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I Fucili di Mazzini
I Fucili di Mazzini
I Fucili di Mazzini
E-book549 pagine8 ore

I Fucili di Mazzini

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Info su questo ebook

Nato a Posada e residente a Nuoro. Laureato in Lettere con una tesi di Sociologia della Letteratura.
Già insegnante di Letteratura Italiana e Storia negli Istituti Superiori Statali. Attualmente in pensione, ma dedito agli studi di Storia e di Letteratura, alla costruzione di imbarcazioni tradizionali in legno, alla navigazione a vela e alla coltivazione nell’agricoltura.
Ha pubblicato alcuni saggi di storia e da ultimo il romanzo L’Isola degli Inizi (Sassari 2018, ed. Carlo Delfino), che ha avuto un discreto successo di pubblico.
LinguaItaliano
Data di uscita31 mag 2023
ISBN9788830684089
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    Anteprima del libro

    I Fucili di Mazzini - Salvatore Italo Deledda

    Prefazione

    La storia che ci accingiamo a raccontare, riguarda il passato del Regno di Sardegna alla vigilia della cosiddetta Rivoluzione Italiana e dell’Unità d’Italia, quando hanno avuto inizio tante cose, che forse non hanno ancora cessato di cominciare, in relazione a un’Italia ancora non del tutto unita e resa finalmente omogenea nelle sue diverse parti.

    Senza voler stravolgere una tradizione storiografica ormai consolidata affidiamo al paziente lettore, che abbia ancora sensibilità e interesse per le vicende dell’Italia, questa storia, che (speriamo) forse lo impegnerà nelle sue riflessioni personali anche più del tempo che vorrà impiegare nella lettura.

    Nel quadro delle vicende italiane tra il 1848 e l’Unità si dipana l’esperienza umana e politica del protagonista, Giorgio, già canonico presso il seminario vescovile della diocesi barbaricina di Nuoro. Dopo avere abbandonato la veste talare, essendo stato eletto deputato alla Camera di Torino, si dedica allo Spaventoso Programma di riforma della società tradizionale, sedendo tra i banchi della opposizione parlamentare.

    In questa sorta di personale trapasso culturale e politico parallelamente si manifesta il passaggio da una società tradizionale rimasta arretrata ed emarginata nei secoli delle dominazioni straniere a una società in cui, all’indomani dei sommovimenti politici provocati dalla Rivoluzione francese e da Napoleone, si vanno manifestando quei fermenti politici che si configurano nell’aspirazione alla libertà e alla formazione di uno stato liberale repubblicano italiano.

    Dal passo iniziale di affiliazione al movimento rivoluzionario mazziniano, che ha uno dei suoi centri di maggiore rilievo nel retrobottega della farmacia dei fratelli Mojon a Genova, la vicenda si sviluppa secondo i canoni della vita errabonda di tutti i transfughi italiani, che dopo il fallimento dei movimenti del ’48 si disperdono tra Italia, Francia, Inghilterra e Svizzera alla disperata ricerca di solidarietà umana, amicizia e condivisione ideologica.

    I

    Intorno alla metà del mattino nel cortile del palazzo che faceva angolo con una delle vie che scendevano verso il porto, arrivava un venticello che portava l’odore del mare e addolciva l’afa di quel giorno di agosto, mentre nell’intrico dei rampicanti che avevano avviluppato fino a coprire del tutto il muro di recinzione si perdeva il ronzio delle api attorno ai grappoli dei glicini in piena fioritura. A quell’ora del giorno l’aria marina insieme a una certa idea di frescura portava finalmente anche l’estate in un quartiere che per buona parte dell’anno restava senza sole estivo e senza aria invernale. All’interno del cortile sopra una sedia accanto a un tavolino di ferro sembrava sonnecchiasse un gatto, che doveva avere qualche interesse nei confronti degli uccelli che venivano a posarsi sui rami dell’unico albero che campeggiava a poca distanza dalla porta laterale dell’abitazione del piano terreno. Se l’esplosione improvvisa delle campane non interrompeva il silenzio, di tanto in tanto si sentiva il rumore di passi di qualcuno che, mentre quasi tutta la gente riposava, imboccava una di quelle strade in discesa per andare a sedersi su una panchina o su una vecchia imbarcazione in disuso per guardare il mare, dove anche nelle ore più stanche c’era sempre vita, qualche marinaio che andava o che veniva lentamente a bordo di uno schifetto, pescatori che sistemavano le reti, altri marinai che salpavano o atterravano con i loro sacchi dalle imbarcazioni più grandi, o fannulloni che sostavano per vedere trascorrere il tempo mentre qualcun altro si muoveva al posto loro. L’accesso alla farmacia nel quartiere del Fossatello con l’insegna un po’ sbiadita era nella strada principale, dove si affacciavano altri negozi lungo una delle vie più frequentate della città. Nelle scansie retrostanti il bancone facevano bella mostra i contenitori ceramici con le scritte in caratteri gotici delle erbe; mentre il laboratorio dove si confezionavano i medicinali doveva essere in un’altra stanza del tutto separata cui si accedeva attraverso una porta che veniva aperta o chiusa con discrezione da chi era di turno durante le ore di apertura al pubblico. Poteva sembrare eccessiva tanta circospezione nel ricevere la gente, neanche se si fosse trattato come al tempo dei primi cristiani, i cosiddetti Seguaci della Via, che si recavano dai loro fratelli sia che si trovassero nelle lontane Gallie oppure in una delle antiche città orientali, quali Tessalonica, Corinto o Antiochia. Quando Paolo di Tarso con alcuni seguaci sbarcò a Cesarea in Siria venne ospitato da Filippo, un predicatore padre di quattro figlie vergini dedite alla profezia, che gli raccomandavano di non recarsi a Gerusalemme, dove avrebbe corso il rischio di essere arrestato e ucciso. Ma Paolo non era uno di quelli che cambiavano idea neanche davanti a un pericolo di morte, perché era consapevole dell’importanza della posta in gioco, che era appunto la Conquista del Regno. Come le città orientali al tempo di Paolo anche Genova, antica quanto le più antiche città del mondo, era frequentata da gente proveniente dai luoghi più disparati. Nelle abitazioni del centro storico che davano in vicoli stretti e senza sole da sempre conviveva una moltitudine di lingue e culture diverse e tra i molti vi poteva trovare asilo qualcuno che fuggiva dai rigori polizieschi come era accaduto all’antenato fondatore della stirpe dei Mojon, che si era stabilito a Genova essendo fuggito dai torbidi scoppiati in Spagna tra la fine del xvii e gli inizi del secolo xix. I Mojon, nonostante facessero a tutti gli effetti parte della borghesia cittadina avevano conservato qualcosa dell’inquietudine di quell’antenato, tanto che con la casa, la farmacia, gli averi e persino con il loro regime di vita condividevano le vicissitudini dei profughi e dei fuggiaschi che a causa delle turbolenze politiche di quegli anni attraversavano le contrade dell’Italia e dell’Europa.

    La farmacia fin dai tempi del suo fondatore era dunque un luogo speciale non tanto per i prodotti galenici che vi venivano confezionati, quanto per ragioni che non riguardavano le ricette e le prescrizioni mediche. I Mojon, fin dalla loro comparsa a Genova, si erano occupati di medicina e di scienza, in particolare Benedetto junior insigne studioso di medicina e anatomia, che aveva acquistato fama per gli studi sul colera, la terribile infezione che stava mietendo vittime in tutte le contrade del mondo e che veniva combattuta da lui e dall’amata compagna Bianca, artista e scrittrice, che nel campo delle lettere e delle arti eguagliava la fama dell’illustre marito. Bianca Milesi era una personalità straordinariamente eclettica e moderna. Era stata proprio lei a fare della farmacia un luogo di incontro per le menti più inquiete e più aperte del tempo; cioè i cospiratori repubblicani, che attraversando le contrade dell’Europa e del mondo trovavano riparo presso quella comunità di affiliati. Pippo Mojon, figlio di Benedetto, era stato educato fin da piccolo all’amore per la libertà, il verbo ritenuto più caro in quella casa; un verbo, quello della libertà, che si stava diffondendo in forma quasi epidemica proprio come il colera, un po’ ovunque, anche se fino ad allora solo nel segreto degli scantinati o nelle soffitte dei grandi palazzi. Pippo, negli anni degli studi universitari presso la facoltà di mineralogia di Genova, si era appassionato alle ricerche mineralogiche e agli studi sul traffico delle merci nei porti della Liguria e della Sardegna. Un altro genovese inseguito da tutte le polizie d’Europa tesseva la grande tela della libertà per le future generazioni italiche e, come al tempo della gloriosa Repubblica, attraverso le strade di terra e di mare, la Città marinara con il suo porto era ancora il luogo verso cui confluivano gli invisibili sentieri dei migranti della libertà, dove un giorno sarebbe arrivato anche Giorgio, dopo aver lasciato la terra natale. Tra i frequentatori di quel retrobottega ci poteva stare anche quella strana forma di patriota e di democratico, che mentre criticava aspramente un certo precettismo in uso nei seminari, grazie alle letture si era avvicinato sempre più alla setta dei seguaci della nuova Via, mettendosi pure a scrivere di libertà, giustizia e progresso sui fogli e sulle gazzette di ispirazione democratica della città ligure. Né il padre Michele né la madre Rosalìa avevano mai posto il tema della felicità, del vivere felici e liberamente. Forse perché questo argomento non veniva neppure enunciato in una società tradizionale se non nell’idea, l’unica, del matrimonio o dell’unione misteriosa con una donna, ma non nel suo caso, dato che era stato assegnato alla vita ecclesiastica, alla chiusura e alla segregazione che corrispondeva al rovesciamento della vita dell’uomo comune. Ricordava quando da bambino insieme al padre rientrava dalla campagna a dorso d’asino. Il sole al tramonto brillava di luce accecante che invadeva l’anima. Poteva essere quella la felicità o quando con i compagni si immergeva nelle acque del fiume Giordanu che fuggiva verso il mare. Gli anni che erano seguiti erano stati come un turbine che lo aveva sottratto da se stesso. L’estate poteva essere. Oppure qualcosa che si era perduto in un vuoto dal quale non era più possibile estrarla per ricondurla al presente. Il rischio era che si potesse rompere l’equilibrio del mondo. Perché se uno forgia la sua esistenza sulla base di attese impossibili prima o poi dovrà fare i conti con le cose che non si è mai sforzato di comprendere. Perché illudersi tanto se non a rischio appunto di ingannare se stessi? Quello di Giorgio doveva essere un salto paragonabile soltanto a quello delle Sette Leghe; un salto che lo avrebbe messo in contrapposizione non solo con i colleghi della sua Diocesi, ma anche con gli ambienti della tradizione e persino con i suoi stessi familiari, in particolare con lo zio di parte materna, Donnu Melchior, che pure lo aveva sostenuto negli studi, assegnandogli quello che sembrava un sicuro avvenire di prete e di canonico nel Senato diocesano. Col trascorrere del tempo la fasciatura nera della veste insieme all’ambiente che gli stava attorno gli dovette sembrare una orribile prigione. Prima di assumere la decisione di compiere quel salto, che somigliava tanto al trapasso di un’intera epoca e all’approdo in una dimensione esistenziale nuova, si chiedeva se quella gigantesca prova non nascondesse qualche viltà o se non fosse un tradimento nei confronti dello zio Melchior oltreché dei confratelli con i quali si era impegnato attraverso l’inviolabile crisma della sacralità.

    In realtà Giorgio stava costruendo il suo nuovo destino, una grande potente illusione con cui definire la sua vita morale. Una illusione si potrebbe dire venuta dalle letture, concepita così pura e di grado tanto elevato quale la sua indole imponeva. Possiamo dire che questa stessa illusione era pure ragionata anche nei salotti frequentati dai rampolli dell’aristocrazia e persino nella penombra delle sacrestie delle chiese in una realtà pietrificata come il cadavere di una patria il cui nome si era quasi perduto nel buio dei secoli, anche se la costanza e la tenacia con cui l’accarezzava e la nutriva non solo di giorno ma anche nelle notti di insonnia non potevano che essere venute dai precordi e dal mito, dall’inestricabile groviglio dove le strade umane si perdono, si intrecciano e si ritrovano.

    Nel vago intento di ritrovare la stessa indomabile natura degli antenati stabiliva silenziosi colloqui con le misteriose figure dell’infanzia, che ritrovava nel piccolo orto dove erano cresciuti i fichi selvatici e dove i cotogni e i melograni come tutte le specie viventi di questa arida terra vivevano la loro indole più cruda e selvaggia. Non trovava le risposte che andava cercando da tempo. Nel deserto di cose abbandonate e invecchiate del villaggio che gli aveva dato i natali non trovava risposte che non venissero direttamente dal fondo della sua anima. Quel disordine di rovi, erbacce, arredi domestici in disuso, divorati dal tempo, ormai lo atterriva. Si avvicinava a passi lenti alla bottega del fabbro in prossimità della vallata in fondo alla quale un torrente dal nome bizzarro fuggiva verso il mare. Nelle interminabili giornate dell’infanzia aveva trascorso ore a contemplare il ferro, che usciva rovente dalla fucina e scintillante di scaglie infuocate si prestava all’urto del martello prima di trasformarsi in neri arnesi da lavoro. La vecchia porta con ancora impressi i mille segni del fuoco era ormai chiusa e sul piazzale, dove infinite volte avevano sostato i carri lungo la strada che portava nei paesi lontani, restavano ancora le scorie di quella potente magìa. Qualcosa di quel mondo stava ancora lì, in forma di macerie di un’antichissima eruzione ormai spenta, che guardava verso la vallata, che nei gradi più bassi a sua volta volgeva in direzione del mare. Ma l’anima, la vera anima di quel luogo, era fuggita e non restava più nulla dello stupore degli anni passati.

    Il vecchio zio, il canonico Melchior Dore, non aveva condiviso lo strano interesse del giovane nipote per certe idee che stavano corrompendo il mondo, anche se Giorgio si era sempre giustificato dicendo che lo faceva per amore di Patria. Per il vecchio zio potevano esistere soltanto due patrie: quella spirituale, che fu oggetto di "Queste da parte di quel popolo da cui sarebbe nato il Dio cristiano; l’altra, quella isolana, in fondo non meno spirituale della prima, per la quale aveva scritto nientemeno che un Poema in ottave, per fare ammenda, forse, di una giovinezza svagata nella ricerca di vani piaceri mondani, a cantare, in perfetto stile arcadico. Attribuire il sacro nome di Patria a un mondo solo vagheggiato attraverso gli ormai spenti lumi dell’Arcadia forse risulterà eccessivo persino al più paziente dei lettori. Dunque per il Canonico non poteva che essere questa la vera Patria: quella sua e di ogni altro vivente. Giorgio invece voleva fare di ogni città un’officina per fabbricare armi e scuole per ammaestrare i cittadini dai quattordici ai sessanta anni. Insomma, la Rivoluzione! E finché il nipote inseguiva queste intemperanze giovanili passava semplicemente come uno che leggeva i numeri del Pensiero Italiano e ne era profondamente influenzato; ma quando osò attaccare pubblicamente il Generale, mandato dal Governo di Torino a sedare i disordini dei pastori per la spartizione dei pascoli comuni, le cose dovettero assumere connotati assai diversi. Se negli anni precedenti quel militare di alto grado agli occhi della gente aveva acquistato qualche merito per le attenzioni che aveva avuto per la nostra Isola, ora non era che il fratello dei bombardatori" di Genova, che, in quell’anno, sparando sulla folla inerme, avevano riportato il clima repressivo del tempo che si pensava ormai finito dei Viceré.

    Una delle ragioni di maggiore amarezza per un giovane prete era stato l’arresto e la lunga detenzione del fratello, che lo aveva lasciato in uno stato di profonda frustrazione. Un furtarello di buoi per un bittese era solo un malaugurato incidente. Se nella campagna era il pastore padrone incontrastato e gestore dei ruvidi codici della Barbagia, nella città del tribunale la legge del mondo pastorale risultava impotente e il sacerdote poteva e doveva essere il mediatore ufficiale del parentado nei confronti del più sofisticato mondo cittadino. L’arresto di Giovanni coinvolgeva direttamente la vasta parentela, che comprendeva tante altre famiglie, le loro ramificazioni e attraverso queste anche le amicizie influenti nell’Isola e in Terraferma, a Sassari, Nuoro, Cagliari e persino a Genova, Torino e Roma.

    Se il vincolo familiare era il legame primordiale del sangue e della gens, che dagli antenati e dai genitori passava direttamente ai figli e ai discendenti, senza mai estinguersi se non con l’estinzione del sangue stesso, dopo la famiglia veniva il villaggio e oltre il villaggio la regione e attraverso questa l’intera Isola e infine quella Patria, che nell’immaginazione del canonico continuava ad essere un oggetto assai vago di conoscenza.

    Chi pensa che la vita ecclesiastica sia una vita arida da vivere tutta nella solitudine degli affetti e nel distacco dal mondo forse si sbaglia. Può sembrare strano, ma anche la vita sacerdotale riserva allettamenti e prospettive persino impensabili all’immaginare comune. In fondo per uno come il cugino Fedel Mossa, che la veste sacerdotale l’aveva cercata e amata, poteva essere un’occasione straordinaria per appagare un bisogno di protezione. Dopo gli anni del Seminario Fedel si sentiva finalmente amato e accarezzato grazie a quella fasciatura nera, che lo rendeva partecipe di un mondo, che aveva nel Vescovado e nel Senato diocesano il suo centro ideale e fisico, sotto l’Archivolto, il quale a sua volta idealmente avvolgeva e proteggeva la città e il mondo. Nel cugino Fedel Mossa agiva in fondo un disperato bisogno di annientamento e di solitudine. Con quella uniforme avrebbe potuto ridere di quel riso che dà l’idea dell’immutevolezza dell’esistere; perché, la vita (o meglio la concezione che della vita hanno in genere gli esseri umani) è legata ad alcuni semplici ed incisivi ideali del passato. D’altra parte quel mondo arcaico stava lentamente cambiando e la compattezza delle famiglie, già gravemente compromessa da lotte tra i diversi clan familiari scaturite dalla divisione dei pascoli fino ad allora comuni, si stava sgretolando. Certo quegli anni intorno alla metà del secolo furono molto ricchi di mutamenti e talmente pieni di fatti, che persino la vita dei singoli, anche nelle piccole realtà dei villaggi ne rimase profondamente mutata. Quando Giorgio, avendo rinunciato alla carica di penitenziere presso la Curia, decideva di dedicarsi a qualcosa che al partito dei tradizionalisti cui apparteneva suo cugino appariva incomprensibile e dannosa, scrisse una lettera piena di sentimenti e di carità, accomiatandosi dai colleghi con rassicurazioni di fraterna e cristiana solidarietà… C’erano in quella lettera ironia e sarcasmo, motivi sufficienti per attizzare altro odio e invidie. Certo l’idea di dedicarsi alla politica, cioè a qualcosa di simile a un lungo otium della mente, gli dava un’eccitazione unica, come un andare incontro a un altro se stesso. Possiamo dire che in quella specie di nuovo battesimo si infilava come una sorta di virus il dubbio. Come se in un momento indecifrabile un altro si fosse introdotto nelle sue stesse vesti. Lo spiritualismo che aveva ricacciato come il peggiore dei mali, si riaffacciava in lui, nei momenti forse di abbandono e di solitudine. E se la vita degli altri è il conio con cui viene incisa la nostra stessa vita e le nostre stesse azioni, le quali sembra che ci sentiamo in obbligo di dotare con quella certa decorativa dignità o benevolenza, che costituisce l’insieme delle convenzioni nelle quali gli uomini si trovano soffocati, che dire allora di quello che ormai appariva come il romanzetto della sua vita passata? In quel corteo di immagini spezzate della sua gioventù egli appariva così estraneo a se stesso da non riconoscersi più nelle vicende precedenti. Lo stesso sentimento d’altronde avrebbe avuto modo di vivere anche dopo che venne a consumarsi l’esperienza rivoluzionaria del ’48, negli anni in cui bruciavano ancora le ferite del fallimento e della sconfitta. Accadeva che incontrando vecchi rivoluzionari, che in quelle stesse vicende erano passati e si erano come perduti, la conversazione languisse per pudore o vergogna. Restava un vago ricordo, assai simile all’ideale nel quale ognuno di loro considerava se stesso. Come quella generazione di giovani sia uscita dal marasma spirituale è facile a dirsi: fu la cruda realtà, l’atroce prassi politica di quegli anni. Nondimeno Giorgio s’indignava per tutti quelli che si ostinava a chiamare traditori, versipelle e voltagabbana, mentre lui era rimasto tenacemente legato agli ideali rivoluzionari. Tutto questo rientrava perfettamente nel ritratto che gli altri facevano di lui e della superbia tutta paolina per quello spirito messianico di cui si nutriva. Se qualcuno si chiedesse: come mai un affermato e apprezzato uomo di Chiesa, un canonico teologale, avvocato in utroque jure, sulla soglia dei trent’anni venne preso dal vento rivoluzionario? La fucilazione di Chambery ai danni di coloro che avevano semplicemente chiesto la libertà aveva lasciato in lui una traccia indelebile. Era stato come un fulmine che l’aveva sbalzato dal piedistallo delle credenze precedenti e l’aveva gettato a terra. Tutto quello che era accaduto non era solo frutto di fantasia o l’amaro succo di riflessioni da parte delle menti più aperte; così come le chiusure dei terreni non erano solo l’effetto sconvolgente della diffusione della coltura della patata, ma il segno manifesto di brontolii, che non si erano del tutto spenti neppure all’ombra dei vescovadi. All’origine dei ripensamenti e del marasma che poi sarebbe stata anche la sua esistenza come di tutta la sua generazione, una vicenda esiste davvero, qualcosa che possiamo mettere al centro della vita del nostro eroe. Fu la vicenda del Bacolo del Vescovo a offrirgli l’occasione giusta per liberarsi delle catene e dedicarsi completamente a un’azione politica, nella quale veniva contemplata una certa idea di riscatto dell’Umile Ancella, che secondo un frasario recitato quasi a memoria finalmente sarebbe stata degna di sedere in un più ampio consesso politico. Ma ciò che più colpiva era il suo essere persino disposto a versare il suo stesso sangue facendosi martire e testimone della nuova fede! Temperie dell’epoca che trascorreva! L’intero Capitolo venne come travolto dalla tempesta.

    Nel ’52, nei giorni in cui era scoppiata una pericolosa sollevazione popolare e il governo mandava la forza pubblica, era comparso nel ristretto ambiente di Nuoro un libello nel quale venivano pubblicate le caricature delle più alte personalità alla stregua di ridicoli mostruosi nani! Il Generale massacratore con un mozzicone in mano che doveva essere una spada; il Primo Ministro con gli occhialucci e una barbetta che incorniciava il viso piuttosto grassottello con accanto una nidiata di neri mostriciattoli gracchianti (che nella fantasia dell’artista rappresentavano il Senato diocesano)… Era troppo! Nel ristretto ambiente barbaricino non si era mai visto niente di simile. Il Capitolo veniva profondamente scosso da queste note, che i canonici si comunicavano sibilando tra i denti, affinché non trapelasse quello che era nella bocca di tutti. Quelle voci arrivavano anche alle orecchie di Donnu Melchior, che sentiva le forze pian piano venirgli meno. Gliele portavano i suoi parrocchiani insieme ai canestri di fichi e selvaggina con cui volevano addolcire le delusioni della vecchiaia. Il canonico come si dice da noi era ormai entrato in età e malato. Se venendo nella città aveva pensato di metter fine ai problemi di salute, in realtà si era sbagliato, perché l’aria di quel luogo non gli poteva essere di giovamento. Al principio dell’inverno dovette cercare assistenza nella mensa diocesana, dietro pagamento di una pensione. A ben vedere erano gli stessi colleghi del Senato curiale ad essere debitori nei confronti del vecchio prete, che da più di un lustro aveva concesso un grosso prestito in danaro per il completamento della cattedrale. A dimostrazione del candore del suo operato e della limpidezza della sua coscienza c’era la Cappella che a sue spese aveva fatto costruire in onore del Santo patrono della parrocchia che aveva retto per cinquant’anni; il Santo che secondo la tradizione era sceso nell’Inferno per rubare ai demoni il fuoco che voleva portare al genere umano. Al Santo del fuoco il nostro Donnu Melchior sarebbe rimasto profondamente devoto fino alla fine dei suoi giorni. Gli altri canonici lo vedevano pregare in silenzio davanti alla fioca luce ad olio, che ondeggiava come se volesse spegnersi da un momento all’altro, ma non si spegneva mai. Vecchio usuraio! Donnu Melchior non sentiva o faceva finta di non sentire; come faceva finta di non accorgersi se qualcuno osava tirargli le vesti. Forse era il vento o l’anima di un trapassato, una di quelle che aveva accompagnato nell’altra parte del fiume senza farsi lambire le vesti dal fuoco infernale. Nelle lunghe solitudini il vecchio prete avvertiva uno sprofondamento, una caduta leggera, che non si arrestava durante il giorno e di notte gli faceva sentire acuta la malinconia, una dolorosa vertigine, un desiderio di sfinimento, una discesa inarrestabile dell’anima verso un passato lontano. Nell’ambiente curiale risultava insopportabile che un uomo avesse accumulato tanto danaro da vantare un patrimonio grande quanto quello di don Ignacio, il feudatario della Baronia di Posada che viveva a Madrid. Ma al momento in cui si doveva mettere fine alla interminabile fabbrica della non si era trovato altro danaro se non quello del vecchio canonico Dore. Contro di lui e contro il nipote giansenista e repubblicano si erano indirizzati gli odi del clero cittadino. Tanto più l’invidia si accaniva contro lo zio, tanto più le capacità del giovane nipote brillavano in un ambiente clericale quasi senza guida, da quando l’ultimo vescovo si era ritirato in vita privata tra gli ulivi e le mollezze delle dolci terre della Liguria. Così sulla diocesi era piombato un amministratore apostolico, un’anima candida, che non riusciva neppure a contenere i problemi che derivavano dalla incompatibilità della proprietà privata con il tradizionale uso comunitario dei terreni. L’alto prelato, un continentale assai timido e bene educato, restava quasi assorto con la ressa dei pensieri che premevano nella rotondità della sua testa. Qualcuno rideva con sarcasmo mentre di primo mattino a passi lunghi dentro la tonaca nera attraversava la piazza per dir messa nella . La situazione si era enormemente complicata quando tra coloro che si volevano appropriare dei beni comuni si inserivano a gara anche i parroci e la gente di Chiesa. Che era un modo come un altro per ritornare daccapo a ripercorrere le strade dell’irrecuperabile passato. E quando Giorgio manifestava apertamente la sua disapprovazione si veniva a creare un tale subbuglio, che se ne dovettero occupare anche le autorità civili di stanza in quella Provincia. Gli avversari decisi a far pagare al giovane quelle intemperanze nascosero il Bacolo vescovile e neanche tanto velatamente lo accusarono del furto. Per rendere l’accusa ancora più credibile coinvolsero nella vicenda una donna, che spinta da simpatia verso di lui si sarebbe resa complice del misfatto.

    Correva l’anno in cui per l’insensatezza di alcuni isolani, che avevano proposto senza chiedere nulla in cambio la Storica Fusione con la componente piemontese del Regno e accettavano passivamente gli Statuti, veniva abolita l’antica e gloriosa Carta de Logu insieme all’intero popolo sardo. Il Vescovo continentale, con l’entusiasmo degno di un giovane e nell’euforia generale, promuoveva una campagna per rilanciare il culto del Sacro Cuore di Gesù che doveva avere ispirato quella fusione. L’alto prelato imponeva all’orgoglioso penitenziere di Bitti di impartire su questo tema un corso regolare di lezioni di teologia agli studenti del Seminario. Per tutta risposta Giorgio celebrava messe in suffragio delle anime dei fratelli repubblicani trucidati a Milano e a Pavia. Il dubbio come le radici di una giovane pianta si stava insinuando nel vecchio mondo della tradizione… D’altronde lo zio si tormentava per le malelingue che accusavano il nipote di essere la causa dei disordini della Provincia. Queste accuse, pronunciate nella solennità delle celebrazioni pasquali, il vecchio canonico le dovette sentire davanti a tutto il Senato diocesano, che finalmente poteva godersi lo spettacolo che aspettava da tempo. Mentre la Chiesa si preparava alle sacre solennità pasquali, poteva serbare in seno un serpente come quel giovane teologo, che si rifiutava di celebrare le rappresentazioni del Sacro Cuore e di rimando celebrava ed esaltava la morte dei martiri lombardi? Una vita intera come un castello di carta crollava addosso al vecchio canonico. Tutti i sogni rinsecchiti come la sua stessa persona, che continuava nell’incessante rito della preghiera, immerso nella penombra della sua Cappella. In un attimo l’uomo vide la sua vita come i fiori di carta che le pie donne ritagliavano per le feste paesane e che spesso capitava di ritrovare in fondo a un cassetto dove erano finiti chissà come. Riprese in mano il testamento. L’aria si era fatta spessa e scura. Pose quella carta ingiallita sul tavolo cercando di leggere quello che vi doveva essere scritto. Vedeva solo ombre, il passato suo, degli antenati, della sua stirpe. Quel testamento lo guardava come un figlio può guardare un padre che non ha mai conosciuto. Non vedeva, non capiva. Dove era quel Melchior, che un giorno doveva avere scritto su quelle pagine? Attorno a lui i libri della biblioteca e i mobili, che pensava gli avrebbero reso la vita più sicura e più comoda, li vedeva come estranei che non potevano essere stati parte della sua esistenza. La casa non aveva l’aspetto di quella casa che aveva sognato. Guardò verso la finestra e il cortile: il mandorlo era rinsecchito e spoglio e l’alloro una massa scura senza foglie. Era giunto il momento di lasciare le cose. L’oliveto era ormai un ricordo che non gli apparteneva, la casa un sudario nel quale aveva deciso di avvolgere se stesso prima di scomparire. Entrò la vecchia serva vestita come Marianna, la sua povera madre. Entrò silenziosa nel salotto tenendo in mano il lume, che proiettava un’ombra sulla parete: la grande ala di un’aquila che passava lenta sulla preda. Il vecchio si piegò sollevando il braccio per proteggersi da quell’ombra. Gli uccelli nel lauro avevano smesso di muoversi perché una nebbia leggera aveva nascosto ogni cosa nella piazza antistante la casa. Con Donnu Melchior moriva anche un’intera epoca. Il vecchio mondo si spegneva e quello che stava nascendo aspettava un nuovo Paolo, l’uomo di Tarso.

    II

    Con il suo sacco e il cappotto invernale sopra una spalla con cui si copriva durante la notte prese a viaggiare allontanandosi pian piano dal mondo dentro il quale era vissuto come il baco da seta nel bozzolo. Così lo spazio che come un filo lo aveva fino ad allora avviluppato si era andato dipanando e fuggendo, liberando nel contempo forze e provocando mutamenti interiori profondi assai simili a quelli che in un giovane si sviluppano attraverso il tempo e una lunga esperienza di vita. Così quella sorta di vagabondo che nasceva in lui e che in lui generava oblio e lontananza dalla patria di origine lo trasportava verso una condizione di libertà originaria, come se la sua stessa anima si fosse trasformata in una pagina bianca tutta da scrivere. Il rocambolesco salto che Giorgio compiva nell’arcaico ambiente della sua Diocesi era poca cosa rispetto a quanto stava per accadere nei territori del Regno. Era stato Pippo Mojon durante i suoi numerosi viaggi nell’Isola a conoscere Giorgio e a praticarne l’amicizia anche nell’ambiente esclusivo della farmacia del Fossatello. E poiché come si dice dalle nostre parti il sangue non è acqua sembrerà persino plausibile che Pippo, discendente da un farmacista di origine spagnola fuggito per ragioni politiche da Alcalà de Henares ed educato fin da piccolo ad amare la libertà e la giustizia, abbia fatto amicizia con un bittese che avendo appena abiurato dal ruolo di insegnante presso il Seminario vescovile di Nuoro si stava dedicando all’attività politica come parlamentare di ispirazione mazziniana e democratica. Quando nel ristretto ambiente della farmacia Mojon giungeva come una bomba la notizia sui preparativi per la spedizione militare in Oriente veniva a diffondersi uno strano clima di eccitazione, che non era solo il riflesso delle reazioni che si avvertivano nell’opinione pubblica, ma qualcosa di ancora più speciale. Sembrava che si fosse finalmente materializzato un evento atteso da tempo. Era come se all’improvviso la Storia avesse gettato luce su quel remoto angolo del mondo e avesse dato la squilla con le note dimenticate di un canto che parlava di un passato glorioso e lontano che era ancora possibile recuperare per portarlo al tempo presente. In quell’atmosfera di strana eccitazione fu Pippo, il più giovane dei Mojon, a consegnare a Giorgio la lettera che conteneva l’invito ufficiale per il Gran Gala con cui veniva celebrato quello straordinario evento che vedeva il piccolo Stato sardo entrare nel grande gioco delle potenze europee.

    Al Signor Deputato etc… – aveva scandito il Mojon con aria sorniona. – Non ci sarò a questa disgustosa messinscena… Quei poveri soldati che partono per la guerra, mentre i Signori pranzano per festeggiare l’imminente macello!

    Così aveva sentenziato. Per Giorgio era una pagliacciata indegna che offendeva la giustizia e il buonsenso.

    Le celebrazioni si faranno comunque, amico mio, anche senza i dissenzienti dell’opposizione come Voi. Anzi si celebreranno con più gusto e maggior piacere.

    Aveva ragione Pippo Mojon. In effetti nel giorno stabilito, nella scintillante sala del lussuoso albergo tra altograduati e dame eleganti i calici si sollevarono una e tante volte per brindare in piena allegria.

    "Viva il Re! Viva il Regno! Viva il Generale! Viva il Primo Ministro!".

    E anche all’indomani dello svolgimento del Gran Gala il giovane Mojon si prendeva anche il gusto di riferire punto per punto i più minuti particolari della festa. Riferiva che prima del pranzo, al solito conferenziere, che aveva parlato con enfasi, aveva fatto eco il Generale incaricato dell’impresa, che era stato ripetutamente chiamato in causa e acclamato dai presenti come un generale romano. E poi via via tutti gli altri, tra i quali aveva avuto modo di spiccare per la solita sagacia Filippo Mellana, sindaco di Casale, baffetti e ciuffo degli anni del furore repubblicano ormai dimenticato: ora tutto latte-e-miele eccetto che per i vecchi compagni.

    Non si esponga al fuoco nemico! aveva detto. Si riguardi! La sua vita è preziosa per il bene di tutti!.

    A guardare il riflesso di quelle parole sul viso della signora Bianca c’era da credere che non doveva essere proprio come diceva Pippo. Eppure sui fogli era stato scritto che il Mellana trascinato dalla retorica avrebbe azzardato un improbabile riferimento preso in prestito dal mondo classico suscitando le reazioni ironiche dei suoi colleghi. Era vero? Chissà? La signora Bianca rideva di gusto. Certo in altra bocca queste parole sarebbero state di pura satira.

    Grottesco! Sentenziava Giorgio a mano a mano che gli venivano riferiti i particolari di quella festa: gli splendori e le raffinatezze del pranzo nella sala dell’albergo.

    Ad onor del vero dovete comunque sapere – annotava Pippo – che tra tutte le voci si è sollevata alta e chiara anche la voce di tal deputato isolano. E se, aveva detto, non il sangue dei nostri soldati, che cosa ci possiamo aspettare da un Trattato che somiglia al Patto del Leone? Che cosa andiamo a fare in terra straniera? A combattere la guerra. La guerra di chi? La guerra degli altri. E se anche ci fossero (ammettiamo) dei vantaggi e si celebrassero vittorie per i nostri soldati, qualcuno si può aspettare che la sinistra repubblicana esulti per orgoglio tutto italico? Forse che i realisti, sparsi in tutte le contrade d’Europa, forse che esultarono per le vittorie degli eserciti rivoluzionari contro i nemici della Rivoluzione? A quanto si sa – aggiungeva Pippo Mojon – sarebbero seguiti anche applausi: Onesto e autorevolmente efficace! Mi complimento. Per essere il consigliere personale del Re quello del Manno è stato un discorso pieno di onestà! Più non si può chiedere a un uomo del governo come lui.

    Infine dopo avere elencato con minuzia persino le pietanze che erano state imbandite nel favoloso pranzo: Mi è stato anche riferito – aggiungeva Pippo con una certa cattiveria – che nel mezzo delle celebrazioni sarebbe spuntato fuori (chissà come?) un fiore di malva! Sarà vero secondo Voi? si chiedeva tra lo stupito e il divertito. Qualcuno confermava.

    Come può essere vero? Cosa sta accadendo? – chiedeva Giorgio al massimo dello stupore e della curiosità – In mezzo al tavolo imbandito, – vi dico: mi confermavano – a un certo punto, spiccava uno stupido fiore di malva. Testuale!

    Per Giorgio una presenza così estranea voleva dire una cosa soltanto: nella insulsa pantomima si muovevano energie sotterranee che stentavano a rivelarsi; ma che erano sul punto di venire alla luce con tutta la loro forza dirompente!

    Gli venne persino riferito che il Generale, che si era alzato per ringraziare i commensali prima di congedarsi insieme agli altri parigrado dai rispettivi incarichi parlamentari, tenesse – durante il militaresco discorso – lo sguardo visibilmente imbarazzato (ma forse era solo l’emozione del momento) su quel fiore il cui colore contrastava terribilmente con la marzialità dell’occasione! Forse a malapena riusciva a chiedersi come mai quel fiore fosse proprio lì!

    È triste constatare come le nostre capacità di analisi quasi si riducano in situazioni come quella occorsa al Generale. Chi ce lo aveva messo quel fiore? Non vi era dubbio che si trattava di una presenza imbarazzante.

    Non possono certo accusare me – aggiungeva Giorgio – dato che non ero presente alla cerimonia.

    Gli amici che frequentavano la farmacia conoscevano i trascorsi nuoresi del Nostro e ancor di più conoscevano la vicenda più volte evocata del Bacolo pastorale del Vescovo, anche se era stata all’origine dei suoi guai in seno alla Diocesi nuorese e quindi della sua apostasìa e infine della affiliazione politica e persino dell’approdo alla Camera in qualità di deputato della sinistra parlamentare.

    Il Generale verso il quale si erano sollevati i calici alla vigilia della guerra di Crimea aveva dato avvio alla sua carriera in qualità di guardia del corpo di Vittorio Emanuele I; ma preso anche lui dal vento rivoluzionario dopo i moti del ’31 era dovuto fuggire e farsi adepto nella Legione straniera, prima di diventare carlista in Spagna e poi comandante delle truppe pontificie agli inizi degli anni ’40. Quando nel ’52 scoppiavano a Sassari le rivolte popolari era stato mandato per sedare i disordini. Alla prova dei fatti sia lui sia i rappresentanti del governo rimasero di sasso quando vennero a sapere che i soldati sassarini, che erano stati arrestati durante lo stato d’assedio imposto dal governo, avevano organizzato una solenne cerimonia funebre in onore dell’illustre avvocato cagliaritano morto all’improvviso mentre difendeva i soldati del Capo di Sopra che erano stati messi agli arresti per sedizione. Dove era dunque l’odio che aveva sempre diviso quelli del Capo di Sopra da quelli del Capo di Sotto, così come i sassaresi dai cagliaritani? Se c’era armonia d’intenti tra le due anime sarde eternamente in lotta dai tempi delle colonizzazioni straniere che avevano sempre giocato a dividere i Sardi voleva dire che il mondo stava cambiando?

    Nei rappresentanti del governo nasceva grande apprensione per i risvolti di sapore eversivo che la vicenda poteva assumere. Bisognava intervenire rapidamente per chiudere la vicenda dei tumulti popolari a Sassari e porre fine allo stato d’assedio. Fiutato il pericolo di veder cadere un importante presupposto del suo potere, il governo dovette intervenire pesantemente sui giudici, al fine di indurli a trovare una soluzione e la via giudiziaria più breve venne finalmente trovata.

    Il Sulis, che già dalle pagine del Promotore aveva presentato una richiesta di grazia per il povero Sussarello che era rimasto l’unico imputato di quella incresciosa vicenda, concludeva con accattivante accento nei confronti del Ministro: Vorrà lei, come la lancia di Achille, che uccide e guarisce insieme, negare la grazia e la vita stessa a un povero falegname, colpevole solo di essersi trovato inconsapevolmente coinvolto nelle cameratesche baruffe tra i soldati della guardia nazionale sarda e i carabinieri reali?

    Il discorso veniva apprezzato e trovava l’animo di Cavour già scosso e persino pronto, così che l’articolo del Sulis, considerato comunque vicino alle posizioni del governo, aveva finito per aprire una porta già aperta.

    Molti si aspettavano che in una vicenda che aveva infiammato gli animi dei più entrasse in ballo anche un personaggio che fino ad allora era rimasto in disparte, ma che poteva essere determinante: era il presidente della corte d’appello di Cagliari, don Francesco Maria Serra; ma bisognava smuovere la sua ben nota ritrosia, simbolo vivente di autonomismo di pensiero e di giudizio con cui era considerato in tutta l’Isola.

    E il Cavour che non aveva interesse a che i deputati isolani, contrariamente alla loro indole, si coalizzassero, fino a creare spaccature all’interno della dirigenza politica del governo, riteneva più utile sostenere la richiesta del Sulis a favore della grazia per il falegname sassarese che era stato carcerato. D’altronde Sussarello aveva a suo discarico il fatto che si era consegnato spontaneamente alla forza pubblica dietro suggerimento dell’illustre avvocato cagliaritano, che in un pubblico intervento aveva stigmatizzato il Primo Ministro, il quale, quando gli venne riferita la notizia dell’acceso intervento di don Francesco Maria Serra, rivolgendosi ai sorridenti colleghi ebbe modo di dire: Calma, amici miei, non c’è fretta! Finché pensano al loro falegname in quanto carcerato innocente da liberare, non pensano ad altro.

    Nei giorni che precedettero la Pasqua il tempo andò volgendo al bello, fino a far sentire i primi tepori della primavera in una città che stava vivendo un momento di grande espansione, abbellendosi sempre più di palazzi, piazze e monumenti.

    In un tardo pomeriggio il Nostro in compagnia di don Peppe Musio passeggiava con aria soddisfatta per le vie, guardando con interesse il mondo che lo circondava. Amava quei palazzi, i negozi scintillanti di luci e la gente che circolava a piedi o in carrozza. Presso il campo di manovra in Piazza d’Armi i soldati destinati alla guerra in Oriente a gruppi armavano le tende di tela a forma di cono preparandosi per la notte.

    Corre voce – rifletteva Mameli – che anche l’Austria stia radunando soldati, mentre le navi a vapore inglesi nel porto di Genova imbarcano i soldati destinati alla guerra. Capisco il clima che si sta creando. Capisco di meno i movimenti di soldati da parte dell’Austria.

    È appunto clima di guerra – rifletteva don Peppe – un clima contagioso che prende un po’ tutti. L’Austria prende le sue precauzioni, perché teme per i suoi confini e lo possiamo capire. Da secoli si è dovuta guardare da sud e da est e per la piega che stanno prendendo gli avvenimenti credo pericliti anche da ovest. Non gli hanno giovato affatto le vicende dei decenni precedenti. Certo, il mondo sta cambiando rapidamente, e noi non siamo sufficientemente capaci di avvantaggiarci dei cambiamenti in atto. Con l’apertura del Canale nella penisola del Sinai per i popoli del Mediterraneo si apriranno grandi prospettive. In particolare per la nostra Isola. Bisogna prepararsi. La Francia di Napoleone lo sta facendo da tempo nei settori dell’acciaio e delle ferrovie, nell’agricoltura e nella marina raddoppiando il tonnellaggio delle navi a vapore…

    In contrada Santa Teresa i due amici si erano fermati per godersi l’ultimo raggio di sole di quella giornata.

    …Sono stato informato da amici di Sassari – rifletteva Mameli – che il sindaco con una delegazione di cittadini si recherà a Cagliari per sostenere il progetto del nuovo porto Dock. Quando sarà finito, diventerà il centro di deposito e smistamento delle merci del Mediterraneo. Questo gesto di fraterna amicizia da parte dei

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