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Il male viene dal nord
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E-book642 pagine10 ore

Il male viene dal nord

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Info su questo ebook

Una statua che non dovrebbe esistere più nasconde una storia vecchia di secoli, eppure, nonostante tutto, di un'attualità sconcertante... Pubblicato per la prima volta nel 1984, "Il male viene dal Nord" è un'interessante commistione fra saggio, romanzo storico e racconto autobiografico. Incentrato sulla figura emblematica di Pier Paolo Vergerio il Giovane (1498-1565), vescovo di Capodistria e poi, dopo un processo per eresia, convinto fautore del luteranesimo, il testo si offre a chi legge come la partecipe testimonianza di uno scrittore di frontiera – Fulvio Tomizza – sulla vita di un suo illustre conterraneo, perseguitato in vita a causa delle sue idee e, nondimeno, per la sua nazionalità. Ad alimentare il fascino di Vergerio agli occhi dell'autore fu la constatazione, in parte stupita in parte orgogliosa, di come la statua del vescovo continuasse a sorgere nel centro di Capodistria, anche in piena epoca titina, nonostante la sua identità etnica e la sua personalità profondamente religiosa.-
LinguaItaliano
Data di uscita29 mag 2023
ISBN9788728560501
Il male viene dal nord

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    Il male viene dal nord - Fulvio Tomizza

    Il male viene dal nord

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright ©1984, 2023 Fulvio Tomizza and SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728560501

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    Il vero successore di Lutero, sotto l’aspetto polemico, la cui attività rivaleggia con quella del francese Calvino e dello spagnolo Laínez, fu l’italiano Vergerio.

    frederic c. church

    Ringraziamenti

    L’Autore esprime la propria riconoscenza alla Direzione e al Personale delle seguenti istituzioni:

    Archivio di Stato di Venezia; Archivio Regionale di Capodistria; Biblioteca Centrale Srečko Vilhar di Capodistria; Biblioteca Civica di Trieste; Biblioteca Comunale di Sondrio; Biblioteca Generale dell’Università di Trieste; Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze; Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia; Burgerbibliothek - Bern; Centro di Ricerche Storiche - Rovigno; Centro Studi Italiani in Svizzera; Istituto Italiano di Cultura di Stoccarda; Istituto Italiano di Cultura di Vienna; Kantons Bibliothek Graubünden - Chur; Öffentliche Bibliothek der Universität - Basel; Österreichische Nationalbibliothek - Wien; Stadt-und Universitätsbibliothek - Bern; Universitätsbibliothek - Freiburg i. Br.; Universitätsbibliothek - Stuttgart; Universitätsbibliothek - Tübingen; Zentralbibliothek - Zürich.

    Un ringraziamento, per le varie forme di collaborazione, l’Autore rivolge anche ai signori e agli amici:

    Maria Benedetti, Jože Blaznik, Silvio Braini, Petra Brauns, Vittorio Bravar, Giovanni Battista Bucciol, Ester Caiani, Mara Debeljuh Poldini, Piero Di Pretoro, Paolo Gir, Trude Graue, Ragni Maria Gschwend Seidl, Eligio Legović, Bruno Londero, Mate Maras, Antonio Miculian, Antonina Monti, Giacomo Nadig, Liana Nissim, Stella Rasman, Nilde Riva, Maria Grazia Rizzi, Vincenzo Sagona, Vera Salvago, Italico Stener, Lorenzo Tacchella, Flora Wondré, Pietro Zovatto.

    QUATTROCENTO ANNI DOPO

    Capodistria era collegata alla terraferma da due strade, nei tempi lontani da una soltanto, che correva su un ponte. Pareva costruita su uno scoglio divenuto sabbia, e la si sarebbe potuta chiamare isola se tale nome non fosse stato destinato alla cittadina poco distante per chi, giungendo da Trieste, prosegue lungo il litorale istriano. Anche Pirano più avanti, oltre Isola, si addossava sull’estremità di un promontorio; e poi Umago, Cittanova, Parenzo, Rovigno e Pola, anch’esse sembravano rifuggire dalla comune costa per offrirsi al mare che all’altra sponda premeva sugli usci di Venezia.

    Persino i contadini, detti paolani, che avevano gli orti e le vigne lungo il colle San Marco, mantenevano col territorio retrostante un rapporto schivo: si affrettavano a rientrare con l’asino prima del buio, quasi che le porte della città ancora si chiudessero in faccia ai campagnoli sloveni. Degli altri, chi non viveva di pesca, o non avesse trovato occupazione nelle botteghe artigiane, lavorava a Trieste recandovisi di primo mattino e tornando al tramonto dopo un’ora di vaporetto che, salutato da una folla in attesa, nell’accostarsi al molo sbandava tutto da una parte.

    Coppie di fidanzati e gruppi familiari si ricomponevano e avanzavano su per la strada grisa fino alla piazza del Duomo, dove si spartivano dagli altri per sparpagliarsi nelle strette calli in pendio. La città era ripopolata, come di giorno avveniva solo alla domenica, e, dopo l’intervallo di una cena prevalentemente a base di pesce fritto, si ravvivava nelle osterie e con tono più riservato nei circoli sportivi, nelle sale di prova del coro, della banda, dei filodrammatici, e nell’oratorio dei cappuccini.

    Ma alla domenica luogo e gente si aprivano fino a consegnarsi l’uno all’altra. Già prima dell’alba, alle campane del Duomo rispondevano quelle acute, insistenti, come galletti in smania di crescere, di almeno dieci chiese mimetizzate nei rioni popolari e fra i chiostri dei conventi. Buona parte della festività ognuno la viveva nel proprio quartiere, quasi per proclamarne l’autosufficienza, tra gli odori delle erbe dell’orto, delle sardine sotto sale, dei trucioli della segheria, in un’aria protettiva e quasi complice che trovava espressione nella particolare cadenza della parlata e nell’allusività dei soprannomi. Non se ne discostavano le anziane nello scialle nero a frangia lunga, né i loro mariti che insaponandosi sulla calle perdevano i connotati del loro mestiere e, indossati i pantaloni scuri e la camicia bianca, avevano incominciato e finito la festa. Alcuni di essi vantavano di non essere stati da anni sù, in piassa.

    Per gli altri l’appuntamento era sottinteso per le dieci e mezzo davanti alla fiancata soleggiata del Duomo, prospiciente il palazzo vescovile, per la messa grande. Sbucavano dal buio dei sottoportici, dagli steccati degli orti, dai portoni a bugne dei palazzi nobili, e si ritrovavano sulle quattro arterie (calle Eugenia, Callegaria, largo Santorio o la grisa, e la via del cinema per il Belvedere), che si dipartivano dalla piassa come le nervature alla vòlta centrale della chiesa madre.

    Incolonnati davanti alla porta laterale, vi si infilavano con arroganza o con pudore, eleganti e goffi, secondo il costume di famiglia, l’indole e il controllo personale, dando esca a segreto apprezzamento o a pubblico scherno. Arrivavano giusto giusto a conoscersi tutti di faccia e persino di nome, ma per avere l’uno dell’altro cognizioni per lo più comuni e dunque sommarie. Per cui spiccavano sulla folla anonima il medico condotto e il medico specialista, i professori coscienziosi e i professori carogne, l’avvocato miscredente, il campione olimpionico di canottaggio, la soprano in carne, lo storico caustico, il pittore tronfio; come non vi mancavano, e potevano essere additati da ognuno, la maritata facile e la donna di mestiere, il libertino di rango e il volenteroso Bepi Casso, l’omosessuale storpio che mendicava davanti al cine e l’altro, sposato, e con il figlio al ginnasio. Molti dei primi, e tutti questi ultimi, tenevano desti il buonumore e la chiacchiera sporca che l’assetto urbanistico, pur improvvisato e riaggiustato nel corso dei secoli, sembrava fatto apposta per ricevere e rilanciare. Ma non rappresentavano se non una curiosa screziatura su un tessuto umano mantenutosi compatto e quasi uniforme a duecento anni dal tramonto veneziano.

    Trovarsi a vivere nella cittadina delegata dalla Serenissima a capo dell’Istria, non solo escludeva ogni contatto con gli sloveni spintisi dalle colline di arenaria fin sul bordo litoraneo, ma portava a respingere persino l’effettiva parentela con gli altri paesi della costa, per non dire con le grosse borgate dell’interno, che pure avevano avuto capitani-podestà, tribunali e fòndaci veneziani, e sulle torri campanarie ancora ostentavano il leone col vangelo spalancato. Capo corrispondeva inoltre a cavo, ovvero termine dell’Istria in faccia all’austriaca e plurilingue Trieste i cui templi di religioni e confessioni differenti mal coprivano, se non rimarcavano, un carattere più agnostico che laico.

    Questa condizione di privilegio non era certo immotivata, come lo provava quasi ogni angolo di via con le sue ogive, i balconi in marmo, le inferriate, gli stemmi, i busti, le decorazioni geometriche e quelle allegoriche, le mille iscrizioni, che raggiungevano l’espressione più alta nella piazza col Duomo, il palazzo pretorio e la Loggia. Né la cittadinanza aveva mostrato di demeritarla; altre scritte indicavano aver essa dato all’Italia e all’Europa ingegni notevoli in ogni campo, da Vittore Carpaccio del quale conservava la casa natale, all’umanista Pier Paolo Vergerio il Vecchio, da Andrea Divo traduttore latino dei poemi omerici studiati fin alla Sorbona al poeta Muzio il cui trattato sul duello è citato nel capolavoro del Manzoni, all’economista Gian Rinaldo Carli del gruppo degli illuministi di Milano, al medico Santorio inventore col Galilei del termometro e il primo ad applicarlo sull’uomo; per tacere degli stampatori, navigatori, santi, commercianti, uomini d’arme distintisi a Lepanto, di quel conte di Capodistria presidente della prima repubblica greca, e infine del fitto elenco dei martiri della grande guerra, dal quale emerge la figura di Nazario Sauro. E se la nobiltà, al di là delle prerogative discutibili, sembra sempre garantire vivezza intellettuale e gusto, non si possono omettere i nomi dei de Gravisi, de Madònizza, Derin, Elio, Grisoni, Tacco, Vida, che all’ammirazione dei posteri hanno lasciato palazzi rinascimentali e barocchi. Le famiglie patrizie erano in numero sproporzionato, a conferma di un accentramento del potere particolarmente accentuato in questa periferia veneziana con carattere di colonia, e insieme di un clima congeniale agli ambiziosi possidenti terrieri. Ma, o che parecchi di essi fossero caduti in rovina, o che ad altri loro pari non avesse mai ammiccato la fortuna, non mancavano tra pescatori e artigiani i De Carli, Depangher, Deponte, Destradi.

    In questa città altera e chiusa, suggestiva ma non simpatica, oscillante sui diecimila abitanti, vissi otto lunghi anni tra adolescenza e giovinezza. Ne respirai l’aria ancora antica, per taluni aspetti ancora medievale, e assistei alla sua lenta trasformazione, poi al radicale cambiamento.

    Provenivo con mio fratello e alcuni paesani da una parrocchia di poche anime, lontana dal mare quel tanto sufficiente a non farci sentire né figli della costa né ragazzi del più povero retroterra slavo: legati a doppio filo col centinaio di famiglie in gran parte imparentate tra di loro, che non si sarebbero mai potute disconoscere, pena l’autorinnegamento. E la prima mèta del nostro viaggio nel mondo era anche la più indicata a svelare il peso di tale origine e a istillarci l’ansia di superarla.

    Ad accogliere gli studenti di fuori non esisteva che il seminario vescovile, quasi un istituto per orfani; a frequentarlo occorreva però avere la vocazione al sacerdozio oppure simularla per compromettere da bel principio la coscienza. Ero il più giovane del gruppo, mio padre mi aveva fatto saltare la quinta elementare per pormi al sicuro dall’ultimo anno di guerra, che secondo me difficilmente avrebbe potuto coinvolgere un ragazzo di dieci anni. Comunque, l’unico modo per restar fedele al villaggio lasciato tra il fango ghiacciato, ai compagni che ridiventavano ragazzi nelle ore del pascolo, era accarezzare la probabilità di tornarci da parroco.

    Cercavo pertanto di distinguermi in devozione, profitto a scuola e rispetto della disciplina. I paesani col fratello in testa mi compativano, i condiscepoli mi deridevano (e uno di essi mi picchiava non appena ci trovavamo soli e della stessa razza); agli adulti in veste e ai superiori ordinati non restava che coccolarmi. Ma al mio atteggiamento esteriore corrispondeva un vero tumulto dell’anima. Pregavo Dio di toccare il cuore agli scettici, agli schernitori, ai violenti, di preparare papà e mamma e l’altra gente del paese ad apprezzare, quando sarei tornato, lo stato di soavità interiore che spesso mi portava alle lacrime, da offrire anch’esse a Cristo in croce.

    L’infatuazione ben armonizzava con l’atmosfera gelida e severa del seminario, e in notevole misura ne era determinata. Nel silenzio del dormitorio, dove riconoscevo il lettino di ferro dal numero assegnatomi e ricorrente su ogni indumento lavato e stirato dalle invisibili suore, nutrivo l’impressione di vivere in un tempo passato, mai conosciuto e impensabile ai miei contadini che parlavano anche coi buoi. Qui bisognava tacere non solo durante le tre visite alla casa di Dio, la tonda cappella, ma nelle ore di studio si veniva puniti soltanto a piegarsi verso il compagno di banco, nel refettorio bisognava tendere l’orecchio alla lettura del martirologio.

    Le rare uscite fuori dell’alto cancello diventavano un diversivo eccitante, benché consistessero nel partecipare alla messa pontificale in Duomo e alla processione nei giorni di grande solennità quali la festa del patrono San Nazario, primo vescovo di Capodistria. Celebrava il suo ultimo successore, giuntovi da Trieste e lieto di trascorrere alcuni giorni tra le giovani vocazioni, nell’appartamento del seminario a lui riservato. Al senso di sollievo quasi fisico nel ritrovarmi nel mondo vivo, senza delimitazioni, si univa l’orgoglio di camminarvi nella veste lunga e nella cotta candida dei liceali e dei prefetti.

    Vi prendeva parte l’intera città, compresi i vecchi incollati al loro rione, e quasi ognuno vi collaborava di persona, spargendo petali di rosa, reggendo candele o solo uno spigo di lavanda, portando i gonfaloni, le croci, le immagini dei santi, non in maniera improvvisata come avveniva per le rogazioni al paese, un parapiglia da funerale, ma onorando un incarico tramandato in famiglia insieme alle zimarre rosse con cinta di cuoio che convalidavano un’investitura e parevano accrescere la schiera dei consacrati.

    Forse meno solenne ma più colorita e a me intonata, appariva la lunga processione alla chiesetta di Semedella per sciogliere il voto pronunciato durante una peste. Si procedeva stretti tra una riga di mare e i giunchi arsi della palude, e io godevo un po’ perfidamente nell’assistere al ritorno obbligato della città alla terraferma. Al termine del rito molti facevano merenda sull’erba, come soleva da noi nel recare la benedizione ai villaggi più lontani dalla chiesa; poi, anziché rientrare per il breve rettilineo, si spingevano a raggiungere l’antica strada del cimitero, e tornavano alle loro case passando per la porta della Muda, avendo così compiuto a piedi quello che era chiamato il giro delle carrozze.

    Di nuovo a rimuginare nel chiuso del seminario, non potevo nascondermi di essere stato colpito da una punizione immeritata. Sì, dovevo riconoscere che l’improvviso imprigionamento all’età di dieci anni era stato una sorta di violenza, la quale si acuiva quanto più cercavo di lenirla o di deviarla. Tanto per incominciare, le ore di sonno erano le stesse, scarse, che rendevano irascibili i giovanottoni già in veste. Nei due casamenti collegati da un portico stagnava un freddo umido che mi fece provare i geloni alle mani. I ragazzi addomesticatisi con l’ambiente inseguivano le cimici tra i letti con la riga a martello, altri avevano la scabbia e altri, deboli di reni, venivano messi a dormire in cortile su brande dai materassi chiazzati di orina.

    Il vero scoglio da affrontare rimaneva il vitto, che si riduceva a piattoni di minestra insopportabile già all’odore, da mandar giù con le lacrime agli occhi fino all’ultima cucchiaiata; o a una crema di fagioli sulla quale galleggiavano gli insetti propri del legume. Mi nutrivo quasi esclusivamente dei rifornimenti di casa, donandone in parte ai più poveri purché mi aiutassero a consumare la minestra sotto l’occhio del prefetto. Ma i panini dolci e le uova sode che il suddiacono, in luogo della sottile fetta di pane scuro, estraeva dalla cesta e mi posava davanti, riproponevano odiosamente la condizione di privilegio che già tanto mi affliggeva al villaggio e di cui mi sarei sbarazzato una volta per tutte solo che quelle minestre, dette di tabacco e di carriarmati, fossero state un po’ meno schifose.

    Denutriti, sonnolenti, intirizziti, alle sei del mattino nel gelo della Rotonda iniziavamo a snidare i nostri peccati, i quali altro non erano se non un’infrazione dell’assurda disciplina, come fosse studiata apposta per provocarli. Il vescovo di Trieste e Capodistria, Antonio Santin, doveva e non doveva conoscere il giusto stato della sua istituzione prediletta se, intrattenendo anche me in paterno colloquio, m’incitò a dirgli i nomignoli appioppati alle due minestre. Non riuscii ad accontentarlo e, arrossendo fin sotto pelle, quando volle aiutarmi mi limitai a confermare col capo.

    Continuavo a dar la colpa dei miei drammi al fatto che la mia famiglia rispetto alle altre aveva il bagno, e dunque i mezzi per tenere due figli agli studi. Ma trovandomi peggio dei compagni lasciati a rubarsi la polenta nelle cucine rischiarate dalla fiamma del focolare, tornavo indirettamente a loro senza sentire tanti complessi. Lo facevo non solo col pensiero ma attivamente, unendomi ai ragazzi dell’interno croato, per lo più evitati, i quali d’estate invece di recarsi al mare avrebbero ripreso il lavoro nei campi accanto al padre e ai fratelli adulti. Ne indossavano gli ispidi maglioni di lana fatti in casa, le brache lunghe fino a terra mentre noi portavamo quelle alla zuava, e avevano addosso un inconfondibile sentore di miseria che sempre mi riportava all’odore dei cassetti semivuoti delle cucine povere.

    Anche in una parrocchia abbastanza omogenea come la nostra, per una sommaria classificazione suggerita dal fascismo penetratovi come di rimbalzo, i più indigenti si delineavano di tendenza slava. Il dialetto slavo, che nell’incontro col veneto ne invertiva le sillabe e ne faceva saltare le vocali (come quest’ultimo si appropriava dei termini croati più piani, ritenendoli suoi), era in prevalente uso tra gli adulti e pressoché d’obbligo quando si parlava con gli anziani. Naturale dunque che gli adolescenti lo stimassero un contrassegno della maturità. Ma per il suo suono aspro, il corso troppo limitato e tuttavia disuguale, ad adoperarlo davanti a un estraneo ci si vergognava come del velo di terra rossa che nessun’acqua levava del tutto dalla biancheria e che il primo sole di marzo stampava sulle facce degli uomini più esposti alla fatica. Di rimando i forestieri, fossero pure della vicina cittadina di Umago, tendevano a metterlo in relazione con le tracce verdi di letame che pure stentavano a scomparire dalle scarpe.

    Gli scivoloni a scuola nella parlata dei vecchi non equivalevano a distratti dialettismi: insolentivano la celebrata lingua italiana, il buongusto, il decoro, persino il pudore. L’incorrervi durante l’ora di riposo era valutato un segno d’insubordinazione anche nel solo istituto scolastico della provincia che mantenesse un corso di lingua slovena per i futuri sacerdoti destinati alle pievi dell’interno. Pertanto nel frequentare i ragazzi di Šmarje e di Pisino, contenti di accogliermi come una mascotte nel loro gruppo e di rivolgermi i vezzeggiativi delle nostre donne più prolifiche che allargavano il loro scialle con frangia corta anche ai piccoli non della loro nidiata, già covavo un principio di rivolta soprattutto contro mio padre che mi aveva mandato agli studi perché mi allontanassi il più possibile dai compagni di scorrerie, dal suo stesso piccolo paradiso per lui irrinunciabile ma troppo stretto per i suoi eredi. Intuivo che secondo i suoi orientamenti il seminario per me era un ripiego imposto discutibilmente dalla guerra (l’altro figlio lo avrebbe ceduto al clero), ma adesso non gli perdonavo di non voler prendere atto di quanto nel frattempo era intervenuto in me, la lacrimosa vocazione, e, quando il vecchio commerciante veniva a trovarci in parlatorio, lo ripagavo con un atteggiamento di superiore distacco che faceva male a entrambi.

    La guerra finì e, stando al mio puerile giudizio, finì in maniera impensabile, addirittura canzonatoria se non avesse sollevato intorno a noi soltanto panico: avevano vinto gli slavi, ma questi slavi si dichiaravano comunisti, erano cioè nemici di Dio e pertanto nemici dei preti. Sui muri opposti della calle Eugenia comparvero scritte rosse con consonanti insolite; dalla vicina piazza del Brolo, che si apriva dall’abside del Duomo, sfilavano verso il rione dei pescatori autoblinde e camion militari.

    Un drappello per metà in divisa entrò anche nella casa delle vocazioni. Il maggiore dei miei nuovi amici, prossimo alla vestizione, si offrì a interprete, divenendo come per incanto uno di loro, e li guidò dal rettore. Ne conseguì che l’anno scolastico chiuse con un mese di anticipo: tutti a casa e tutti promossi.

    Avevo tanta smania di tornare, che non aspettai il negoziante in biroccino. Mi unii ai passi tanto più lunghi del fratello e dei paesani oltre la campagna di Salara, su per Šmarje, giù verso la valle del Dragogna, tra le colline di Pàdena e quelle di Corte d’Isola. Quando loro si sedevano, io procedevo con la mia vocazione, e, non più scorto, la facevo riposare. Successe che arrivai al paese prima di tutti, prima anche di lei.

    Fu un’estate di baldoria dopo cinque anni di rinunce e di paure, le nuove autorità da principio non badavano ad altro che a contentare la popolazione. Mio padre sospirava, e impallidiva poi dei suoi sospiri. Negli ultimi anni, si può dire da quando lo conoscevo, non gli andava bene nessuno: coi fascisti che venivano a circuirlo da Umago e da Buje recalcitrava, coi tedeschi meglio non aver da fare, coi partigiani ora usciti dai boschi bisognava vedere. Una sera lo avevano eletto per alzata di mano presidente del comitato locale, e qualche settimana dopo, in seduta ancora plenaria nella mia prima scuola, un giornaliero taciturno si limitò a osservare « Allora, tutto come prima? », e lui non domandava altro che di esserne esonerato.

    Lui, l’uomo più facoltoso e spendaccione della parrocchia, doveva preoccuparsi di che vivere. I suoi commerci di latte e vino con Trieste, separata da un confine e governata dagli anglo-americani, erano scoraggiati prima ancora di venir bloccati; nell’euforia generale i mezzadri si erano dimenticati di consegnare la metà del raccolto; mia madre, da padrona incontrastata della bottega di alimentari, avrebbe messo la firma per diventarne la gerente.

    Il nervosismo in famiglia mi contagiava, tanto più che i coetanei durante la mia assenza avevano assistito ad avvenimenti che trovavano ora il naturale seguito senza investirmi. Ma la stessa partenza, per me punizione e per loro magari promozione discriminante, sleale, aveva comportato una frattura che non si aggiustava. Si creava tra noi un pesante disagio; e più cercavo di ridurlo, più lo gravavo di malintesi. Nel mio convinto riadattarmi a loro, scorgevano una finta degnazione, nelle confidenze su alcuni fatti capitatimi, e che indirettamente li includevano, il tentativo traverso di far sentire la mia superiorità. In risposta ridevano per sottintesi a me impenetrabili, e più spesso per una parola, un gesto, un rumore volutamente volgari.

    Mi costrinsi a raccontare un episodio che mi aveva turbato e che in loro doveva sollevare opposta reazione. Le suore restavano irriconoscibili anche dietro la grata della Rotonda durante le sacre funzioni, ma due figlie di Maria, laiche, avevano libero accesso al dormitorio per le pulizie, e il triestino Lupis un mattino si era dato malato. Nessuno seppe fino a quale punto si fosse spinto il suo ardimento. Venne isolato per tre giorni a pane e acqua in uno stanzino, dove piangeva, smaniava, picchiava contro le pareti (per tutti noi indignati, compiaciuti e forse lontanamente invidiosi, era un vero lupo in trappola), e dopo una consultazione col vescovo fu rispedito a casa.

    « Tu hai visto? » m’interruppe secco il capobanda. Negai col capo e lui: « Allora si sta zitti » mi ammutolì.

    Le cose non andavano meglio coi seminaristi del paese, guidati dal fratello. Qui, sul terreno nostro, avevano tutte le buone ragioni per rinfacciarmi sia l’infatuazione di Capodistria, sia l’umiliante inseguire i figli di coloro che si pronunciavano per il nuovo regime. Si trattava di persone mai tenute in considerazione per miseria congenita, insipienza, fannullaggine; oppure appartenevano a famiglie normali delle frazioni più isolate che già ai tempi dell’Austria avevano rappresentato l’ala croata e durante il fascismo avevano avuto qualche fastidio. Ad essi si aggregavano quanti dalla nuova situazione potevano trarre maggior profitto: in primo luogo i mezzadri, aizzati a tener lontano il padrone dal suo campo e, se renitente, a malmenarlo. Si formò per reazione la catena del partito oppositore: proprietari, gente di chiesa o solo amante la quiete e il buon ordine, operai e pensionati che ritiravano il mensile a Trieste.

    Intorno al parroco si stringevano soprattutto i finti aspiranti al sacerdozio, che per continuare ad alloggiare in seminario dovevano recarsi ogni mattina a messa (e alla domenica miravano a cacciarsi nei balli all’aperto). Io che la vocazione continuavo a trattenerla dentro tra mille strappi, venivo tenuto in scarso conto dal buon don Pietro, tutto preso anche lui dall’ascolto dei giornali-radio e dal commentarli sulla scorta degli avvenimenti che surriscaldavano la nostra zona. Né maggiore attenzione mi riservavano i fedeli amici di papà, pronti a rimpinzarci di prosciutto e formaggio pecorino pur di sentir confermati con lessico più accessibile gli impegni presi dai governi occidentali sul confine conteso. Un episodio trascurabile, in apparenza scherzoso, portò un brusco chiarimento nella mia confusione interna. Ogni secondo sabato dormiva da noi il maestro della banda, un vecchio di Pirano il quale prima di ritirarsi nella sua stanza intratteneva mio fratello, gran commentatore politico, in un fitto e sommesso scambio di opinioni. Appena irruppi una sera in tinello, spettinato e scalmanato per la corsa, l’ospite mi squadrò dai capelli alle gambe rosse di fango. Aveva lasciato cadere il discorso. Poi mostrandosi allarmato, in parte per gioco e un poco sul serio, con la cantilena interrogativa del suo dialetto, domandò all’interlocutore: « No ’l sarà miga un družo¹? ». Mio fratello scoppiò in una risata per rassicurarlo, e quasi si scusò del mio aspetto col domandarmi dove mi ero cacciato per ridurmi in quello stato.

    A dispetto di un certo mutamento esterno, la vita a Capodistria pareva assai meno cambiata che da noi. Le insegne dei negozi e degli uffici pubblici, rinnovate, recavano scritte bilingui; bandiere jugoslave e italiane con la stella pavesavano, insieme a lunghi striscioni rossi con falce e martello, i palazzi più imponenti e quasi interamente la piazza del Duomo; per le strade larghe un movimento come impaziente, nervoso, di truppa a piedi, a cavallo, sui camion e in motocicletta. Ma in risposta la popolazione sembrava ancora più chiusa e compatta. I passanti si salutavano a voce alta con una sospensione allusiva, la folla degli operai incolonnata davanti al molo brontolava per il lento controllo della milizia popolare, alla sfilata di un drappello di soldati che all’improvviso uscivano nel grido di zdrau, zdrau, zdrau², capitava di udire un commento trattenuto ma distinto: « In malora! ».

    Nulla poteva indispettire di più questa gente che l’udire la parlata dei contadini elevata a lingua e pronunciata con una disinvoltura che era una sfida. Pareva che proprio contro di essa la nobile cittadina avesse innalzato le sue mura merlate intorno alla porta della Muda, la vicina fontana a guglie di piazza del Ponte, gli archi ogivali della Loggia, gli stemmi del palazzo pretorio. E questa animosità esisteva da sempre, da quando nemmeno si profilava l’idea di una nazione jugoslava e l’elemento slavo era rappresentato da timidi contadini distribuiti fuori del giro delle carrozze, i quali venivano a fare compere per l’intero mese sforzandosi di esprimersi in veneto, mentre le loro donne in accesi abiti a fiorami giravano a vendere il latte e pure venivano derise per la parlata alla quale si costringevano. Forse perché figlio di una donna che da ragazza aveva pure trascinato i vasi di latte per le calli di Pirano, mai sarei riuscito a capire del tutto per quale strano senso di superiorità e insieme d’insicurezza, ben prima dell’inevitabile contrattacco ci si fosse accaniti contro questa popolazione disarmata, fino a molestarla durante il fascismo con spedizioni punitive ritenute legittime, se non sacrosante, dentro ai suoi paesi. Ora si era prodotto un capovolgimento di fronti e ogni buon capodistriano si limitava a giudicarne le conseguenze, certamente incresciose, che adesso toccavano lui. Oltre ad essere slavi, i vincitori della guerra si dichiaravano, come ho detto, contro la proprietà e contro la religione, per cui a trovarsi colpiti qui erano proprio tutti: preti e persone pie, commercianti e aristocratici, operai e mendicanti d’ininterrotta tradizione e mentalità italiane.

    Il governo era e durò militare non solo perché così avevano stabilito le grandi potenze nell’affidare l’amministrazione provvisoria di questo territorio al piccolo alleato jugoslavo che vantava diritti addirittura su Trieste, ma anche per la semplice ragione che tra le persone del luogo non si sarebbe trovato nessuno disposto a collaborare.

    Dopo alcuni mesi si fece avanti un giovane col pizzo e un’aria tra il moschettiere e l’intellettuale, già studente al ginnasio. La sua immagine comparve presto su tutti i manifesti bilingui quasi per mantenere desto in ogni luogo e in ogni ora della giornata l’odio più acceso che Capodistria forse mai avesse coltivato per un suo figlio. Non valeva ad attenuarlo la considerazione che il suo cognome Kralj (Re) fosse palesemente dell’altra lingua: il grado sociale del padre, un avvocato, e l’aver egli frequentato il ginnasio Combi, palestra di patriottismo, ne avevano infatti consentito la completa assimilazione.

    A differenza dei ritratti dei personaggi politici ricorrenti in tutta la stampa del mondo e qui freddamente sbirciati, il suo appariva spesso sfregiato o lordato di sputi. Consapevole e forse pago, da un palco imbandierato il neopresidente del comitato popolare cittadino scandiva a fronte alta in italiano ciò che in precedenza era stato pronunciato in sloveno. Per strada cingeva la sua bella, provocante ragazza con un’intimità che nessuno aveva mai osato. Lo detestavano anche per la prestanza fisica, quasi essa accrescesse il già vistoso cedimento al nemico. Quando infatti nella giunta gli si affiancò il ragazzo Defavento, capodistriano ad ogni effetto ma molto meno appariscente e come impacciato al nuovo passo, l’odio non si bipartì ma lasciò posto al disprezzo.

    Un’isola di resistenza si creò all’interno del seminario, malgrado che alle preghiere consuete si fossero aggiunte quelle per i nostri persecutori. Nelle aule scolastiche le lezioni continuavano a venirci impartite, per un magro stipendio, da professori in pensione e professori a metà, alcuni dei quali scovati tra i nobili dediti allo studio. Vi figurava il buon padre di famiglia che non ce la faceva con la sola paga di maestro ed era il mio insegnante di tutte le materie, ma anche il grecista trasandato, lo storico antifascista e persino anticlericale, un conte in ghette e panama che si voleva dimesso dal manicomio. Tutti ora s’intonavano tra di loro e legavano coi superiori in veste scura nel soppesare i fatti del giorno al riparo degli alti cancelli di ferro. Ma approfittando dell’ansietà serpeggiante dovunque e salita fino in direzione, o lasciandosi sfiorare dal ribaltamento intervenuto fuori, i convittori si erano orientati verso un’obbedienza assai meno supina.

    Perché fossero bandite le ripugnanti minestre, ora che la guerra era terminata da un pezzo, i maturandi si astennero dal mangiare, pur comparendo regolarmente in refettorio. Per punizione e perché i minori non ne venissero contagiati, durante l’ora dei pasti fu loro comandato di restare in studio. Nella delicata situazione il rettore non sapeva come imporsi, temeva che una pena più grave potesse trapelare all’esterno. Peggio ancora chiedere consiglio al vescovo, uomo impulsivo capace d’intervenire di persona proprio quando il suo nome era qui bersaglio preferito e in lui, nativo di Rovigno, s’indicava l’antislavo incallito, uno dei caporioni dei circoli reazionari triestini che istigavano il nuovo governo di Roma e i suoi alleati per un’azione di forza in Istria.

    Alla direzione non restò che cedere; sui nostri tavoli comparve addirittura la carne, grazie al buon cuore – ci fu precisato – dei benefattori più prodighi della pia istituzione. Ma parecchi degli scioperanti vennero convinti del debole fondamento della loro vocazione e invitati a cercarsi il loro domani nel mondo. Queste partenze isolate mi paralizzavano, accompagnate com’erano da una benedizione che mi sembrava piuttosto una condanna irrevocabile.

    I ragazzi slavi gareggiavano in buona condotta e in devozione, intendendo così anche dimostrare la loro maggiore pietà a confronto degli italiani, quasi una predilezione di Dio per l’umile gregge da sempre trattato come i primi cristiani. Erano più uniti che mai, un filo invisibile ma pronto a tendersi collegava gli alunni delle medie coi liceali in veste. Attratto da una compattezza che oltretutto accresceva anche a me gli anni, provavo a provocarli osservando che la nuova autorità slava disprezzasse tutto ciò che aveva a che fare con la chiesa. Ostentando impassibilità e una certezza pure concertata, mi replicavano che questa era soltanto la minoranza comunista che aveva approfittato del caos della guerra per assumere il comando, ma presto sarebbe stata spazzata via dalla vera volontà popolare. A Pisino, m’informavano con tono quasi complice, si andava costruendo il nuovo seminario per sacerdoti croati, sempre più necessari adesso che si era tornato a predicare nella lingua materna e le chiese tornavano ad affollarsi. Nel prossimo autunno avrei potuto iscrivermi anch’io e un giorno sarei stato pastore di anime semplici, povero tra i poveri ma in sintonia con gli innocenti e con la parola dei vangeli, lontano dall’artificiosità e dal carrierismo propri degli italiani.

    Erano prospettive e richiami non privi di fascino per me attratto dall’ambiente dei bisognosi perché istintivamente respinto da quello dei prepotenti; ma avvertivo che qualcosa stonava anche dalla loro parte, non si accordava completamente con le mie aspirazioni. Li sentivo vicini finché rivendicavano i diritti dei padri a venir considerati alla stregua degli altri, non più quando, elevandoli all’eccesso, cercavano di contrapporre i pregi del loro popolo. Allora mi riuscivano più estranei degli italiani, anche perché li conoscevo meno: nessuno dei compagni di mio fratello mi avrebbe picchiato con l’accanimento perfido del condiscepolo Pamich. Pensavo e pregavo in italiano; come avrei legato con dei fedeli le cui ansie più intime s’intonavano con le modulazioni segrete di un’altra lingua? Ogni dubbio, ogni contrasto spuntato dentro di me, anziché appianarsi nel più civile e vasto mondo che avevo davanti, mi riportava fatalmente alla parrocchia selvatica di neanche mille anime, pur tanto cambiata e in via di diventare irriconoscibile. Mi si configurava come punto d’incrocio di due fiumi che poi avessero ripreso a divergere sempre di più.

    C’era invece chi, al massimo vertice rispetto a me e per il quale io ero il più piccolo dei suoi accoliti, continuava a considerare l’intera zona comprendente Trieste come un tutto inscindibile, a dispetto del confine che la dimezzava.

    Monsignor Santin, che qualcuno definì vescovo da crociata, aveva rischiato il martirio quando a guerra finita si era recato nel castello di San Giusto per convincere un gruppo di soldati tedeschi a deporre le armi. Gli era andata bene. Pur nazisti, quei soldatacci erano sempre di religione cristiana o la loro assurda resistenza era un suicidio che aspettava di venir disinnescato. Adesso il presule decise di sfidare una spartizione militare e politica che minacciava di stabilizzarsi, a danno della sua Istria. Vedendosi l’unica autorità superstite che abbracciava entrambi i territori, si aprì al suo Dio e credette di riceverne consenso.

    L’occasione gli era offerta dalla solennità di San Nazario alla quale non era mancato neanche durante i bombardamenti. Pare che il generale a capo del governo alleato lo avesse di persona sconsigliato, e i nostri stessi superiori non nascondevano il nervosismo. In piedi dall’alba, ripetutamente eravamo passati dal dormitorio alla Rotonda per vestirci di cerimonia, spogliarci e ancora rivestirci. Troppo vicina nel tempo e pressoché analoga l’impazienza provata alla mia cresima, per non ricordarla. Era stata fissata per l’otto settembre, giorno dell’inatteso armistizio e del fuggi fuggi dei soldati italiani anche per le nostre campagne. Il parroco aveva esaurito tutti i santi officî, dalla messa alla benedizione e al rosario, e il vescovo ancora non arrivava. Molti dei compagni si erano staccati i nastri dal braccio, i padrini erano usciti a fumare sotto il campanile, i vestiti bianchi delle bambine parevano andare appassendo. Alle due del pomeriggio non ci restò che tornare a casa a consumare senza motivo un pranzo di eccezione.

    Sua eccellenza arrivò questa volta quando nel dormitorio due miei amici croati tenevano stretto un condiscepolo di Umago il quale scalciava perché gli avevano tolto il cappello quadrato che egli pretendeva di portare alla pari dei liceali. Al cigolio del doppio cancello spalancato e all’agitazione subito propagatasi nei due cortili ci racconciammo alla svelta e scendemmo. Il prefetto ci mise in fila per due in ordine di statura (venivo fastidiosamente a trovarmi sempre primo) e in cotta bianca e veste nera, il messalino stretto nel pugno, raggiungemmo il cortile del secondo casamento, dove il vescovo era salito a salutare il rettore.

    Uno schiamazzo improvviso ci fece voltare: proveniva dal primo cortile e andava crescendo. Ci parve ir principio che anche l’impazienza tra i devoti in Duomo fosse traboccata. Poi sul vociare indistinto si levarono urla e imprecazioni di uomini e donne, inconcepibili le italiane, ancora più minacciose quelle in sloveno. Dall’arcata costeggiante la sala del refettorio avanzarono all’aperto del cortile persone che non avevano nulla da scambiare col seminario né parevano far parte della cittadina. Fino allora avevo visto recare disordine e paura singoli scalmanati, poi soldati in uniforme nazista e fascista. Adesso erano molti civili insieme, di ambedue i sessi, e pertanto non ne capivo l’animosità. Mi parevano lavoratori, piuttosto che dei poveri in canna: taluni biondi e scialbi potevano confondersi coi nostri contadini, altri bruni e lesti, nella tela blu delle fabbriche, avrebbero dovuto metter loro soggezione.

    Mi sfuggiva il peso e il significato di insulti quali reazionario, guerrafondaio, e un po’ meno quello di fascista già affibbiato a mio padre. Ma rabbrividivo alle ingiurie con cui di solito si offendevano le donne: lanciate ora all’indirizzo del vescovo anche da un paio di quelle ossesse. Alcuni liceali tentarono di contrastare l’avanzata furiosa e finirono in veste e cotta a terra, nella polvere, per me già motivo di sacrilegio. Avrebbero osato mettere le mani addosso al vescovo, il solo a poter usare tutti gli oli santi?

    Una decina di inferociti raggiunse la doppia gradinata e penetrò nell’edificio. Un prefetto ci intimava: « In chiesa! In chiesa! », un po’ come a bambini che non devono assistere ad atti di violenza, e in parte come se nella Rotonda – quella, sì, invalicabile – avremmo trovato riparo e magari energie per contrattaccare. Il superiore ci dirigeva a forza usando le mani, quando il vescovo nei paramenti sacri comparve sulla scalinata proteggendosi il capo nudo con le braccia e, cacciato avanti a calci e spintoni, per poco non ruzzolò in cortile. Il grosso del gruppo gli fu addosso aumentando le grida, frammiste ora a esclamazioni di soddisfazione e a qualche risata ancora più agghiacciante. Prima che il prefetto mi trascinasse via riuscii a vederlo colpito da un pugno in piena faccia, e un rivolo di sangue gli scendeva dal collo e già gli aveva macchiato l’amitto.

    Avevo gridato, la gola arsa e il resto del corpo intirizzito; eppure desideravo assistervi ancora, come a un che di sommamente proibito che mi solleticava la radice dei sensi e insieme mi produceva un male sordo. Era il massimo della dissacrazione a cui mi fosse stato dato di trovarmi presente, e allo stesso tempo mi pareva di partecipare a una violenza così concorde, risoluta, temeraria, che per vie oscure si ricongiungesse a una sfera ugualmente sacra. E anziché attribuire quella efferatezza all’empio, cinico mondo di città, venivo come richiamato a uno scatenato ambiente di campagna dove gli adulti anche uccidono con le mani.

    In cappella ci fu ordinato di estrarre il rosario dal cassetto del banco. Nelle risposte quasi cantavamo per vincere il terrore che riemergeva durante la recita del diacono quando lo schiamazzo esterno si rifaceva sentire e pareva dilagare nell’intero convitto, portare sconquasso e scherno persino tra le nostre povere cose. Era successo che un gruppo di fedeli in Duomo, avvertiti dell’accaduto e corsi in difesa del vescovo, si erano scontrati coi suoi aggressori. Udimmo poi le sirene della milizia che disperse gli uni e gli altri, caricò monsignore su un’autolettiga – era stato anche tagliuzzato in volto con una lametta – e lo trasportò fino al confine per affidarlo alla polizia alleata.

    L’intrepido e ultimo vescovo italiano di Capodistria sfuggì anche questa volta al martirio: tornerà a rivedere la sua Istria per mare col fior fiore dei compatrioti esuli, e a un miglio da Rovigno; gettate le ancore, la barca desterà i sospetti della milizia costiera che la circonderà e, dopo consultazioni con Belgrado, le farà riprendere il largo. Con quella lontana sfida, risoltasi nel sangue, oltre a raggiungere il suo quarto d’ora di notorietà mondiale, il vescovo metteva a nudo l’intenzione politica e le passioni che fino a quel momento si erano andate soltanto delineando nelle due zone. Pare che agli attentatori sloveni della periferia si fossero aggregati operai italiani di Isola, in secolare rivalità da campanile con Capodistria, e volontari raccolti nei rioni operai di Trieste, dove la figura del vescovo patriota non era più amata che sul Carso sloveno. Si commentò pure che la coincidenza della festa del patrono con un giorno altrove feriale, che aveva regolarmente riempito il piroscafo dei lavoratori occupati a Trieste, avesse risparmiato un più esteso conflitto e forse una strage.

    Poco tempo dopo, un episodio di minore rilievo tornò a toccarci, e più direttamente. Chi lo vuole connesso al precedente, chi provocato a sua giustificazione o addirittura quale completamento. All’interno del seminario se ne indicò il sobillatore in uno degli scioperanti liceali espulsi, appartenente all’entroterra croato, il quale, deposta la veste, aveva indossato il cappotto di cuoio della polizia segreta. Stavolta penetrarono, in minor numero e con minor baccano, dalla porta sulla calle buia di cui si servivano i superiori e in caso straordinario le monache. In quell’ala del fabbricato si trovava il deposito semisotterraneo dei viveri.

    Nel vedere nuovi estranei in tenuta di lavoro trasportare per il cortile sacchi di legumi e di farina, damigiane di olio e di vino, pezze di lardo, prosciutti di cui nessuno aveva sospettato l’esistenza, pensammo a una requisizione destinata alla truppa o a gente ancora più affamata di noi. Rancide, ammuffite, persino brulicanti di vermi, le provviste tenute in serbo da anni vennero deposte ai bordi del cancello sulla calle Eugenia, dove ben presto si radunò una folla che s’indignava adesso per le privazioni subite da un centinaio di aspiranti preti. Con una scena non troppo dissimile il regista Eisenstein aveva fatto iniziare la rivoluzione bolscevica; a Capodistria l’episodio segnò la fine della casa delle vocazioni.

    Dovevamo provvedere al nostro avvenire di studenti per sempre in calzoni come i figli della borghesia locale che frequentavano il ginnasio-liceo di Stato. Mio fratello, dotato di eloquenza, trovò pensione dal più anziano degli insegnanti del seminario: il caustico e berteggiato storico cittadino nonché autore di commedie in dialetto, fatte su misura per la moglie che dava anche lezioni di piano. Posto per me non ce n’era, nonostante la nostra alta offerta e la loro quasi miseria. La stanza buona era stata requisita a favore di un impiegato triestino, pure in forza presso la polizia politica, e il fratello doveva accontentarsi di un camerino. Per di più il vecchio burbero, mezzo cieco, che in casa pareva ripassasse la parte di uno dei suoi personaggi, aveva preso a detestarmi fin dal nostro primo incontro, quando, indeciso se entrare nell’appartamentino intasato di libri da bancarella, gli avevo fatto scappare la gatta.

    Il professor Venturini parlava direttamente soltanto alla sua Pinotta, una ungherese sposata in seconde nozze, con la quale intesseva fitti battibecchi simili a quelli da lei sostenuti sulla scena. Con nessun altro usava il pronome personale, quasi sapesse di essere conosciuto anche tra i bambini col nomignolo di calcaòvi per il passo lento e cauto del suo camminare, che tuttavia non gli impediva di compiere ogni giorno – il colbacco calato sugli orecchi e il bastone saldo nel pugno – il giro delle carrozze. Nella sua lunga vita lo storico aveva puntualmente sbagliato scelta politica, per dispetto, non per opportunismo. Durante l’alleanza tra Italia e Austria aveva fondato la rivista irredentistica Pagine istriane, ma nell’anno dello sfacelo asburgico si rivelò austriacante; antifascista in pieno fascismo, poté vivere delle lezioni offertegli dal rettore del seminario che, se non badò troppo al suo anticlericalismo, non pensò neanche di versargli i contributi per la pensione; si conciliò con Mussolini al suo ultimo guizzo con la Repubblica di Salò. Adesso il locatore di mio fratello aveva tutte le ragioni per considerarsi assediato in un’isola nemica, però vedeva il nuovo regime scagliarsi in primo luogo contro coloro che da sempre erano stati i suoi avversari: nobili, monsignori e soprattutto gli insegnanti del ginnasio-liceo, i quali al disprezzo alternavano l’indifferenza, perché egli non era nemmeno di qua, proveniva da Pola. Peccato che i nuovi amministratori, in sintonia coi defunti austriaci nell’osteggiare il patriottismo locale e pure loro perseguitati dal fascismo, gli avessero fatto piovere in casa quel criptopoliziotto Leghissa (da lui pronunciato Leghiiiscia), il quale si portava la femmina in camera e sul comodino aveva più di una volta dimenticato la pistola. Il vecchio studioso se ne vendicava come poteva: anticipava le pulizie del mattino soffermandosi a usare la scopa soprattutto sotto la porta dell’inquilino, e mandava le sue note storiche al Giornale Alleato di Trieste.

    A me l’alloggio privato lo offersero le circostanze non liete in cui eravamo venuti a trovarci. In una retata condotta villaggio per villaggio la milizia arrestò gli uomini più refrattari al nuovo corso, segnalati dai rappresentanti del popolo. Insieme a quattro paesani, mio padre fu rinchiuso nelle carceri distrettuali adattate in una palazzina sorgente nel cortile del tribunale, che faceva angolo col palazzo pretorio. Le finestre dell’ultimo corridoio degli uffici giudiziari, dove mia madre aspettava invano di essere ascoltata, davano sul cortiletto dei detenuti. Li vedevamo passeggiare in silenzio, non più di due per volta, senza che la guardia appostata sotto il muro riuscisse a scoprirci. Mio padre ci notò e da quel giorno salivamo in tribunale soltanto per scambiarci dei mezzi messaggi. Avevo anche individuato la sua cella e, se lui non compariva in cortile, mi portavo nella calle parallela a quel braccio di piazza, sostavo nell’orinatoio di cemento per informarlo delle cose di casa, rivolto verso l’inferriata. Con due colpi di tosse lui segnalava di avermi udito.

    A sostare nei pressi del carcere eravamo per lo più noi, persone di campagna, esposte all’animosità retroattiva dei paesani raccoltisi sotto la nuova bandiera. E contrariamente a come dovevano apparire in passato i parenti dei carcerati, noi di quella campagna venivamo a rappresentare la crema, già dal vestire. Un’anziana, che sembrava invece del luogo, cominciò ad aggirarsi per gli stessi corridoi, ancora più pavida e sperduta delle nostre madri. Ad esse si aprì solo dopo aver appreso che avevano il marito in prigione. Lei vi aveva il figlio da oltre un mese, pure senza conoscerne la causa. Le insegnammo il trucco di spiare nel cortiletto da quelle finestre alle quali anche lei si era appoggiata per ore senza saper trarne profitto. Suo figlio era proprio il giovane scuro appaiato a mio padre e dunque suo compagno di cella. La donna, un po’ pesante, pallida, in scialle nero ę con lunghi pendagli d’oro alle orecchie, non riuscì a trattenere le lacrime: si mordeva le labbra salutando il figlio e per poco non sveniva.

    Mia madre l’accompagnò a casa e da allora quando tornava a Capodistria era solita recarsi da siora Rita a scaldare il cibo per il marito e poi insieme andavano a consegnare le marmitte al carceriere. Questi molte volte serrava loro lo spioncino in faccia senza aprire la porta ferrata. Non ci restava allora che portare il pollo arrosto o il vitello impanato al parente sacerdote che mi aveva offerto ospitalità provvisoria nel suo alloggio alla casa del clero, l’ex palazzo di tutti i vescovi della città con la sua alta scalinata in pietra e i susini intorno, che guardava a piazza del Brolo e alla fiancata del Duomo.

    Talora il pranzo respinto lo recavo al fratello per rendermi meno spiacevole al professore, il quale lo accoglieva brontolando in astratto. Era anche una buona forchetta e tra tutte le dominazioni passate la sua preferenza si era stabilizzata verso quella austriaca, quando con do’ fiorini ti compravi un agnel, per Dio!. Se però comparivo a mani vuote, lui incominciava a sbuffare, ricordava a Pinotta che la sua casa non era un albergo fino a prova contraria, e le intimava di cercare la gatta.

    Un tardo pomeriggio, dopo che l’involto di casa ci era stato respinto e io lo avevo affidato al fratello, partita mia madre e trovandomi tutto solo in piazza, pensai di ritentare col carceriere. Usai le poche parole di sloveno corretto apprese in seminario, e lui mi fissò con aria tra compassionevole e divertita, sorrise: « Torna pure col fagotto, moccioso, per stavolta passi ».

    Mi parve così straordinario l’assenso ottenuto, che niente avrebbe potuto trattenermi dal mandarlo a effetto; credevo che tutti avrebbero dovuto rallegrarsene. Tornai di corsa in casa Venturini dove sul tavolo fumava una bella polenta con la quale onorare nel modo più consigliato il pollo ruspante in guazzetto. Già sulla porta mi precipitai a dare la buona notizia, la gatta al sicuro sulla spalla del padrone che la lasciava servirsi dal piatto. A ripensarci era un annuncio ben crudele e non certo indispensabile, ma io volevo anche farmi vedere più intraprendente del fratello e poi pensavo che a casa propria, con la polenta rovesciata, una cena la si può sempre rimediare.

    La signora Pinotta levò la pentola dal fornello, ne vuoto il contenuto nella marmitta, avvolse questa nel tovagliolo e me la riconsegnò. Batté forte col tacco per prevenire la reazione del marito che ancora non si capacitava, forse più incredulo che orbo. Il cucinino saturo di un silenzio troppo compresso saltò in aria non appena fui con l’involto sulle scale: non mi facessi più rivedere, contadinasso della malora, e poi nessuna persona onesta era mai finita in prigione fino a prova contraria!.

    Finii per stabilirmi da siora Rita, preoccupata di vedere la camera del figlio occupata da un ufficiale bosniaco. Mi spiaceva dover sloggiare da don Tomizza, dove mi ero trovato come in famiglia con la vecchia madre, le due sorelle non sposate, un nipote tolto alla zappa e messo a frequentare l’istituto nautico. Da loro non mancava l’olio né il vino di casa che i fratelli mandavano mensilmente, poiché in campagna avere un prete in famiglia era il massimo dei crediti, non certo privo di responsabilità. In tutto quel vasto parentado non solo non si bestemmiava né si saltavano le funzioni accessorie in chiesa, ma bisognava evitare le liti e le compagnie da poco, non farsi vedere ubriachi o scomposti, per non disonorare un titolo ottenuto con le doti di uno e il sudore di tutti. Per me il breve soggiorno al pianoterra del palazzo vescovile ombreggiato da alberi da frutto, diviso con un paio di famiglie di militari, fu un passaggio morbido dal seminario a una comune casa di città. Adesso entravo veramente nella vita di Capodistria.

    La mia camera dava sulla calle che menava dritta al ginnasio, un fabbricato imponente, pure tra alte mura, che nel cortiletto interno accoglieva la torretta del sommergibile di Nazario Sauro. Dal vetrino che congiungeva la doppia finestra potevo osservare le teste dei condiscepoli avviati verso le otto a scuola. A due letti, come la nostra al villaggio, invece che con mio fratello la dividevo col secondogenito Deponte, il quale lavorava a Trieste e rientrava solo a sera, spesso per uscire subito e recarsi con l’oboe nella custodia alle prove della sua orchestrina. Non avevo ancora incontrato persona a cui desiderassi maggiormente somigliare. Alto, scarno, i capelli lisci ma neri sul volto pallido, che non si sarebbe mai arrossato, egli figurava l’esatto opposto di come mi vedevo. E al fisico corrispondevano il carattere e il modo di fare: asciutto, controllato in ogni gesto, eppure capace di scatti improvvisi. Trattava anche sua madre con finto compatimento, o meglio con un’ironia che si sentiva accettata.

    Aveva subito colto il mio cruccio di essere uno di campagna e quello che ridicolmente consideravo il suo immediato effetto, la prova incontestabile: l’avere i capelli ispidi e castani, né ricci né biondi né bruni. Per quest’ultimo inconveniente, probabilmente emerso durante il confronto coi nuovi compagni della classe mista, Nino Deponte assicurava esserci un rimedio: la prodigiosa brillantina liquida chiamata olio di noce, a cui aveva fatto ricorso lui medesimo. E quando riuscii non so come a procurarmela (o non me la portò lui da Trieste?) condusse ancora avanti la burla dandomi istruzioni sull’uso e stimandone i risultati, fino ad aspettare la reazione di sua madre nel cambiare la federa del cuscino. Quanto al provenire dall’entroterra, che loro definivano indistintamente Istria, la canzonatura era più scoperta e pressoché continua, trovando pretesto da ogni mio passo, per ridursi a un semplice commento sospeso: « Bisogna aver comprensione… ».

    Per l’assenza assoluta di malanimo, divenne un gioco costante per scambiarci affetto. Fingevo qualche volta d’impuntarmi fino a ingaggiare un corpo a corpo che mi vedeva sempre perdente; oastava una sua mossa repentina e scaltra, da felino di città, a mandarmi ruzzoloni. Sua madre lo sgridava non per mancanza di riguardo a un estraneo ma perché mi considerava quasi un figlio minore piovutole dal cielo, che la riportava indietro nel tempo.

    Neanche a casa avevo mangiato altrettanto bene, con mia madre assorbita dalla sua bottega e la cucina affidata a una ragazzetta sulla quale gravavano tutte le altre faccende. Siora Rita era nata donna di casa, i suoi pranzi ricchi di contorni e sempre variati non s’improvvisavano. Nel forno a legna cuoceva giornalmente dolci e persino il pane bianco, poiché quello in vendita era rimasto il pane scuro del primo anno di guerra. Il marito del resto, falegname di pochissime parole, pretendeva essere servito con la cura e la puntualità di chi è metodico nell’esercizio del suo mestiere. Dovevano mangiare ancor meglio del solito dal giorno in cui il figlio maggiore si trovava in carcere: la madre gli trasmetteva le sue ansie ammannendogli ogni ben di Dio, come a me era capitato alla cresima mancata. Alla sera si prendeva il suo svago recandosi dalla futura nuora, in pena come lei, e mi voleva con sé.

    Tra palazzi seminascosti e alti muri di orti, tagliavamo verso Callegaria, l’affollata viuzza dei negozi soprattutto di calzature da cui prendeva il nome. L’attraversavamo per portarci nella calle del medico condotto e sbucare

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