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Le mie estati letterarie
Le mie estati letterarie
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E-book167 pagine2 ore

Le mie estati letterarie

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Info su questo ebook

Dicono che le opere compiute determinino la grandezza di un uomo: ma forse, più ancora di quelle, sono le occasioni mancate, i rimpianti e le trasgressioni a definirlo maggiormente... Con questa full-immersion nella mente e nella sensibilità di Fulvio Tomizza – testimone inestimabile dell'esodo istriano di metà Novecento e scrittore di rara lucidità – non è possibile rimanere indifferenti. I testi qui raccolti sono stati gli ultimi ad essere effettivamente selezionati dall'autore, morto, fin troppo precocemente, nel 1999. Vi si trova di tutto: dai pensieri e le aspirazioni giovanili alle cupe divagazioni della maturità (segnata da un'ostinata chiusura in sé stesso), dalle meditazioni politiche a quelle morali. Di fronte a chi legge si staglia così un monumento al Tomizza uomo a tutto tondo: italofono di ascendenza contadina in un'Istria destinata ad essergli strappata; marito complicato e incostante, ma capace di un amore assoluto quanto disperato; cittadino del mondo, pellegrino intellettuale e avventuriero sentimentale. Insomma, umano, umano, troppo umano... -
LinguaItaliano
Data di uscita29 mag 2023
ISBN9788728560426
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    Le mie estati letterarie - Fulvio Tomizza

    Le mie estati letterarie

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright ©2001, 2023 Fulvio Tomizza and SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728560426

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    INTRODUZIONE

    di Cesare De Michelis

    La raccolta degli scritti autobiografici di Fulvio Tomizza, che ora si pubblica, è l’ultima costruita dall’autore scegliendo tra le molte pagine d’occasione che era venuto accumulando negli anni mentre tornava insistentemente a riflettere sui grandi nodi che avevano segnato la sua esperienza di uomo, di cittadino e di scrittore, alla ricerca di un’interiore coerenza che ogni volta sembrava sfuggirgli e di nuovo inseguiva caparbio.

    Nonostante la ricchezza della sua bibliografia – più di trenta sono i suoi libri stampati – e la varietà dei suoi temi, Tomizza è rimasto fedele a se stesso, alla sua origine contadina e terragna, in sintonia con la quale ha ricostruito le drammatiche vicende del cambiamento rivoluzionario all’indomani della guerra e al tempo stesso dell’esodo di massa in Italia, lasciando case e cose, se non addirittura la vita.

    Successivamente la sua attenzione si è rivolta alla storia per riconoscere le radici più antiche del destino istriano e poi ancora ai misteri di un’interiorità tormentata, avventurandosi nella quale c’era il rischio di smarrirsi per sempre, mentre lui riguadagnava ostinato il racconto e la sua illuminante ricostruzione dei fatti.

    Negli scritti d’occasione, come questi raccolti, si manifesta un Tomizza al quadrato, che riflette su se stesso, ricostruisce il proprio itinerario biografico, fa i conti con la tradizione e la storia e coraggiosamente affronta le divisioni politiche, etniche e religiose con la certezza che nessuna frontiera ha scavato un solco incolmabile, anzi che i valori che accomunano tutti gli uomini sono più numerosi e più forti di quanti li dividono e li contrappongono.

    Colpisce, ogni qual volta si manifesta, l’attenzione per la natura e la sua inarrendevole vitalità, per l’esuberanza con la quale si esprime fino a capovolgersi nel suo contrario, come nell’abbraccio soffocante dell’edera che stringe a morte l’acero solitario ai margini del bosco.

    Nella serie dei mesi prevale, invece, la generosità della terra, il suo continuo rinnovarsi, stagione dopo stagione, sempre eguale a se stessa e ciò nonostante sempre sorprendentemente diversa, proprio come la vita, che non finisce mai di stupirci.

    La geografia di Tomizza sta tutta dentro al quadrante mitteleuropeo e persino quando si allarga è per confermare più forte la centralità di Trieste e dell’Istria; disegna, quindi, un piccolo mondo domestico niente affatto uniforme e conosciuto, anzi paradossalmente attraversato dai venti più imprevedibili e bizzarri che ne ridisegnano ogni volta il paesaggio, sia che vengano dal divenire dei tempi che trascinano popoli diversi verso lo stesso mare, sia che improvvisamente si divertano a scombinare qualsiasi equilibrio, rivelandone l’intrinseca precarietà.

    Terra di confine è questa del golfo triestino, dove l’Adriatico si chiude ad arco tra spiagge dolci e distese e speroni di roccia a picco sui flutti, mentre la terra si frammenta in decine di isole grandi e piccolissime; e uomo di confine è lo scrittore condannato a scegliere da che parte stare, benché il suo animo appartenga a un mondo e anche all’altro, così che ogni volta non riesce ad accettare il destino e si sforza di tornare sui suoi passi per raggiungere nuovamente il bivio e riproporsi l’alternativa, ripetendo comunque il sacrificio e l’errore di scegliere.

    L’uomo di confine per sua natura sconfina, non sta né di qua né di là, va su e giù, eternamente inquieto e insoddisfatto, doppio senza essere ambiguo. Così non ha mai una sola lingua e nessuna è davvero la sua; per ogni cosa, sentimento, esperienza ci sono parole diverse per dirle e, anche quando si è deciso di scrivere in italiano, i pensieri si esprimono come vogliono loro nella lingua della memoria, che rimescola molti dialetti, lingue diverse, croato, serbo e persino qualche traccia che viene da più lontano.

    Tomizza, poi, è un intellettuale impegnato; è nato il 16 gennaio 1935 a Giurizzani, nei pressi di Umago, e della sua generazione condivide passioni e tormenti: bambino ha vissuto la guerra e poi il dopoguerra, ha atteso con speranza la pace e condiviso l’entusiasmo dei vincitori, ha assistito all’imporsi della rivoluzione partecipe, ha lavorato fianco a fianco coi reduci e i partigiani a radio Capodistria, è persino andato a Belgrado per diventare un cineasta della nuova Jugoslavia.

    Ha sofferto quando i compagni aggredivano i suoi familiari e imprigionavano il padre, incerto su chi fosse responsabile di tanto disastro; ha tradito prima il padre e poi i compagni, davvero sopraffatto dalla violenza della storia, fino a quando ha accettato di farsi italiano.

    La terapia per Fulvio ha sovrapposto e mescolato scrittura e psicanalisi, memoria e introspezione, fino alla limpida luce meridiana di un racconto compiuto che disegnava il destino e lo rendeva leggibile: ha cominciato raccontando di casa, ricostruendo le avventure sue e dei conterranei, per poi risalire nel tempo attraverso i libri della parrocchia e slargarsi nello spazio appropriandosi di altre esperienze lontane e remote.

    A raccontarla con le parole della letteratura ogni vita si rivela sensata, ragionevole, comprensibile, e così è stato anche per Tomizza, che parlasse di sé, della ragazza di Petrovia, del sagrestano di Materada, di Maria Janis, di Pier Paolo Vergerio, di Stanko e di Dani Vuk, o di chi altro sia; i suoi personaggi, fissati sulla carta, immersi nella storia, rivivevano non senza dolore, ma riconoscendo il proprio destino, consapevoli.

    Quando lo scrittore parla del suo lavoro, ripercorre le tappe della sua avventura letteraria è lucido e determinato, non conosce incertezze o titubanze: a ripensarsi Tomizza riconosce la propria coerenza, il rigore di un itinerario che non ha altro scopo, altro traguardo, che la verità, e così sulla pagina il suo senso di colpa scolora e l’angoscia cui si accompagna si attenua.

    Si potesse soltanto scrivere sarebbe più facile, ma tocca anche vivere, e così bisogna ricominciare da capo il tormento di fare chiarezza, senza sosta fino alla fine.

    Dieci anni fa, il 21 maggio 1999, Tomizza se n’è andato: per un verso sembra ieri e nei pensieri è facile riprendere il colloquio con l’uomo che cercava e donava amicizia e solidarietà per poi improvvisamente chiudersi in una cupa solitudine e in un disperato pessimismo; per l’altro è passato un secolo e si è voltato pagina, cosicché certe sue ansie ideali e morali appaiono terribilmente distanti, quasi più non ci appartenessero.

    Rileggere le sue pagine, quelle più definitive e solenni e queste più divaganti e quotidiane, serve a capire cos’è accaduto, a riflettere su quanto il mondo è diverso oramai.

    PARTE PRIMA

    NEL GOLFO DI TRIESTE

    Una troupe televisiva di Rai uno mi ha voluto ospite di una sua trasmissione sui nostri beni culturali e ambientali, dedicata quella settimana al golfo di Trieste. Da una motovedetta della guardia di finanza di Venezia ho potuto osservare l’intero, molteplice avanzamento, quasi una cupola, con cui l’Adriatico spinge al massimo le sue acque a settentrione e, incontrando differenti conformazioni di terraferma, offre un compendio di tutti i tipi di costa marina. Nell’ampio ventaglio si succedono la laguna gradese (che di là prosegue fino a Venezia), i lussureggianti estuari dell’Isonzo e del Timavo, le falesie (ossia gli strapiombi rocciosi) di Duino, le saline che un tempo costituivano la principale risorsa economica di Trieste occupandone le rive fino a Zaule e che ora sopravvivono soltanto nell’istriana Sicciole, oltre il confine di stato ma sempre dentro il golfo triestino. A questi aspetti contrastanti dell’ambiente marino sono corrisposte fasi storiche le quali privilegiano a turno i diversi elementi naturali, in seguito a un susseguirsi di domini in urto tra loro ma sostanzialmente prosperati l’uno sulle ceneri dell’altro. E quanto mi si offriva alla vista erano i resti ancora saldi oppure ridotti a ruderi di tali potestà.

    Da Duino, che fu il luogo d’imbarco, si riusciva a scorgere al limite dell’orizzonte il campanile di Aquileia, divenuta nel ii secolo a.C. la seconda metropoli romana, voluta quale centro di raccordo delle conquiste militari a nord e ad oriente, luogo anche di fusione e di smistamento di popolazioni differenti, allo stadio ancora barbarico e tuttavia già provviste di una propria religione; via di transito di prodotti tipici del settentrione, quali l’ambra importata dai Paesi baltici e diretta a Roma. S’intravedevano pure i dossi e le isole di Grado dove, dopo la distruzione di Attila nel 452 d.C., ripararono con un patriarca aquileiese le genti sbaragliate dagli unni, le quali si sarebbero sospinte verso Venezia con un successivo patriarca per creare l’embrione della gloriosa repubblica marinara. Il potente patriarcato di Aquileia, sopravvissuto alle calamità e alla concorrenza di Grado, confinante con l’arcidiocesi di Salisburgo, con Como da un lato e Zagabria dall’altro, entrerà in conflitto con la Dominante veneta estesasi alle coste istriane. Quest’ultima sarà ostile a Trieste, la conquisterà per breve tempo in due riprese ma anche la doterà del vantato castello sovrastante la cattedrale di San Giusto. Piccola colonia romana, raggiunta da un gruppo di cristiani staccatisi da Aquileia e alla cui scuola si educherà il martire Giusto, poi libero comune impedito dai veneti di usufruire del proprio mare, Trieste sarà costretta a darsi agli arciduchi d’Austria e conoscerà il suo grande balzo nella seconda metà del Settecento quando gli Absburgo la designeranno porto dell’impero. Nel sorgere dell’imponente scalo marittimo, secondo in Europa dopo Amburgo, Ippolito Nievo ravvisava nelle Confessioni l’ulteriore riduzione di Venezia, la cui spinta propulsiva era venuta meno ancor prima della fine della Repubblica, decretata da Napoleone, e del suo incorporamento nel mosaico austroungarico.

    L’escursione marittima lungo le coste del golfo mi spalancava questo intreccio di storia succedutasi a vari stadi, ora a beneficio di una sua parte, ora dell’altra; e mi prospettava i segni tuttora vivi di tale causale e insieme naturale alternanza di splendori. Ecco il castello di Duino ancora abitato dai discendenti dei principi Turm und Taxis, appaltatori delle poste tedesche e ospitanti tra gli altri ingegni il poeta praghese Rilke le cui Elegie duinesi immortalano il nome del posto, nel quale i massi del Carso, penetrato con determinazione estenuante dal fiume Timavo, si arrestano come incantati dalla distesa marina. E poi il castello di Miramare, bianco nei suoi bastioni merlati quasi a dimostrare il poco uso domestico che la coppia arciducale d’Austria ne fece per inseguire richiami di maggiore grandezza in Messico e ridare agli Absburgo un impero nel quale il sole non tramontasse mai.

    Trieste ci viene incontro con il faro della Vittoria, a cui subito seguono le banchine e gli edifici identici tra loro e regolarmente allineati del porto vecchio, primo ricetto per i profughi istriani e poi tornati a costituire un borgo morto nella città. Colpisce questa dotazione doviziosa, intatta nelle sue strutture neoclassiche e inutilizzata da oltre mezzo secolo; così come sorprende amaramente che la città in tutta la sua conca non abbia aggiunto nulla al già fatto in epoca remota, se si escludono le abitazioni che affollano i suoi colli e chiudono l’arco delle rive con uno stridente grattacielo. Nella rapida panoramica si intravede la sua originaria ossatura a triangolo, quel modello custodito in tante raffigurazioni nella destra del patrono San Giusto, che si diparte dalla vetta della sua cattedrale e si allarga sulla piazza grande, centro di gravitazione dei successivi palazzi sette e ottocenteschi i quali ospitano compagnie di navigazione, sedi municipali e governative, chiese di ogni culto secondo lo spirito di una città mercantile e laica, rispettosa dunque del credo e delle tradizioni altrui. Lembo estremo del suolo nazionale, Trieste inalbera la sua italianità, com’è naturale in questo secolo nel quale si sono combattute due guerre mondiali e si è vissuto un aspro dopoguerra per conquistarla e assicurarla all’Italia. Ma se estendiamo la riflessione ai secoli precedenti, mentre conserviamo nello sguardo la sua struttura urbanistica, non possiamo non riconoscere che la sua funzione primaria è quella di attrarre e amalgamare nuclei di etnie, di culture e di civiltà diverse. Il suo futuro nel Duemila sarà reso possibile soltanto da un ripristino di tale ruolo e di tale spirito.

    L’escursione si conclude a Muggia, termine vero del territorio statale

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