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L'ultima mossa
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E-book356 pagine4 ore

L'ultima mossa

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Info su questo ebook

Un messaggio con il logo di un camaleonte, e la celebre mossa scacchistica del matto del barbiere: sembra uno scherzo. Invece, un garzone di barbiere è ucciso a Milano. È l’inizio di una serie di omicidi, annunciati da lettere anonime con riferimenti agli scacchi, per i quali il principale indiziato è Lamberto Cossali, dirigente d'azienda svanito nel nulla. Dopo il grande successo di "Melodia fatale" tornano le indagini di Tobia Allievi nel difficile campo della psicologia, tra i misteri della mente umana, i segreti di un’industria, e gli enigmi di un misterioso assassino.
LinguaItaliano
Data di uscita10 ago 2018
ISBN9788863938340

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    Anteprima del libro

    L'ultima mossa - Alberto Ripa

    1

    Mercoledì, 1 febbraio 2006

    Stretto nella mano sinistra, lo specchio d’argento rifletteva il volto di un uomo disperato.

    Gli ultimi eventi alla Python e le parole pronunciate da Augusto Ferri, taglienti come la lama di un bisturi, avevano aperto una ferita profonda nel suo animo. Era in preda allo sconforto: sopraffatto dal dolore, in compagnia della sua solitudine, lottava con le ultime forze contro un destino sempre più crudele. 

    Non voleva soccombere.

    Sulla cornice dello specchio era incisa la frase dietro la riflessione c’è la verità. Parole enigmatiche, quasi prive di significato, degne di curiosità ma non di importanza. Fino a quella sera.

    L’uomo si sentiva la testa scoppiare. Avvertiva un dolore lancinante, come se la puntina di un vecchio giradischi avesse iniziato a graffiare le sue meningi, nel tentativo di trasformare in musica i suoi cupi pensieri. Le orecchie furono investite da una sequenza ritmica di suoni, un motivo familiare ma non riconoscibile: sembrava che qualcuno avesse messo il bavaglio agli strumenti a fiato e annodato le corde di chitarre e violini, rendendo muta gran parte dell’orchestra. Alla censura era scampata solo una coppia di tamburi, inesorabili nel dettare il ritmo, prima in lontananza, poi sempre più da vicino.

    Si guardò intorno: la stanza vuota come una prigione, la sua scacchiera pregiata come unica amica. Tremava.

    L’uomo ebbe la sensazione che la sua mente fosse diventata il teatro di una tragedia greca, dove la stessa battuta, ripetuta fino al parossismo da un attore in maschera, si alternava al coro.

    Il tremore si impossessò della sua mano. Lo specchio cadde a terra, frantumandosi.

    Gli occhi guardarono attoniti il pavimento. Immagini che, fino a qualche istante prima, erano state fugaci, divennero d’improvviso parte di un’intera esistenza, la sua.

    Attimi di stordimento. Poi la mente sfuggì alle tenebre in cui era precipitata e tornò a concentrarsi, con inquietante lucidità, sugli eventi che si sarebbero verificati di lì a poco.

    L’uomo scrutò la scacchiera sotto una nuova luce: non vide due eserciti pronti al combattimento, ma un unico corpo di ballo, obbediente ai comandi di un fantasioso coreografo. Un pedone bianco e uno nero aprirono le danze. Poi la mano destra fece scivolare in diagonale, leggiadri come ballerini, un alfiere e la regina bianca, alternandone i movimenti con i salti dei due cavalli nemici. 

    L’uomo si immaginò il re nero imprigionato in una ghigliottina, ormai rassegnato a perdere la testa per mano di una donna. Poco importava che non avesse la grazia di un cigno ma la rigidità di un pezzo di legno lavorato al tornio. Per la morte non ci sarebbe stata alcuna differenza. 

    Fu un attimo. 

    L’uomo lanciò un urlo liberatorio e afferrò con rabbia la regina bianca, tenendola sospesa sopra la scacchiera. Con un gesto deciso, come se impugnasse la più affilata delle lame, la spronò al combattimento. Assaporò il gusto della vittoria assistendo al faccia a faccia mortale con l’inerme monarca nero. 

    Scacco matto.

    L’uomo comprese come avrebbe potuto agire, creando attorno a sé false immagini e astuti movimenti. Si accorse di avere al suo fianco due fidate compagne di viaggio, tanto simili da essere indistinguibili: l’illusione dei giochi di luce e la magia dei colori.

    Era giunto il momento di pensare ai primi preparativi.

    Le dita si mossero agili sulla tastiera del computer. La stampante trascrisse la partita appena giocata su una particolare carta da lettera con un inconfondibile logo. Protette da un paio di guanti di lattice, le mani svolsero con accuratezza il proprio compito preparando la busta. Destinatario: Boris Ripchenko.

    La puntina del grammofono riemerse dal solco cerebrale nel quale era sprofondata. Liberati dal perfido incantesimo, trombe e violini si accodarono alla coppia di tamburi, insieme all’intera orchestra. Ai freddi ragionamenti in bianco e nero si sostituirono variopinte allucinazioni, che accompagnarono, nel suo esplosivo crescendo, il Bolero di Ravel.

    L’uomo aveva deciso. Da quel giorno la sua vita sarebbe cambiata, alla ricerca della verità e di una rivincita che avrebbe avuto il sapore della vendetta.

    Aveva sempre vissuto come una persona mutilata nel corpo, ancora più che nell’anima. Senza braccia con le quali stringere forte qualcuno al petto, per sentirne i battiti vitali, percepirne le emozioni. Senza mani, per una lieve carezza. Senza gambe con cui correre incontro alla persona amata. Senza lingua con cui pronunciare anche solo una parola, per spezzare un silenzio freddo come il ghiaccio. Gli occhi e le orecchie erano invece rimasti al loro posto, come condanna. Poteva vedere e sentire ancora il grigio e opprimente isolamento, il vuoto della campana di vetro sotto la quale la sua mente si era ormai convinta di trovarsi, le allucinazioni dai contorni confusi, le voci echeggianti dei suoi sogni a occhi aperti.

    Si paragonò a un ragno incapace di tessere la tela anche solo per catturare l’ultima, noiosa mosca disposta a ronzargli intorno. Un ragno più nero del suo pessimismo, senza zampe, impossibilitato a sputare fuori un filo di umanità. Si vide farfalla senza ali, prigioniera di un anacronistico destino di metamorfosi in crisalide, obbligata ad agognare, invano, il nettare protetto da petali profumati e multicolori.

    Si ribellò all’idea di ritrovarsi come un insetto incompleto. Scacciò la visione, ma non poté evitare una nuova immagine di sé: un camaleonte, con due occhi strabici e sporgenti, pronti a cogliere solo le storture del mondo. Un camaleonte capace di usare la sua pelle come una tavolozza dai mille colori, per confondere la vista fino a diventare invisibile. Un camaleonte con quattro zampe sottili, all’apparenza fragili, in realtà tenaci e impavide nell’affrontare i rami più contorti. L’immagine questa volta non gli dispiacque.

    Si guardò in uno specchio, senza più riconoscersi. 

    Aprì la bocca.

    Il camaleonte fece scattare, come una molla, la lingua lunga e vischiosa, che si impadronì avida della sua figura. 

    In completa trance, in balia di pensieri sopiti che, ridestatisi all’improvviso, avevano preso il sopravvento sulle sue facoltà mentali, l’uomo un tempo mite scoprì di essere un altro individuo, capace di indossare i panni del più spietato e mimetico assassino.

    2

    Due giorni prima

    «Non è di colore giallo, non è di colore rosso, è sempre verde e ha una gobba. Di cosa sto parlando?» 

    Christian Quattrini, l’addetto alla portineria della Python, si divertiva a porre a tutti i dipendenti lo strano indovinello inventato da Cossali. Nessuno era ancora riuscito a trovare la soluzione. 

    «Ci stai davvero torturando con questo enigma» rispose Federico. 

    «Oggi siamo già a ventitré tentativi falliti» commentò Christian. «Non scoraggiatevi: potrete provarci ancora, fino a quando il dottor Cossali non sarà rientrato dalla serie di congressi.»

    Consapevoli della grande amicizia che lo legava a Lamberto Cossali, dirigente della Python dimissionario, i colleghi avevano nascosto a Christian la verità. Gli avevano fatto credere che Cossali stesse girando il mondo, per presentare i risultati delle sue ricerche, mentre in realtà aveva già lasciato l’azienda. 

    Federico allargò le braccia in segno di resa, salutò Christian e oltrepassò la portineria, dirigendosi verso l’Olimpo, la sala panoramica al piano più alto della palazzina alfa.

    Augusto Ferri fu l’ultimo ad arrivare. Prese posto vicino a Lucrezia Salvetti, la nuova psicologa, e accese il microfono.

    «Non ho intenzione di perdere tempo con futili preamboli, per non tenervi troppo sulle spine. Siete a conoscenza delle dimissioni del dottor Cossali e dell’incidente occorso ad Annalisa, la sua collaboratrice. Siamo tutti molto dispiaciuti» esordì «ma bisogna andare avanti. Ho già preso le mie decisioni. Con il prezioso aiuto della dottoressa Salvetti ho definito il nuovo assetto del centro ricerche.»

    Augusto impugnò il telecomando di un proiettore e premette un pulsante. Le tende blu oscurarono le vetrate della sala e uno schermo scese lentamente dal soffitto. La prima diapositiva rimase visibile solo per pochi secondi: un guasto alle fotocellule fece riaprire i tendaggi, consentendo ai raggi del sole di illuminare di nuovo a giorno la sala.

    Lucrezia, che già meditava di sottoporre il responsabile degli impianti elettrici ai nuovi test proposti da Psicology and Business, si diresse decisa all’interfono. «Portineria: solito problema all’Olimpo. Disattivare per favore le fotocellule.»

    La chiusura dei tendaggi fu completata a mano e la diapositiva tornò visibile sullo schermo. 

    Augusto riprese a parlare.

    «Chiedo scusa per l’inconveniente. Vi ho convocato oggi per comunicarvi la nuova struttura organizzativa. Nel ruolo di direttore strategico coordinerò l’attività di due reparti. Il primo, da me diretto fino a ieri, continuerà a occuparsi di biotecnologie e di materiali innovativi; il secondo, ridimensionato dopo l’incidente di Annalisa e le dimissioni di Cossali, proseguirà gli studi sui nuovi farmaci contro le malattie cerebrali degenerative, in collaborazione con istituti di ricerca esterni.»

    Augusto fece una breve pausa, per studiare le reazioni dei presenti prima di precisare che la sezione documentari scientifici sarebbe stata soppressa pro tempore, in attesa del ritorno di Annalisa. Molti dei ricercatori ebbero l’impressione che quel pro tempore, pronunciato quasi con distacco, avesse in realtà il significato di un lapidario per sempre.

    «Non ho altro da aggiungere» concluse Augusto. «Lascio ora la parola alla dottoressa Salvetti, che presenterà l’organigramma.»

    Avvicinatasi al microfono, Lucrezia si assicurò che la nuova diapositiva, che mostrava l’inconfondibile profilo di Sherlock Holmes, fosse già stata proiettata. «Non prendete come un’offesa personale quanto sto per dirvi. Tutti voi ricercatori siete per l’azienda una voce di costo che può trasformarsi in un investimento per il futuro. La Python crede oggi in voi e nelle vostre capacità e spera di essere presto ripagata dai risultati delle vostre ricerche. Ma non può essere certa di questi risultati. Da un punto di vista finanziario, è una grande scommessa. Da qui nasce il progetto Sherlock, per aiutare l’azienda a ridurre il rischio dell’investimento.»

    Le parole di Lucrezia fecero nascere un sentimento di solidarietà tra i dipendenti di due reparti che, fino a quel momento, avevano combattuto un leale derby sportivo sul terreno di gioco della ricerca. Una sfida alimentata da una sana competizione nel reciproco rispetto delle relative competenze.

    «Pensiamo alla Microsoft e alla Apple» continuò la psicologa. «Due imperi nati dalla genialità di due studenti che posero le basi del proprio successo sviluppando le proprie idee in un garage. Per il futuro della Python, oggi dobbiamo individuare tra di noi i Bill Gates e gli Steve Jobs di domani. E ci riusciremo. Grazie a Sherlock.»

    Una nuova diapositiva fu proiettata sullo schermo. Mostrava un organigramma incompleto, con diversi ruoli non ancora definiti, rappresentati da caselle bianche. 

    Augusto riprese la parola: «Nei prossimi giorni ci saranno altri incontri su questo progetto. Il messaggio odierno è che la ricerca Python è destinata a espandersi allargando i propri confini, scientifici e geografici. Milano sarà sempre la sede centrale. Entro tre o quattro anni saranno create nuove sedi distaccate, per accogliere i migliori ricercatori. Una per una, le caselle bianche che vedete ancora vuote si riempiranno. È solo questione di tempo. Abbiamo già gettato la nostra rete: porteremo in Italia le giovani promesse e invieremo all’estero i nostri cacciatori di teste. Ognuno di voi frequenterà un corso di specializzazione presso università o istituti di ricerca negli Stati Uniti. Potrete arricchire le vostre conoscenze e trasformarvi in talent scout».

    Un brusio si levò nella sala.

    «La dottoressa Salvetti ha già avviato l’iter di autocandidatura all’interno della Python: chi fosse interessato, può inviare l’apposito modulo, debitamente compilato, all’ufficio del personale. Vi informo che i nostri ricercatori avranno la precedenza sui candidati esterni, che in questi giorni si sono proposti in gran numero. Il periodo di selezione durerà sei mesi. È tutto chiaro?»

    Nella domanda retorica i presenti riconobbero l’invito implicito a considerare conclusa la riunione, e ad accettare senza riserve la nuova organizzazione presentata da Ferri. 

    Quella sera, il telefono di casa Cossali, dopo una serie di squilli sempre più insistenti, mise in comunicazione per l’ultima volta Lamberto con il mondo esterno. 

    «Pronto?»

    «Dottor Cossali, sono Daniele. Aveva ragione lei. Ha previsto con precisione tutte le mosse del dottor Ferri.» Legato a Cossali come un neonato alla madre, Daniele Alessi, un ricercatore assunto alla Python pochi mesi prima, non aveva accettato l’idea di perdere il proprio capo. 

    «È finita, Daniele. Per il suo bene, mi dimentichi e pensi a difendere le sue possibilità di carriera alla Python. Per favore, non cerchi più di rintracciarmi. Da oggi Lamberto Cossali non esiste più.»

    3

    Mercoledì, 8 febbraio 2006

    «Una lettera per me? Strano» borbottò perplesso Boris Rip­chenko.

    «Cosa c’è di tanto strano?» gli chiese Filippo, il postino di Madonna di Campiglio, con il suo inconfondibile accento napoletano. 

    «Nulla… dicevo così per dire» rispose Boris. 

    Boris aveva preso in affitto una graziosa villetta a Madonna di Campiglio per trascorrere una vacanza con la moglie Annette. Grande maestro di scacchi, si era trasferito con la famiglia da Mosca a Parigi nel 1991, quando aveva accettato la proposta del circolo scacchistico Eiffel di allenare la squadra juniores. Pur essendo stato un giocatore di ottimo livello, aveva preferito fin da giovane dedicarsi all’insegnamento e rinunciare così alla notorietà.

    La caduta del muro di Berlino era stata l’occasione per scoprire un mondo che non avrebbe neanche immaginato se fosse rimasto tra le decorose mura del suo trilocale moscovita. Gli anni erano trascorsi nella serenità di un appartamento a Montmartre, quartiere ideale per un artista della scacchiera, come Boris era considerato dai soci del circolo parigino. 

    Vladimir e Natasha, i due figli della coppia, si erano laureati entrambi, l’uno in fisica, l’altra in ingegneria elettronica. Al termine degli studi avevano deciso di trasferirsi all’estero. Natasha era diventata ricercatrice all’università di Berkeley. Vladimir aveva trascorso un anno in California, occupandosi di computer quantistici, per poi ottenere un prestigioso incarico a Scotland Yard, a Londra. Era diventato, insieme al chimico cinese Ronggang Xu e al patologo indiano Charanjit Anand, un membro della squadra LT, la sezione investigativa dell’Europol di Londra guidata dall’ispettore Tobia Allievi.

    «Non vi ho mai visto prima, signor Ripchenko. Siete un amico della signora Chinelli?» domandò il postino.

    «La signora mi ha affittato questa villetta. Sono arrivato due giorni fa.»

    «E qualcuno già vi scrive? Ma chi siete? Siete più famoso di Maradona!»

    «Sarebbe così gentile da consegnarmi la lettera, signor…?» si spazientì Boris.

    «Filippo. Possiamo darci del tu.»

    Boris alzò gli occhi al cielo. Gli era difficile sopportare l’invadenza del postino. «D’accordo, Filippo. Gli amici mi chiamano zio Boris. Parli francese?»

    «No, non parlo francese. È meglio continuare con l’italiano, sebbene la tua pronuncia sia troppo nasale. Per me, avresti bisogno di un po’ di lezioni, zio Boris. Conosco la persona giusta che potrebbe fare al caso tuo. Anche se, devo riconoscerlo, con la grammatica te la cavi proprio bene. Devi essere una persona colta.»

    «Sono un maestro.»

    «Insegni alle scuole elementari?»

    «Sono un grande maestro di scacchi, con tanti giovani allievi.»

    «Tu saresti un grande maestro di scacchi? Non ti ho mai sentito nominare.»

    «Vuoi mettermi alla prova?» disse Boris. «Facciamo un patto: se riesco a sconfiggerti in meno di trenta mosse, la prossima volta ti limiterai a consegnare la posta nella casella, senza suonare il campanello.»

    «Questo non posso proprio prometterlo: se devo consegnare una raccomandata oppure un pacco, sono obbligato a premere il pulsante: drin drin

    Boris strappò la busta dalle mani di Filippo e la aprì. Fu colpito da un curioso dettaglio della lettera, a sinistra dell’intestazione che riportava il nome dell’Accademia scacchistica milanese. Strano logo. Sembra un camaleonte, pensò. 

    Il mittente, un certo Lamberto Cossali, si dichiarava amico di un giocatore russo che era stato allievo di Boris una trentina di anni prima. Lamberto raccontava di aver partecipato a una partita a scacchi per corrispondenza nei primi anni Settanta tra una rappresentativa giovanile dell’Accademia scacchistica milanese e una squadra moscovita, allenata da Ripchenko. Era stata la prima di una lunga serie di sfide epistolari, che in un paio di occasioni avevano contrapposto Lamberto allo stesso Ripchenko.

    Lamberto proseguiva scrivendo di essere diventato insegnante di scacchi, solo per hobby, presso il suo vecchio circolo, e di nutrire una speranza: quella di organizzare una nuova sfida per corrispondenza, questa volta tra i suoi ragazzini e il suo avversario di allora, Boris Ripchenko.

    «Vorrei fare due regali per due avvenimenti importanti.»

    Pietro, il giovane commesso della Boutique della stilografica di corso Buenos Aires, squadrò il cliente che si era presentato al bancone: un cappotto grigio scuro, un Borsalino in testa, un paio di occhiali da sole. Notò subito le basette ingrigite e ipotizzò che fosse sulla quarantina. Il tono di voce, sicuro e perentorio, denotava una forte personalità.

    «Importanti come una cresima, una comunione, oppure una promozione? E a chi deve fare i due regali?»

    «Il primo è per il figlio di un amico che sta per laurearsi. Il secondo è per uno dei miei nipoti… Fra poco è il suo compleanno» spiegò l’uomo.

    «Ha già in mente qualcosa di particolare?» domandò con cortesia Pietro.

    Un’idea precisa? Certo che ce l’ho, ma voglio essere sicuro di fare la scelta giusta, pensò l’uomo. «No, in realtà conto molto sulla sua competenza. Il primo regalo deve essere qualcosa di davvero speciale. Invece per mio nipote sono orientato su un articolo meno pregiato. Sa, ha solo quattordici anni, non voglio fargli un regalo troppo impegnativo.» 

    Il giovane commesso poteva avere circa venticinque anni. La sua costituzione – un metro e sessanta per una cinquantina di chili – giustificava il soprannome di Scricciolo che la padrona del negozio, con affetto, gli aveva affibbiato. «Se vuole seguirmi, le mostro alcuni modelli davvero unici» disse Pietro. Raggiunto il bancone centrale, tirò fuori da uno dei cassetti una stilografica Montblanc, nera e con pennino in oro. «Questa potrebbe fare al caso suo» propose Scricciolo.

    L’uomo finse di esaminare il modello con attenzione e di valutare le sensazioni provate nell’impugnare la costosa stilografica. Non espresse alcun giudizio, ma fece capire di non essere molto convinto.

    Pietro comprese la situazione e propose un modello di colore blu scuro. 

    «Linea classica ed elegante… mi piace. Scelgo questa per il figlio del mio amico.»

    Lieto di avere soddisfatto la prima richiesta del cliente, Pietro sorrise. 

    «E per mio nipote?» domandò l’uomo.

    «Direi di spostarci verso il terzo bancone, riservato agli articoli per bambini e ragazzi.» 

    La scelta fu molto difficile. L’uomo si mostrò ogni volta critico di fronte alle diverse proposte, passando da atteggiamenti sgarbati a espressioni volutamente provocatorie.

    Pietro non perse la calma e si ricordò di un modello speciale, rivoluzionario: «Credo che questa Pelikan faccia proprio al caso nostro! Come ho fatto a non pensarci prima?» disse in tono trionfante, mentre estraeva da un astuccio una piccola stilografica di colore grigio metallizzato. Scricciolo spiegò che era realizzata in una resina speciale, che ricordava nell’aspetto e nel comportamento un metallo.

    «Mi sembra perfetta» commentò l’uomo, soddisfatto.

    Drin drin!

    La persiana in legno della finestra al primo piano si schiuse. Una tendina a fiori si scostò, lasciando intravedere il volto accigliato di Boris.

    «Zio Boris, c’è ancora posta per te» urlò Filippo, agitando con la mano destra una busta. «Questa mattina c’è stato un piccolo disguido all’ufficio postale.»

    L’uscio della villetta si aprì e la stazza dell’arzillo settantenne fece capolino sulla soglia. «Merci, Filippo.»

    Rientrato in casa, Boris aprì la lettera. 

    «Scacco matto al grande maestro: matto del barbiere.» 

    Boris pensò si trattasse di uno scherzo.

    4

    Sabato, 11 febbraio 2006

    L’incontro si svolse in gran segreto. 

    Leonardo Giannini, fondatore della Python, aveva scelto un ristorante di un paesino alle porte di Milano, lontano da sguardi indiscreti. Entrò nel locale con incedere incerto, aiutandosi con un bastone. Negli ultimi due mesi il suo fisico non aveva resistito agli attacchi della vecchiaia. La schiena si era incurvata, le gambe stentavano a sostenere il peso del corpo, un lieve tremore si era impadronito delle mani. 

    Seduto al tavolo, in attesa, vide Tobia immerso nella lettura di un quotidiano. I ricordi di un tempo affiorarono nella mente di Leonardo. Sei l’immagine di tuo padre, pensò. 

    L’amicizia tra Leonardo e Paolo, il padre di Tobia, era nata sui banchi di scuola e si era rafforzata sempre più durante la guerra. Entrambi avevano visto in faccia la morte, più di una volta, dopo essersi uniti ai partigiani. Terminata la guerra, Leonardo si era laureato in ingegneria. Paolo, invece, aveva fatto domanda di assunzione nella polizia. Le diverse carriere non avevano tuttavia impedito ai due amici di continuare a frequentarsi e a confessarsi i loro segreti, aiutandosi a vicenda. Erano stati felici durante gli anni del miracolo italiano. Alla nascita di Alessandro Giannini, Paolo aveva gioito quasi più dell’amico. Leonardo era rimasto commosso e aveva atteso con pazienza che i ruoli si invertissero. Quando seppe del fiocco azzurro in casa Allievi, fu tra i primi a precipitarsi alla clinica Mangiagalli con un regalo speciale per il neonato: una catenina che Tobia portava ancora al collo. 

    La felicità era durata pochi anni. Nemmeno Leonardo era riuscito a cancellare quel triste giorno. 

    «Tobia» disse Leonardo raggiungendolo al tavolo. «Hai gli stessi occhi di allora…»

    Allievi inarcò le sopracciglia. «Allora ero solo un bambino, cavaliere.» Tobia aveva soltanto un vago ricordo dell’amico di suo padre. Gli sarebbe stato impossibile riconoscerlo a distanza di così tanto tempo. 

    «Chiamami pure per nome, ti prego. Tuo padre era come un fratello, per me… Considerami uno zio adottivo.» 

    Tobia si era sempre chiesto come avesse fatto sua madre a non fargli mai mancare lo stretto necessario. Ora aveva trovato una risposta. Gli occhi di Leonardo parlavano da soli.

    «Come ti ho spiegato per telefono, ho bisogno del tuo aiuto. È stato un colpo di fortuna leggere sul giornale che il celebre ispettore dell’Europol Tobia Allievi era a Milano. Non potevo non chiamarti.»

    «In verità, sono rimasto colpito dalla sua… dalla tua telefonata. Non mi risulta che sia stato commesso un crimine nella tua azienda.»

    «È vero, non ci sono cadaveri, almeno spero. Tuttavia, in un certo senso, è come se ci fosse stato un omicidio, non di una persona, ma di una professione. E la vittima è scomparsa. Per questo ho deciso di contattarti.»

    Tobia sorrise. «Ci sono molti investigatori più bravi di me. Perché non ti rivolgi a uno di loro?»

    «Hai proprio ereditato la modestia di tuo padre. Ti ho contattato perché sei l’unica persona di cui mi possa fidare. Sono nelle tue mani. Sarai ben ricompensato, te lo prometto.»

    Tobia alzò le braccia: «Se decidessi di aiutarti, non lo farei certo per soldi…».

    «Troveremo il modo di metterci d’accordo, ne sono sicuro. Mi devi aiutare a far luce su… un brutale accoltellamento alle spalle. Sono vecchio, Tobia. Ho superato gli ottanta. Sto perdendo le forze. Quando mi guardo allo specchio ho l’impressione di vedere un debole genitore che ha ceduto ai capricci della figlia, commettendo il più grosso errore della propria vita. Ti prego, non dirmi di no.» 

    I due uomini si guardarono negli occhi. 

    Tobia avvertì una stretta al cuore.

    Il ragno si era risvegliato.

    «Raccontami tutto, con calma» disse Tobia.

    Leonardo descrisse con dovizia di particolari la situazione che si era venuta a creare alla Python. «Sono certo che accetterai la mia proposta» concluse. «Tu e

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