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Materada
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E-book187 pagine2 ore

Materada

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La tragedia di un popolo narrata da uno dei più grandi scrittori di frontiera del Novecento.Primo volume della celebre Trilogia Istriana, "Materada" è un romanzo dalle forti tinte autobiografiche, che racconto di un'epoca tristemente ben nota a Fulvio Tomizza: quella dell'emigrazione forzata di migliaia di istriani dalle proprie terre ataviche verso un'Italia ostilmente indifferente alla loro sofferenza. Protagonista del romanzo è Francesco Koslovic, contadino istriano impegnato nel disperato tentativo di conservare la proprietà del terreno su cui lui e il fratello hanno lavorato per una vita intera. Tragedia famigliare, quindi, ma anche collettiva. La storia, narrata senza filtri e con la commossa partecipazione dell'autore, non può lasciare indifferenti... -
LinguaItaliano
Data di uscita29 mag 2023
ISBN9788728560389
Materada

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    Anteprima del libro

    Materada - Fulvio Tomizza

    Materada

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright ©1960, 2023 Fulvio Tomizza and SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728560389

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    Introduzione

    di Mauro Covacich

    Ho pensato che fosse giusto andarci. Mai come in questo caso conoscere il libro non è sufficiente per parlarne. In realtà, da ragazzo mi sono goduto parecchie gite sulle spiagge istriane, ma chissà perché dalla costa è raro spingersi nell’entroterra senza un motivo preciso. Così stavolta decido di farlo. Salgo in macchina e parto, con la sensazione di un falso movimento, una specie di corsa sul posto: da Trieste ci si mette meno di un’ora. Supero i resti, per non dire i ruderi, di quello che è stato il confine con la Slovenia – ovvero, fino al 1990, il confine con la Jugoslavia – l’arcigna muraglia nota come Cortina di Ferro, ora ridotta a un paio di sbarre arrugginite. Attraverso il confine con la Croazia, anch’esso poco più che simbolico, nonostante i precetti paranoidi di Schengen, e proseguo nel morbido saliscendi della statale 21, detta anche strada del vino, pensando a quanto assomigli a quella del vicino Collio goriziano e rievocando in modo direi quasi automatico il tempo in cui, prima del 1954, questo posto si chiamava ancora Zona B, cioè zona del Territorio Libero di Trieste amministrata dalla Jugoslavia. Ed è così che i triestini hanno continuato a chiamarla ancora a lungo, ben dopo il Memorandum di Londra del ’54, ben dopo il Trattato di Osimo del ’75, quando, sancita in via definitiva la sovranità titina, anche i locali come noi dovevano munirsi di passaporto non potendo più affidarsi al lasciapassare da frontalieri. In Zona B si veniva a comprare carne e a fare il pieno di benzina. Era un costume tollerato a denti stretti dai doganieri italiani, gli stessi denti stretti che accoglievano gli istriani alla dogana jugoslava quando rientravano con i jeans acquistati a Trieste (città ridiventata italiana nel ’54, dopo il lungo protettorato americano, ma ancora per lunghissimo tempo Zona A di tentazioni e commerci per tutti i Balcani). Torniamo però alla mia missione sulla statale 21.

    È una limpida mattina di gennaio. Ulivi, vigneti, muretti a secco. Il sole intride di luce il profilo dolce della campagna senza ancora la cattiveria che sfoggerà tra qualche mese. Salgo al paesino di Buje – la capitale del mondo secondo Francesco, l’io narrante del libro – e ridiscendo dal fronte opposto quasi a passo d’uomo, verso Umago e il suo mare, quella striscia azzurra quasi solida, sbalzata sul fondale del cielo come in un disegno da bambini. So che incontrerò un groppo di case chiamato Materada pochi chilometri prima di raggiungere il litorale.

    Guidando, rifletto. Ci sono scrittori che impiegano anni, talvolta decenni, per trovare la propria voce. Quasi sempre iniziano sommessamente, poi la alzano, la abbassano di nuovo, finché si riconoscono nella giusta tonalità – di solito si tratta di una rivelazione oggettiva che condividono con il loro pubblico – e vi si accordano per il resto dei giorni. In altre parole, diventano se stessi piuttosto tardi. Ci sono invece scrittori che trovano la propria voce appena aprono bocca, e la paternità unica di quella prima nota è così evidente a tutti che non sarebbe quasi necessario aggiungerne il nome. Diventano, sono, subito se stessi, e il modo in cui il loro canto ha rotto il silenzio nessuno potrà mai dimenticarlo, né tantomeno scambiarlo con quello di un altro. Ebbene, Fulvio Tomizza appartiene a questa seconda categoria, il romanzo che avete tra le mani è l’inizio del suo canto inaudito.

    Inutile dire che iniziare la carriera con quello che la critica ritiene unanimamente un esordio folgorante comporta il rischio di venire schiacciati dal successo o comunque di non riuscire a ripetersi allo stesso livello: avere trovato subito la propria voce non dà la garanzia di saperla usare sempre così. Quanti sono i grandi esordienti diventati presto autori di un solo libro, penso avvicinandomi al paese. Ebbene, non è certo il caso di Tomizza, il quale ha inanellato premi e riconoscimenti fino alla morte, giunta prematura all’età di sessantaquattro anni, quasi a trattenerlo dentro i confini del Ventesimo secolo. Ma anche trascurando questo dettaglio di superficie – Tomizza è scomparso il 21 maggio del 1999 nell’ospedale triestino di Cattinara – viene spontaneo considerare la sua opera come corpo vivo del novecento europeo.

    La vicenda umana e artistica dello scrittore istriano risulta quanto mai emblematica per la storia gonfia di sangue della Venezia Giulia, ma getta forse una luce ancora più intensa se si allarga il campo al destino dell’intero continente. Il microcosmo di Materada è espressione di un territorio conteso da nazionalismi uguali e contrari che hanno ignorato la peculiare complessità della popolazione autoctona, cresciuta sulla linea di fusione di due interi universi culturali, lo slavo-continentale e il latino-mediterraneo. Come scrive Scipio Slataper già nel 1912: Slavo, figliolo della nuova razza, sei venuto nelle terre che nessuno poteva abitare, e le hai coltivate. Hai tolto di mano la rete al pescatore veneziano, e ti sei fatto marinaio, tu figliolo della terra. […] Tu sei fratello del contadino russo, e sei fratello dell’aiducco montenegrino […]; e la grande, la prosperosa, la ricca Boemia è tua. Se allarghiamo il campo e immaginiamo di osservare dall’alto, il mondo che permea da nord-est nel tessuto poroso di queste terre non finisce con la Slovenia e la Croazia. E sul fronte opposto, spingendo da sud-ovest, si muove ben più dell’avanguardia irredentista dannunziana: c’è tutto il mondo mediterraneo che filtra sotto gli scogli e i vigneti dell’Istria, c’è la salsedine, l’aria calda del meridione, e una pianta i cui cespugli ogni ottobre esplodono di rosso come tanti piccoli incendi nella campagna e il cui nome – sommacco – deriva dall’arabo summaq. Dall’arabo. Eccola, Materada. Se osserviamo bene, ci sono tutto l’Oriente e tutto l’Occidente a premere sulle sue case: non solo i postumi contraddittori del secondo conflitto mondiale, ma la storia plurisecolare di una mescolanza così radicata da apparire congenita.

    Chiedo indicazioni a un uomo sui sessanta intento a bruciare sterpi. Tomizza era tornato a vivere qui molti mesi all’anno, si era preso una casetta dove scriveva e curava l’orto. La ricordo descritta coi scuri blu. L’uomo conferma, mi spiega come arrivarci, passa subito al dialetto dopo i miei stentatissimi convenevoli in croato. È una parlata veneta, quasi identica al dialetto triestino, con continue integrazioni di parole slave. Ma succede anche il contrario: in molte parti dell’Istria parlano un dialetto slavo pieno di screziature italiane, talvolta anche intere frasi. Una delle maggiori difficoltà per tracciare il confine sulla Venezia Giulia, al tempo dei trattati di pace del ’47, era proprio la presenza disomogenea di comunità italiane e slave che, nell’Istria in particolare, assumeva la classica conformazione a macchia di leopardo. I centri abitati della costa e quelli più popolati dell’interno erano prevalentemente italiani, ma già i villaggi dell’immediato entroterra erano slavi. A ciò va aggiunto che, soprattutto in questi ultimi, si passava da una parlata all’altra senza soluzione di continuità. "Come sempre in caso di affari e di cose importanti, parlammo in slavo: po nasu (alla nostra), come si usa dire dalle nostre parti" afferma a un certo punto Francesco, il cui cognome, a seconda che nel romanzo venga pronunciato da uno slavo o da un italiano, viene scritto Kozlović o Coslovich, traslitterato senza k secondo i dettami del Ventennio. Talvolta la variazione tradisce sfumature politiche, come quando l’oste esclama Molim, drugui, izvolite (prego, compagni, favorite): Io gli diedi un’occhiata, ma senza nessuna intenzione (anche se lo slavo che ora parlava lui era una cosa e quello che parlavamo noi in famiglia era un’altra) ed egli cambiò disco. ‘Allora, Franz mio, come va?’, disse in italiano. Ma nella stessa osteria scoppiano anche scaramucce del tutto scherzose, dove gli avventori abituali alternano indifferentemente battute in un dialetto o nell’altro.

    Questa specie di indecidibilità, che forse ha un carattere ancora più profondo del bilinguismo, non va mai dimenticata mentre si legge Tomizza. Si tratta dell’humus culturale di cui si è nutrito il suo particolarissimo italiano, che ha poco in comune con quello elegante, aristocratico, di un altro istriano come Pier Antonio Quarantotti Gambini, essendo piuttosto una lingua avvinta alle cose, profumata di terra, genuina e lirica per la stessa naturalezza con cui prorompe, e si fa discorso ruvido, scomodo, di verità. Come Quarantotti Gambini, anche Tomizza ha studiato al Liceo Combi di Capodistria, ma è un uomo dell’interno che conosce la vita dei campi, o forse sarebbe meglio dire, la sente, come si sente l’umidità nelle ossa. Della campagna, Materada ci restituisce l’armonia, l’incanto e la sua brutalità, l’attaccamento viscerale di chi se ne prende cura come qualcosa che appartiene non solo a una comunità, o a una famiglia, bensì al proprio corpo e lo prolunga in un organismo più grande, di cui è facile avvertire l’afflato cosmico. C’è poi, a impreziosire il romanzo, l’uso consapevolmente minoritario dell’italiano, un uso straniero della lingua madre o, se si vuole, materno della lingua straniera – un uso intensivo, per servirsi di una metafora agricola – che, mutatis mutandis, può essere comparato al tedesco scelto dal cittadino boemo Franz Kafka e che, questa volta sì, accomuna Tomizza e Quarantotti Gambini. Due scritture diverse, eppure unite in un inestricabile sentimento di appartenenza a una non-appartenenza, strette da un legame indissolubile e sempre doloroso alla terra natia come al luogo in cui, paradossalmente, un italiano non potrà mai sentirsi fino in fondo a casa. Lo stesso che sapersi di due mondi opposti, senza essere radicato in nessuno dei due. Un’identità dilemmatica, possibile solo nel dimidiamento.

    La casa dovrebbe essere questa. Muri in pietra, imposte blu. Chiedo alla giovane donna in tuta sportiva che sta stendendo i panni in cortile. Ride, le imposte sono appena state dipinte dal marito. È una croata trasferitasi qui dall’interno, forse da Zagabria, chissà. Mi dà nuove indicazioni. Si accorge che fingo di capirla e passa presto all’inglese. Sembriamo due ispettori dell’Onu impegnati a scambiarsi valutazioni sul campo, tutto uno sbracciarsi, straight on, turn left, non stiamo certo dando un bell’esempio di Mitteleuropa. Se ci vedessero i nostri avi!, penso ringraziandola. Ho trattenuto solo che devo dirigermi verso Giurizzani. Il paese è minuscolo, quattro vie intersecate a losanga, troverò.

    Continuando a cercare, ormai al limitare del bosco, mi imbatto nel cimitero. E’ adiacente alla chiesetta, come sempre in questi paesi. Non c’è nessuno intorno, il silenzio è interrotto qua e là dal cinguettio delle cinciallegre. Mi avvicino titubante al cancelletto, ma non è chiuso come pensavo, basta toccarlo e già sento il rumore dei miei passi sul ghiaino. Non ci vuole molto a trovare la tomba, sul lato destro entrando, la lapide attaccata direttamente al muro di cinta.

    Passò a miglior vita/ Prijede u bolji zivot/

    Odsel v boljse zivljenje

    FULVIO TOMIZZA

    Scrittore/ Knjizevnik/ Pisatelj

    Materada 1935 – Trieste 1999

    Qui riposa/ Pociva obdje/ Pociva Tukaj

    Italiano, croato, sloveno, le tre lingue del posto, iscritte anche solo nella grafia dei nomi sulle altre tombe di famiglia: sorelle, cugini, nonni, che sono partiti Hrvat, sono arrivati Crovatin e sono tornati Rovatti, per morire qui, uniti sotto la stessa lastra di marmo. Ci sono anche diversi Kozlović Coslovich, naturalmente, ma nessun Francesco. Dopo vari tentativi e un altro scambio di battute con un tizio intento a spargere mangime in mezzo ai suoi tacchini dai mille bargigli, alla fine riconquisto la statale. Lasciandomi alle spalle Materada punto verso Giurizzani, meno di un chilometro e ci sono.

    L’azione del romanzo si svolge in questi due paesi, subito dopo il Memorandum del 1954. Restate nelle vostre case, noi torneremo incoraggiano i proclami patriottici. Era proprio Quarantotti Gambini a dirlo dalla sua Radio Venezia Giulia, l’emittente clandestina da lui stesso installata sul Canal Grande dopo la rocambolesca fuga di nove anni prima, da una Trieste liberata dai titini. Restate nelle vostre case, facile a dirsi, ma intanto i druzi ballano Tito Kolo alla festa paesana e cantano in croato sotto la stella rossa. I primi italiani a partire furono quelli della Dalmazia, subito dopo l’Armistizio. Dal ’45 fu la volta degli istriani: prima gli abitanti del litorale, poi la gente dell’interno, quella che non poteva certo caricarsi sulla barca i poderi, come faceva con le bestie e le galline. Parliamo di circa quattrocentomila esuli, che ora magari saremmo propensi a chiamare boat-people, approdati a Trieste e da lì distribuiti nei campi profughi dell’intera penisola. Un epos strumentalizzato per decenni dai neofascisti in ottica revanscista, e poi, in epoca post-ideologica, semplicemente banalizzato per dimenticarlo più in fretta. A rimanere in Istria furono meno di ventimila italiani, la maggior parte dei quali con la speranza che Francesco non esita a dichiarare al segretario locale del partito: Da quando mi ricordo, qui da noi sono venuti dapprima gli austriaci, poi gli italiani, dopo i tedeschi; infine siete venuti voialtri. Tutti se ne sono andati, ed erano più forti di voi. Io stesso ho visto cadere prima l’aquila, poi il fascio e la croce uncinata. Perché un giorno non dovrebbe cadere anche la falce e il martello?

    Ma il racconto è molto meno manicheo di come appaia dalle mie parole, ed è questo il pregio morale, prima ancora che letterario, dell’io narrante alter ego dello scrittore. Materada viene pubblicato nel 1960, Tomizza ha poco più di vent’anni quando indossa i panni di un uomo fatto – nella finzione Francesco è un quarantenne di una volta, solido, responsabile, che sa guardare lontano – ma l’esodo è quel genere di esperienza che matura una persona nell’attimo stesso in cui viene vissuta: allo scrittore ventenne non occorre un grande sforzo per immaginarsi più vecchio. Francesco ha aiutato i partigiani, la sua famiglia è slava. L’onestà gli permette di riconoscere la bontà degli ideali da cui, all’atto pratico, sono scaturite le piccole meschinerie personali, i soprusi, le vendette. La riforma agraria era una nobile iniziativa, ma finisce per colpire anche piccoli proprietari, coltivatori diretti come i due fratelli protagonisti. Il nuovo regime porta con

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