Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Il Paradosso di Epimenide
Il Paradosso di Epimenide
Il Paradosso di Epimenide
E-book231 pagine3 ore

Il Paradosso di Epimenide

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Giorgio Morandini e Tommaso Corti – ricercatori del Centro delle Ricerche per le Scienze Cognitive e Tecnologie della Conoscenza – lavorano a un progetto che potrebbe sovvertire il concetto di evoluzione umana: costruire un’intelligenza artificiale utilizzando materiale biologico. Si tratta di una sfida arditissima – il cui strumento è il cervello di un collega defunto – che si prefigge di replicare l’unicità del cervello umano quale sistema logico in grado di conciliare le incoerenze dei sistemi teorici. La “creatura” – affettuosamente chiamata Berny – viene sottoposta a sessioni di apprendimento impartite da elaboratori collegati alla corteccia cerebrale, e i risultati non tardano ad arrivare. Poi, all’improvviso, il tracollo: un evento imprevisto interrompe il programma. Qual è la causa? Chi ha agito per sabotare il progetto? Cos’avrebbe potuto scatenare quell’esperimento? A chi apparteneva davvero il cervello impiegato nell’esperimento? Com’è possibile ricondurre la catena degli eventi al teorema di Gödel? Sono domande alle quali Morandini intende trovare una risposta, nonostante stia vivendo i travagli di una crisi sentimentale ed esistenziale: studia, riflette, domanda… E, a poco a poco, l’ambiente “asettico” del Centro si trasforma in un crogiolo di diffidenze e sospetti, di infingimenti e apparenti complotti, fino a un epilogo piano e sconcertante nel contempo.
Ne Il Paradosso di Epimenide confluiscono linguaggi settoriali e rifruizioni letterarie, e l'Autore si cimenta con il tema dell’intelligenza artificiale muovendo da una prospettiva intima e non futuristica: Infatti, il protagonista è costantemente in bilico tra un piglio razionale e una profonda malinconia – tra destino e ricerca scientifica, tra materia e autocoscienza, tra logica e sentimento –, e sembra elaborare il progetto di Berny più per confrontarsi con questioni filosofiche e personali che per amore della scienza. Ne risulta un'opera ricca di sfumature e interpretazioni, dove il lettore potrà ritrovare echi della narrativa gialla e fantascientifica, riflessi che vengono sempre sfruttati per restituire alla storia una “dimensione umana” – quella che, in definitiva, costituisce il punto fermo della letteratura.
LinguaItaliano
Editoree-biblio
Data di uscita15 dic 2021
ISBN9788894119237
Il Paradosso di Epimenide

Correlato a Il Paradosso di Epimenide

Titoli di questa serie (1)

Visualizza altri

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Il Paradosso di Epimenide

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Il Paradosso di Epimenide - Enrico Francesconi

    1.

    Sembrava tutto a posto. Giorgio lasciò un attimo il mouse e infilò le dita sotto le lenti, abbandonandosi sulla poltrona. Rimase in silenzio, lasciò che i neuroni si acquietassero.

    Quando riaprì gli occhi, il buio della piccola stanza gli parve ancora aumentato e la luce del monitor, che restituiva una prima bozza del progetto, era divenuta niente più che un bagliore indistinto, del quale gli sembrava di percepire ogni singolo punto senza riuscire a ricostruire distintamente alcuna immagine. Ancora un minuto e sarebbe riemerso, avrebbe riacquistato il pieno funzionamento dei sensi.

    La porta dello studio cigolò lentamente (Mai che mi decida a oliarla, pensò, a ingrassarla un po’; mi viene in mente solo quando qualcuno entra o esce).

    «Mai che ti decida a oliarla o a ingrassarla un po’,» esordì Michele Vallini con aria supponente.

    «Mi viene in mente solo quando tu entri o esci,» replicò Giorgio, seccato.

    «Volevo solo dirti che quando hai finito i tuoi giochetti il capo vuole vederci.»

    «Noi due?»

    «Smettila Morandini, lo sai benissimo che oggi è il mio giorno,» disse Vallini. «Ti aspettiamo in sala conferenze.»

    «Ok, fra un attimo arrivo.»

    Si alzò dalla sedia e si avviò alla finestra, la maniglia gli arrivava all’ombelico. Da lì, con gli occhi appena a filo della cornice superiore, riusciva a contemplare il declino dell’ampia collina che ospitava il Centro delle Ricerche.

    Era un panorama meraviglioso, capace di riconciliarlo con qualunque problema umano e tecnologico.

    Il Centro era immerso in un silenzio quasi irreale. Solo un vento leggero, che spirava quasi perennemente sulla collina, emetteva gemiti oracolari attraversando i rami degli alberi, cullati mollemente, come in una dolce danza. Giorgio si era fermato a osservare il moto ondoso delle cime. Ogni foglia era soggetta a due movimenti distinti: il generale moto dei rami e quello particolare delle foglie stesse intorno al proprio asse. Per non considerare poi il trascurabile spostamento del tronco e il moto del pianeta di cui anche lui era alfine partecipe. Potenza dei moti relativi, mirabile sgomento di non trovarne di assoluti, pensò segretamente.

    Gli occhiali stavano lentamente scendendogli come una carezza lungo il naso, finché il bordo superiore non si trovò allineato, da quella prospettiva, a quello della finestra. La vista non risultava ostacolata. Allungò lo sguardo verso la pianura che si stendeva immensa sotto la collina. Le nuvole incombevano minacciose, sovraccariche di acque acide.

    La città era pervasa da un’atmosfera opprimente e le case, da quella distanza, parevano gli estremi rifugi di una colonia di terrestri stabilitisi in un altro pianeta, in attesa di una rivelazione dopo l’apocalisse.

    In fondo s’intravedevano, un po’ sfumate dalla nebbia e dalla qualità della luce, le montagne, come l’argine di un immenso cratere. Guardò di nuovo la luce e cercò di intuire la direzione del vento dal moto delle nuvole.

    Quest’orizzonte si rasserenerà, pensò infine con un sospiro profondo. Un leggero formicolio gli attraversò la schiena fino a esaurirsi sotto i capelli e lungo le braccia.

    Un secondo cigolio della porta lo ridestò da quel torpore estatico.

    «Stanno aspettando solo te!» insisté un collega affacciandosi sullo stipite.

    Si sistemò il colletto della camicia e si incamminò contro voglia verso la stanza delle riunioni.

    La saletta non era molto grande. Un tavolo, la cui lunghezza copriva quasi per intero la parete più corta della stanza, dominava i banchetti in stile americano, quelli in cui un bracciolo della sedia si amplia a formare un piano ribaltabile. C’erano proprio tutti, i colleghi del Centro; doveva essere davvero un’occasione importante.

    Tommaso Corti si era seduto in uno degli ultimi posti in fondo alla stanza. Molti avevano tirato fuori fogli, penne, tablet per prendere appunti. L’ingegner Michele Vallini era in piedi vicino al proiettore. Ripassava con cura le diapositive da sottoporre a un pubblico che pareva disposto alla massima attenzione. Impeccabile come al solito, appariva imponente, non tanto per la struttura fisica (non era tale da permetterglielo), quanto per il portamento, la sicurezza e l’incorruttibile fiducia in sé. La cravatta costantemente intonata alla camicia e al completo lo rendeva simile a quei tizi della media finanza, mezzo arricchiti e mezzo arrampicatori sociali.

    Giorgio entrò quasi furtivamente nella speranza di non essere osservato. Il Direttore si trastullava con una preziosa stilografica in attesa dell’inizio dell’esposizione.

    «Si sieda, Morandini,» lo fulminò. Tutti si voltarono verso l’ingresso mentre Giorgio cercava il primo posto libero per sedersi e distogliere l’attenzione da sé.

    L’ingegner Vallini era ormai pronto, attese che tutti fossero seduti per spegnere la luce e iniziò.

    «Il progetto sul quale io e la mia équipe abbiamo lavorato in questi mesi riguarda il riconoscimento automatico di pezzi meccanici prodotti dalla Montex. Il sistema,» proseguì l’ingegner Vallini, «si basa sullo schema classico: acquisizione dell’immagine, conversione numerica e successiva classificazione mediante algoritmi di apprendimento automatico.»

    Giorgio stava già cominciando a estraniarsi dall’ambiente; erano parole che aveva sentito decine di volte. Con lo sguardo seguiva la successione delle diapositive, gli schemi che Michele andava esponendo, le sintesi matematiche racchiuse nella icasticità di formule che riuscivano pur sempre a sollecitare il suo senso estetico. Ma l’attenzione era rivolta altrove, oltre la finestra, laddove il vento, tra le foglie degli alberi più alti, modulava ombre mutevoli che si riflettevano sulla parete opposta della stanza. Un uccello catturò la sua attenzione volando sul davanzale della finestra. Cominciò a guardare Giorgio con una fissità inesplicabile. Poi si mosse, scartò col becco un sassolino e raccogliendo invece la gemma di un albero si librò di nuovo in aria, saettando attraverso un fascio di luce obliqua che non incontrava ostacoli. Per qualche attimo Giorgio seguì l’uccello, poi subentrò nei suoi occhi un’espressione fissa e assente.

    Fu allora che la mente sfumò quelle immagini e ritornò a percepire il segnale che gli occhi le trasmettevano.

    L’ingegner Vallini stava esponendo i risultati. Le osservazioni compiute avevano fornito percentuali di successo davvero apprezzabili. Un fragoroso applauso accompagnò la fine dell’esposizione; solo Giorgio e pochi altri si dimostrarono poco entusiasti. L’applauso si stava quasi definitivamente smorzando quando Giorgio intervenne con imprudenza.

    «Scusa Michele,» la voce di Giorgio era giunta roca e inattesa, e tutti si voltarono verso di lui «Scusa Michele,» ripeté più timido Giorgio, dopo essersi schiarito la gola, «il tuo sistema saprebbe distinguere un sassolino da una gemma d’albero?»

    Michele lo guardò stupito, tutti gli altri si guardarono stupiti. Poi un sorriso beffardo si dipinse sul volto di Michele.

    «Certo che no, caro Giorgio,» disse ironico. «Ma sai benissimo che questo è un sistema espressamente dedicato al riconoscimento dei pezzi meccanici della Montex, è lei che ce lo ha commissionato, è lei che paga,» disse, enfatizzando le parole con un tono fra il complice e il risentito.

    «Ma se l’ingegner Morandini,» proseguì rivolgendosi a tutti i ricercatori «è così bramoso,» e sottolineò la parola con un gesto conseguente delle mani «di avere un sistema che sappia distinguere un sassolino da una gemma d’albero, be’, cercheremo di accontentarlo.» Sogghignò compiaciuto e con gli occhi cercò approvazione fra quelli della prima fila. Poi continuò: «Così otterremo, per la gioia di Giorgio (e immagino solo la sua), uno strumento capace di distinguere i pezzi della Montex, i sassolini e le gemme d’albero contemporaneamente.»

    I ricercatori rumoreggiarono sottovoce. Il Direttore cercò di placare un po’ gli animi.

    «Se non ci sono ulteriori domande possiamo terminare qui, ringraziando l’ingegner Vallini per la lucida esposizione.»

    Tutti si alzarono rumorosamente e si diressero verso la porta come un gregge ingovernabile.

    L’ingegner Vallini salutò calorosamente il Direttore. Quella stretta di mano sembrò a molti come un simbolico passaggio di consegne. Il Direttore aveva espresso più volte la volontà di abbandonare. L’età ormai gli gravava sulle spalle, assieme a tutto il peso dell’esperienza e del prestigio.

    Anche Giorgio si alzò dalla sedia, dette un’occhiata fuori e si avviò all’uscita. Michele ha ragione, pensò, almeno concettualmente non è difficile espandere il sistema affinché riesca a distinguere i pezzi Montex da altre cose.

    Eppure quel piccolo uccello, che probabilmente non aveva più di un anno, non sapeva solo distinguere le gemme d’albero dai sassolini; nella sua breve esistenza aveva imparato a volare, a camminare, a riconoscere suoni, odori, sensazioni, forme di vario tipo, e tutto era comandato da una minuscola intelligenza, così segretamente protetta. Era un mistero; dopo tanti anni di ricerca sul cervello anche l’intelligenza di un volatile appariva un mistero così fitto da sembrare sempre più impenetrabile.

    2.

    Giorgio Morandini non aveva voglia di fare niente, ma era una serata troppo bella per starsene in casa. Il rumore della strada era insolitamente aumentato dopo il tramonto. Si era proprio vicini all’estate, lo si sentiva dall’odore acre dell’asfalto che liberava lentamente il calore accumulato durante il giorno.

    Decise di uscire anche se non sapeva bene dove andare. Si infilò un giaccone che aveva indossato tutto l’inverno, ma si sentì subito ridicolo: strano che se ne fosse accorto, doveva avere proprio la mente libera. Scelse qualcosa di più leggero e si diresse verso la porta; la aprì e uscì dalla stanza.

    Stava per chiudersi la porta alle spalle quando squillò il telefono.

    «Scusa se ti disturbo a quest’ora» aveva esordito Tommaso Corti, dopo pochi convenevoli.

    «Figurati...» Giorgio non seppe dire altro, per il momento. Strinse faticosamente gli occhi, quasi soffrisse nel tentativo di comprendere il motivo di quella chiamata. Lavorava al Centro da poco tempo e non aveva avuto ancora rapporti col dottor Corti, il quale finalmente si spiegò:

    «Sai Giorgio, oggi ho assistito alla riunione di Michele e anche a me è sembrato singolare che quel sistema non possa riconoscere i sassolini e le gemme d’albero,» disse con un tono distaccato e una cadenza regolare della voce che poco avevano a che fare con lo stupore di Giorgio per quella ingenua osservazione.

    «Ah quello? Ma è stato solo un modo per dire qualcosa,» si schermì Giorgio.

    «No, avevi ragione,» proseguì Corti «quelli girano intorno alle questioni vere senza affrontarle mai. Se non hai niente di meglio da fare, potremmo vederci stasera stessa e ne parliamo un po’.»

    «Stasera? Ok, vediamoci,» replicò perplesso Giorgio.

    Così s’incamminò verso quell’imprevisto appuntamento notturno. Si alzò il colletto della giacca e sovrappose i baveri nonostante il mite tepore serale. Un sibilo di silenzio si diffuse tutt’intorno adattandosi alle curvature più inaccessibili degli elementi, nascosto all’intersezione delle strade, trasportato sul grido delle luci abbaglianti delle auto all’incrocio sotto casa, schiacciato fra le superfici volventi delle ruote e il tepore serale dell’asfalto di quella prima estate.

    Striature di brevi nuvole, residui delle densità cumuliformi del pomeriggio, solcavano debolmente la luna. Giorgio camminava ora nervosamente, ora con passo più lento, osservando le geometrie modulari della pavimentazione del marciapiede. Rombi inscritti in quadrati ospitavano un alveare di piccole cellette rettangolari dall’incavo non molto profondo. Giorgio tentava, a tratti, di centrare le mattonelle, allineando l’asse dei piedi con la diagonale maggiore dei rombi, facendo attenzione a non calpestarne i lati. Ne derivava un’andatura sincopata, attenta a non suscitare cattivi auspici.

    Alzò lo sguardo. Gli ultimi piani dei palazzi parevano sfumare e sciogliersi, a partire dalla luce arancione dei lampioni fino alla densa oscurità che da lì sotto pareva ancora maggiore. Da quella nuova prospettiva vedeva una città diversa: poche volte si alza lo sguardo e tutto sembra improvvisamente nuovo, pensò con un’espressione stupita.

    Allungò il suo orizzonte. Le insegne intermittenti dei bar si confondevano con le luci delle auto, i lampioni erano dei nanerottoli a becco di cigno e le grondaie i loro abbeveratoi. Le insegne... Ecco, le insegne mandavano bagliori fluorescenti nella sera, ma alla vista sfavillavano fastidiosamente. Verde ghiaccio e blu acqua cozzavano fra loro sovrapponendosi sul fuoco ottico fino a provocare scompensi percettivi. Premé la forca degli occhiali sul naso, ma la situazione non migliorò affatto.

    Girò deciso l’angolo della strada che tagliava lateralmente la piazza centrale e si trovò di fronte il caffè dove aveva fissato l’appuntamento.

    La piazza, alla sua considerazione un po’ distratta, apparve insolitamente affollata. Si fermò a osservare il movimento dei ragazzi che la frequentavano fino a tarda ora, e una sensazione di tenerezza gli si insinuò nel cuore. Era la nostalgia per una stagione che forse non aveva mai davvero vissuto. Se non si fosse sentito ridicolo avrebbe quasi voluto unirsi a loro. Fece ancora due passi nella direzione del caffè, si fermò di nuovo, attese che un sospiro riportasse la quiete dentro di sé e vi si diresse definitivamente.

    Corti era già ad aspettarlo a un tavolo un po’ defilato. Stava fumando l’ennesima di una interminabile serie di sigarette quotidiane. Giorgio lo conosceva da poco ma non aveva mai visto nessuno fumare così tanto.

    Il dottor Corti aveva la fronte alta, ampliata da una precoce calvizie che lo aveva colpito fin dalla prima giovinezza. A Giorgio sembrò curioso che un biologo si interessasse in maniera così entusiasta delle sue fantasie, così come lo colpì il calore con cui lo accolse al tavolo.

    Si sedette di fronte; Corti stava bevendo un intruglio di liquori il cui colore risultava di un arancio-giallastro, davvero poco rassicurante.

    «Scusami se ti ho fatto uscire a quest’ora,» provò a giustificarsi Corti, espirando un fumo lento e nauseabondo, ma Giorgio lo fermò subito.

    «Figurati, mi hai fatto un piacere; in realtà stavo per uscire da solo, e non sarebbe stato un granché.»

    L’altro sorrise, sorseggiò il suo intruglio e poi riprese:

    «Sei venuto a piedi, ho visto, ...non abiti lontano da qui…» disse come a chiedere conferma di qualcosa che già sapeva.

    «No, abito ad appena due isolati... e poi stasera sembra quasi estate, ho incontrato molte persone in giro.»

    «In effetti anche qui c’è molta gente... tutti ragazzi, rallegrano la serata.»

    «Non so,» disse Giorgio pensieroso, «a me mettono tenerezza e malinconia insieme…»

    All’arrivo del cameriere, Giorgio optò per una banale birra alla spina, incapace di prendere ispirazione dalla pozione di Corti.

    Giorgio prese il bicchiere e trangugiò avidamente due sorsi, mentre Corti aspirava le ultime boccate della sigaretta appoggiandosi sullo schienale della sedia.

    I due si intrattennero ancora un poco sulle tipiche banalità di ogni inizio di conversazione: il tempo, i malanni presumibilmente causati dal suo repentino cambiamento, i possibili rimedi di dubbia validità scientifica ma di sperimentata efficacia taumaturgica, la famiglia, e infine il lavoro.

    Il brusio della piazza parve a poco a poco dissolversi e filtrare nelle pieghe della notte, finché sembrò definitivamente scomparire quando il dottor Corti indirizzò più decisamente la conversazione.

    «La tua osservazione di oggi è come se avesse risvegliato in me vecchi sogni, vecchie aspirazioni. Vedi Giorgio,» continuò, «in quei lavori non c’è immaginazione, manca la creatività, non esiste un minimo tentativo di ricerca dell’impossibile.»

    Giorgio ascoltava in silenzio; man mano che l’altro parlava, l’iniziale diffidenza sembrava piegarsi a un discreto compiacimento. Ascoltandolo ne seguiva il movimento delle rughe sulla fronte, il lento gesticolare delle mani poggiate sul tavolo. Era davvero sorpreso dalla determinazione di Tommaso; quella sicurezza che a lui forse era mancata nel sostenere i propri progetti nei primi anni di lavoro.

    «È proprio quello che penso anch’io,» replicò dolente Giorgio, «ma vedi, purtroppo nessuno è disposto a sostenere progetti se non risultano in breve tempo produttivi.»

    Si fermò guardando Tommaso negli occhi per cercare la sua approvazione; ricevette un lungo silenzio e uno sguardo fisso, accompagnato da un lento sorriso, a svelare il segreto di un enigma. Giorgio non aggiunse niente, un po’ perplesso dall’atteggiamento di Tommaso, ma si sentì almeno rassicurato dalla posizione del collega, e

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1