PRONUNCIA

    č, ć, ch: come c di cena

    c:
 come z di piazza

    dj, dz: come g di gioco

    g: sempre dura, come gatto

    h: sempre aspirata, come in tedesco

    lj: a fine parola, come gl di aglio

    nj: a fine parola, come gn di ragno

    s: come s di scalino

    š: come sc di scendere

    ž: come j francese di jour

    z: come s di rosa

    Introduzione

    Fascismo: 20 anni. Comunismo: 45 anni. Nazionalismo: 10 anni. Il totale fa circa l’aspettativa di vita media di un europeo d’oggi. In questo periodo gli eventi politici hanno reso l’Adriatico un mare sempre più largo e l’incomprensione tra le due sponde sempre più profonda. Fino alla vigilia della Prima guerra mondiale, invece, le cose stavano in maniera decisamente diversa. La Dalmazia faceva parte a pieno titolo di un mondo mediterraneo in cui il mare univa, più che dividere, e in cui gli abitanti delle isole e delle città costiere si sapevano esprimere almeno in due lingue. Di più: le conoscevano così bene da potersi spacciare per appartenenti a questa o quell’etnia, secondo le convenienze politiche del momento.

    Gli eventi del XX secolo hanno anche fatto sì che sia cresciuta esponenzialmente l’ignoranza verso i luoghi dell’oltre-adriatico e nemmeno sembra mitigata da un flusso turistico in crescita costante. In molte città italiane ci sono vie o piazze intitolate a località dalmate (e anche istriane), naturalmente indicate con i nomi italiani, che spesso nemmeno chi è andato in vacanza in Croazia sa come si chiamino oggi (o meglio: non conosce quale fosse il nome croato usato accanto a quello italiano). A titolo di esempio si pensi a Milano, dove uno slargo piuttosto importante si chiama piazzale Lagosta. Ebbene, su una ventina di persone interpellate, soprattutto commercianti e residenti del piazzale, solo quattro, tre dei quali anziani, sapevano che Lagosta è un’isola della Dalmazia, nessuno sapeva che la pronuncia corretta è Làgosta (e non Lagòsta, come tutti dicono) e solo uno sapeva che il nome croato dell’isola è Lastovo. Quest’uno tuttavia ha voluto mettere ben in chiaro le proprie idee politiche affermando: «Quella era tutta roba nostra, ce l’hanno portata via». A nulla è servito ricordargli che nel 1941 Benito Mussolini dichiarò guerra alla Jugoslavia e la invase.

    In qualche modo si è venuta a creare una situazione simile, pur con tutte le differenze dovute ai mezzi di comunicazione odierni, a quella dei tempi dell’abate Alberto Fortis, l’illuminista che fece uscire questi luoghi dalla nebulosa delle terre incognite. La Dalmazia, pur così vicina, ne è tornata a far parte dal punto di vista culturale e storico, forse con qualche eccezione tra chi vive lungo le sponde dell’Adriatico. «Da cinquant’anni» scrive Paolo Rumiz nel suo È Oriente «l’Adriatico è stato rimosso nell’immaginario degli italiani, non è più sentito come mare nostrum, ma come mare degli altri.» Un mare ricco, e generoso con i suoi abitanti, grazie all’apporto dei fiumi: nonostante abbia un ventesimo dell’acqua del Mediterraneo, produce un quinto del suo pesce.

    Ma torniano ad Alberto Fortis. Nato a Padova il 9 o 10 novembre 1741 e morto a Bologna il 21 ottobre 1803, era un quasi prete. Nel senso che era pater lector, cioè aveva ricevuto due dei quattro gradi che conducevano al sacerdozio. Nonostante questo, si faceva chiamare abate e vestiva l’abito talare (il che non gli impedirà di avere tre amanti contemporaneamente: una a Ragusa-Dubrovnik, una a Napoli, la celebre letterata Eleonora de Fonseca Pimentel, e una a Vicenza, quest’ultima era Elisabetta Caminer, con la quale collaborava alla redazione della rivista Europa letteraria). Nel 1771 Fortis smetteva l’abito degli agostiniani per diventare una specie di abate privato. Figlio di quell’Illuminismo che permeava il mondo culturale dell’Europa di allora, l’abate aveva deciso di andare alla scoperta di quelli che apparivano come i «tropici alle porte di casa». Ovvero della Dalmazia. La costa dell’Adriatico orientale, dall’Istria fino a poco sopra Ragusa, e poi ancora nelle Bocche di Cattaro (Boka Kotorska), faceva parte da quattro secoli della Serenissima Repubblica di Venezia. Ma i domini da mar, come comunemente erano chiamati i territori d’oltremare, in contrapposizione ai domini da tera (Veneto, Friuli e la Lombardia fino all’Adda), erano ormai abbandonati a se stessi. A Venezia la parte più illuminata della classe politica si rendeva conto della triste situazione della Dalmazia e si riprometteva di sollevarne le sorti. In quest’atmosfera si inseriscono i ripetuti viaggi di Alberto Fortis.

    La prima volta che attraversa l’Adriatico è nel 1765 per visitare l’Istria attorno a Pola (Pula). Andrà in Istria e Dalmazia undici volte (più una a Lubiana) e trascorrerà oltre Adriatico un totale di trenta mesi. I suoi viaggi in Dalmazia vengono finanziati dal senato veneto e da autorevoli mecenati inglesi. Il primo, nel 1770, da John Stuart conte di Bute, e gli dà la possibilità di pubblicare, l’anno successivo, il Saggio d’osservazioni sopra l’isola di Cherso ed Osero. Torna in Dalmazia nel 1771 in compagnia di Lord Frederic Hervey, vescovo anglicano di Londonderry, e poi ancora nel 1773, grazie all’interessamento del patrizio veneto Andrea Memmo. Tali esperienze gli daranno modo di pubblicare, nel 1774, il Viaggio in Dalmazia. Come afferma Filippo Maria Paladin in Un caos che spaventa Fortis scopre la «via letteraria allo sfruttamento della Dalmazia».

    Quest’opera, tradotta in inglese, francese e tedesco, farà conoscere la Dalmazia in tutta Europa. Scrive Larry Wolff nel suo Venice and the Slavs: «È possibile che prima dell’insuperabile pubblicità del film di Disney nel 1961 (La carica dei 101 in italiano, ma One Hundred and One Dalmatians in inglese) il precedente titolo più conosciuto che metteva in evidenza il nome Dalmazia fosse il Viaggio in Dalmazia di Alberto Fortis, nel 1774. La sua fama si è diffusa nella repubblica delle lettere del XVIII secolo che era di sicuro meno penetrante dell’impero del cinema del XX secolo». Ma non solo. Fortis, oltre che esplorare terre sconosciute, intendeva conoscere i popoli primitivi che ci vivevano. La Dalmazia si prestava perfettamente a questo scopo perché nell’entroterra era abitata dai morlacchi, ovvero una popolazione slava cristiana (sia cattolica, sia ortodossa) sfuggita al dominio turco. Tra di loro l’abate padovano andava alla ricerca del buon selvaggio e delle origini dell’epica, ovvero dei poemi spontanei che, nella concezione dell’epoca, solo i popoli non ancora civilizzati potevano avere; più o meno quello che l’Iliade e l’Odissea dovevano essere stati per gli antichi greci. Anche in questo la Dalmazia non avrebbe deluso le aspettative.

    Alberto Fortis è il primo a trascrivere nella lingua che allora veniva definita illirico, e a tradurre in italiano, il canto di Asan Aga, detto Asanaginica, un poema popolare morlacco. In quegli anni si sta affermando il moto romantico di riscoperta delle culture nazionali e popolari e l’Asanaginica cade a fagiolo. Wolfgang Goethe e Johann Gottfried Herder la traducono in tedesco e nasce così il genere letterario del morlacchismo destinato in qualche misura a influenzare anche Madame de Staël in Francia e Sir Walter Scott in Gran Bretagna.

    E allora eccoci sulle tracce di Alberto Fortis a rifare con gli occhi disincantati del viaggiatore del XXI secolo l’itineriario che avevano percorso gli occhi meravigliati del figlio dell’Illuminismo. In quel tempo non c’erano strade, muoversi in barca era una necessità; oggi quelle atmosfere possono essere colte da chi si sposta a bordo di una barca a vela, ma anche l’automobile è un buon mezzo per visitare la Dalmazia e i numerosi traghetti, necessari per andare sulle isole, permettono di mantenere il contatto con l’elemento liquido.

    Frontespizio libro antico

    Rifare oggi il viaggio dell’abate è relativamente semplice, in fondo si tratta delle più note località turistiche e culturali della Dalmazia, quelle dove ogni anno si riversano centinaia di migliaia di turisti. Per gli spostamenti sono necessarie ore, non più giorni, ma resta sempre presente la sensazione di un mondo di confine, dove la civiltà mediterranea si infrange contro le montagne dinariche e da dove ci si potrebbe avventurare a piedi fino al lontano Cataio, sulle orme di Marco Polo, senza mai incontrare un altro mare. Questo nuovo viaggio in Dalmazia, svoltosi tra la primavera e l’autunno 2002, ha permesso di verificare che a due secoli di distanza molto di quello che Fortis ha descritto è ancora visibile e anche alcuni degli usi da lui incontrati nelle popolazioni locali sono sopravvissuti fino a tempi piuttosto recenti. L’itinerario seguito per compilare questo libro si svolge lungo una direttrice che va da nord a sud, dalle isole del Quarnero (non ancora propriamente Dalmazia) fino a Curzola (Korčula), il più meridionale dei domini dalmati veneti. La relazione su quest’ultima isola non è contenuta nel Viaggio in Dalmazia, ma è conservata manoscritta a Padova, nell’Accademia galileiana di scienze, lettere ed arti (ex Accademia di Padova), di cui Fortis era socio. La sua Memoria sopra l’isola di Curzola, però, non ricevette dagli altri soci abbastanza voti per essere pubblicata. Le relazioni riguardanti Veglia (Krk) e Pago (Pag) sono state aggiunte da Fortis all’edizione inglese, stampata a Londra nel 1778 (e per questo si è ritenuto opportuno riportarle nella loro versione originale in lingua inglese).

    Il concetto di Dalmazia è stato variabile nel corso dei secoli. «Storicamente parlando» scrive Predrag Matvejević nel suo Breviario mediterraneo «è esistita una nozione di Dalmazia più ridotta e più ampia, superiore e inferiore. Da principio pare che fosse solo una parte dell’entroterra montuoso a chiamarsi così, per estendersi poi fino al fiume Raša in Istria, fino a Mat in Albania. In certi momenti si ridusse a poche città dell’Adriatico centrale. La repubblica di Ragusa non faceva parte della Dalmazia fino a quando non perdette la sua indipendenza. Il Quarnero ne era e ne rimase fuori, insieme alle sue isole. In passato i confini etnici non esistevano, quelli giuridici e di stato cambiarono nel corso dei secoli. Chi la conosce meglio ne delimita i confini, più o meno, allo spazio tra la foce della Narenta (Neretva) al massimo fino alle mura della città vecchia di Segna (Senj).» Delle sue 1185 isole oggi ne sono abitate solo sessantasei.

    Frontespizio libro antico

    Il riassunto più sintetico ed efficace della storia della Dalmazia lo traccia forse Anthony Rhodes nel suo The Dalmatian Coast: «Nei primi sei secoli della nostra era (è stata) romana; nel Medioevo slava; nell’età moderna italiana; per un secolo, il diciannovesimo, austriaca; ai nostri tempi di nuovo slava». E più avanti: «La storia della Dalmazia dopo il Medioevo può essere semplificata se noi pensiamo in questi termini riguardo a Venezia: primo periodo, la sua lotta con l’Ungheria dal 1100 al 1400; secondo, la sua lotta contro i turchi dal 1400 al 1700; due periodi di trecento anni chiusi dal regno illirico di Napoleone. Nel primo di questi periodi Venezia e l’Ungheria erano nemici naturali. L’Ungheria, allora un importante regno dell’interno, voleva uno sbocco al mare ed era inevitabilmente interessata all’Adriatico. Venezia badava alle rotte marittime verso l’Oriente». E nelle città chi viveva di agricoltura e artigianato era legato all’Ungheria, chi di navigazione e pesca a Venezia. Esattamente la stessa divisione che si sarebbe riproposta nell’Otto-Novecento tra filocroati e filoitaliani.

    La Dalmazia dei tempi di Fortis era una realtà multietnica, come lo poteva essere una regione costellata da una miriade di porti naturali. La navigazione, infatti, avveniva lungo la costa dell’Adriatico orientale perché quella italiana, bassa e sabbiosa, mal si prestava a fornire riparo alle navi in caso di tempesta o a prestar ricovero alle galee da guerra e da mercato che, con un equipaggio di oltre 200 uomini, dovevano ormeggiare a terra tutte le sere per potersi rifornire d’acqua. Papa Alessandro III, nel 1177, per andare da Bari a Venezia tocca le Tremiti, Pelàgosa (Palagruža), Lissa (Vis), Zara (Zadar), poi prosegue costeggiando la Dalmazia, il Quarnero, l’Istria, fino a Pola da dove compirà la traversata che lo porterà a Venezia. Era la rotta più comune, destinata a restare invariata fino all’avvento della navigazione a vapore, nella seconda metà dell’Ottocento, quando le navi di maggior stazza potranno navigare in mare aperto e non più sottocosta. Niente di strano, quindi, che nei porti dalmati si trovassero nuclei di vari popoli: albanesi (ancor oggi un sobborgo di Zara si chiama arbanasi) e greci, prima di tutto, ma poi anche armeni, levantini e, ovviamente, ebrei. Tutti questi, assieme a italiani e croati, si sentivano prima di ogni altra cosa dalmati.

    Dopo l’uscita del libro di Fortis si innescò una delle tante polemiche letterarie del tempo. Un dalmata di nome Giovanni (o Ivan) Lovrich scrisse delle Osservazioni sopra diversi pezzi del Viaggio in Dalmazia. Ebbene Lovrich si considerava dalmata, Fortis lo bollava come morlacco. «Il termine croato» scrive Larry Bond «era estraneo alla loro controversia settecentesca.» Ci avrebbe pensato poi il nazionalismo ottocentesco a dare ben diversi significati alle parole croato e italiano, a mettere gli uni contro gli altri, a trasformare l’appartenenza etnica in battaglia politica, con i croati che si riconoscevano nel partito nazionalista e gli italiani (detti bodoli) in quello autonomista. La presenza italiana, minoritaria, era soprattutto urbana, artigiana e borghese, o in ogni caso costiera (pescatori); mentre quella croata, maggioritaria, era sostanzialmente rurale. Anche se i dati dei censimenti austriaci erano regolarmente contestati da entrambe le parti, poiché ognuna li riteneva sfavorevoli a sé, si può dire che a fine Ottocento i croati rappresentassero l’80 percento della popolazione e gli italiani il 20, con un trend di forte crescita per i primi e di contenuto declino per i secondi. Francis Violich, un urbanista americano di origine dalmata, scrive nel suo The Bridge to Dalmatia che quando Francesco Giuseppe, nel 1875, parte dall’isola di Lissa a salutarlo ci sono 59 sindaci nazionalisti, quindi croati, contro 21 autonomisti, cioè italiani. Carlo Errera nel suo saggio La lingua dei pubblici uffici dei comuni dalmati scrive che nel 1884 il governo austriaco attestava che in 19 comuni su 84 si usava esclusivamente l’italiano come lingua d’ufficio, in 25 sia l’italiano sia il serbocroato, nei restanti 40 il serbocroato. Il censimento del 1890, però, avrebbe dato un risultato di 16mila italiani contro 501mila serbocroati. I due dati appaiono in contraddizione perché non avrebbe alcun senso che in 19 comuni si usasse come lingua d’ufficio la lingua parlata da un’esigua minoranza della popolazione. Ma non è il caso di addentrarsi nelle polemiche che hanno oscurato il clima politico dalmata per oltre un secolo. Sarebbero in ogni caso arrivati gli eventi politici, le guerre, i massacri e la Shoah a oscurare il carattere multietnico della Dalmazia. I nuclei meno numerosi sarebbero stati assimilati; oggi ne è rimasta ancora traccia in qualche toponimo e in qualche cognome. Un’ulteriore data-simbolo è il 1898, quando a Veglia muore l’ultima persona in grado di parlare l’antico dalmatico e se ne perdono definitivamente le tracce. Gli ultimi due grandi esodi, quello degli italiani del 1945 e quello dei serbi del 1995, hanno reso la Dalmazia e il suo entroterra quasi compattamente croati. Oggi sopravvive una sparuta minoranza italiana, prevalentemente di anziani, il cui destino è molto incerto (solo a Cherso e Lussino la situazione è un po’ più favorevole).


    Se la Dalmazia ha perso il suo carattere multietnico, possiede ancora, però, le proprie specificità che la differenziano dall’entroterra. Le dalmate e i dalmati, oggi come ieri, tendono a essere alti, slanciati e piuttosto belli. Sono allegri e cordiali, amano il canto (gli struggenti canti dalmati) e il buon vino. È gente di mare, quindi abituata ai contatti con il mondo, che ha poco a che fare con gli abitanti delle aspre montagne retrostanti, dure pietraie dove a stento le pecore trovano di che sopravvivere. Belli gli abitanti, bellissimi i luoghi, caratteristici i colori (le pietre bianche delle montagne che si specchiano nel blu del mare), tipici gli odori (quasi ovunque l’aria è impregnata del profumo della salvia e del timo). La Dalmazia, oggi come ai tempi di Alberto Fortis, è tutta da scoprire.

    Cherso

    (Cres)

    Fra le curiosità naturali di Cherso merita il primo luogo questo lago. Non è necessario l’aver cognizioni peregrine per giudicare della di lui bellezza. Circondalo una collina di collinette di pendio soave che si fanno però talvolta rigogliose e alpestri. Tutto questo tratto di paese è incolto e disabitato.

    Potrà sembrare strano cominciare a parlare di un’isola

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