Il pittore di Langa: Dipinti di sangue per l'investigatore Martinengo
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Info su questo ebook
Fabrizio Borgio, classe 1968, scrittore e sceneggiatore piemontese di narrativa di genere, con una predilezione per gialli, noir, horror e spy stories. È padre dell’agente speciale Stefano Drago (Masche e La morte mormora per Fratelli Frilli Editori e Il Settimino per Acheron books) e dell’investigatore privato Giorgio Martinengo le cui storie sono pubblicate da Fratelli Frilli Editori: Vino rosso sangue, Asti ceneri sepolte, Morte ad Asti, La ballata del Re di Pietra, Panni sporchi per Martinengo. Alcuni suoi libri hanno ricevuto riconoscimenti presso prestigiosi festival e concorsi tra i quali Giallo Garda con due menzioni speciali e il primo premio al Concorso eno-letterario Vermentino della Camera di Commercio di Sassari. Il pittore di Langa è la sesta storia di Giorgio Martinengo. Vive a Costigliole d’Asti, a cavallo di Langhe e Monferrato sulla cima di un bricco.
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Anteprima del libro
Il pittore di Langa - Fabrizio Borgio
PARTE PRIMA
Nessuno ha mai scritto, dipinto, scolpito, modellato, costruito o inventato se non per uscire letteralmente dall’inferno.
(Antonin Artaud)
CAPITOLO PRIMO
Sia l’arte che l’artista non hanno una propria identità, ma la acquisiscono nell’incontro dell’uno con l’altra.
(Harold Rosenberg)
***
Nell’istante in cui il vino rosso si spanse sulla camicia immacolata del professor Gaspare Volpe, critico d’arte, l’attenzione di Giorgio Martinengo fu calamitata dalla forma della macchia che s’era allargata sul petto: la sagoma suggeriva l’America del Sud. Argentina e Cile, la Terra del Fuoco. Una dimostrazione, un marchio, forse, del carattere dell’autrice del gesto, Alice Aymone, oriunda piemontese nata a Buenos Aires.
Tutti i presenti raggelarono e la sala dove si stava svolgendo il vernissage si paralizzò come in un fermo immagine. Lo sciacquio del vino per un istante coprì il vociare dei partecipanti, seguì il risucchio dell’aria tra le labbra del professore, inchiodato dalla sorpresa, e lo strillo della donna che gli si era lanciata contro brandendo il bicchiere. Giorgio s’era trovato fra i due: a mente fredda, più tardi quel giorno, avrebbe considerato che per pochi, fortuiti centimetri non era stato investito anche lui dal vino.
Prudente, mosse un passo indietro mentre Volpe, fradicio, si sollevò dalla poltrona dalla quale poco prima stava pontificando sull’arte; teneva le braccia larghe e si guardava incredulo e sporco di Nebbiolo d’annata. Giorgio ne riconobbe il profumo. A quel punto, l’Aymone si avvicinò; calzava Dr. Martens e i suoi passi tamburellavano sul parquet, minacciosi, in mano stringeva ancora il calice, ormai vuoto. Anche così riusciva a essere elegante e sofisticata, solo gli occhi scuri scintillavano di una luce furiosa; quando parlò, rivolta al professore che tentava di tamponare il vino con dei fazzolettini di carta, la voce suonò calma e controllata.
A parte sedurre giovani promettenti, non vedo nessun altro talento in te. Sei squallido e tronfio di nozioni che mortificano qualsiasi novità. Cerchi carne fresca per non pensare al tuo marciume, ma sei vecchio e puzzi di cadavere.
Un’espressione di disgusto le stropicciò le labbra.
Volpe parve sentire tutto e Giorgio vide come nella sua mente cercasse frenetico una risposta adeguata per replicare alla stoccata appena ricevuta; quando infine aprì la bocca, Alice Aymone lo anticipò: Ok, boomer.
E gli girò le spalle andandosene, il vestito a fiori che svolazzava.
Volpe sollevò lo sguardo verso i presenti, una luce speranzosa luccicò nelle iridi chiare. Il pubblico mormorava imbarazzato, una donna dello staff accorse con un tovagliolo, un’altra irruppe spingendo un carrello col mocio. Il professore lottava silenzioso per evitare che l’orgoglio franasse sotto lo sgocciolare del Nebbiolo, Giorgio ne intuiva lo sforzo nelle labbra strette, negli smozzicati monosillabi, nella difficoltà anche solo di spostarsi dalla sua poltrona per lasciar pulire la pozza che il parquet stava assorbendo.
Costernata.
Giorgio si girò.
Sono costernata,
ripeté la donna. Fasciata in un abito di velluto, stivali alti e chioma di platino, Raffaella Ghiraudo intrecciava le dita ingioiellate e, sebbene parlasse con lui e gli altri testimoni dell’incidente, i suoi occhi scrutavano le tele in esposizione alla ricerca di eventuali macchie e, quando quegli stessi occhi andarono oltre, sulla vetrina che si apriva su via Cavour, da dove si notava l’Aymone di spalle, la voce si abbassò in un ringhio: Stronza.
Giorgio poté udirla bene.
Allora si schiarì la voce, nel timido tentativo di dissipare la rabbia della Ghiraudo, mentre Volpe gli rivolgeva l’attenzione, forse nel tentativo di stimolare in lui una sorta di solidarietà maschile che non provava nella maniera più assoluta.
Oppure stronzo, pensò d’istinto restituendo l’occhiata di Volpe. Ora, sulla camicia del professore non si distingueva più l’America del Sud, la macchia s’era allargata, sformata e sbiadita, il tessuto aderiva al torso mettendo in evidenza il rilievo di una canottiera e d’una pancia che tondeggiava allegra oltre il bordo delle braghe. Un singolo gesto aveva spazzato via tutta la composta autorevolezza del professore, che ormai ricordava più l’avventore di una piola piuttosto che un’autorità nel mondo dell’arte.
Intanto fuori, sempre appoggiata alla vetrina, Alice s’era accesa una sigaretta e tirava lunghe boccate nervose, mentre con l’altra mano reggeva il suo iPhone. Giorgio si accomiatò salutando e ringraziando; la sua educazione gli parve ironica, ma insopprimibile. Afferrò il trench che la guardarobiera gli aveva sporto, impassibile, e uscì per indossarlo all’aria umida, raggiungendo Aymone.
Pioveva su Alba, gocce fini e insistenti che ricoprivano la capitale delle Langhe di una patina lucida e filtravano la luce di quella domenica pomeriggio di fine autunno rendendola pallida e decolorata. La città appariva più austera così.
Alice spiccava con i suoi colori. L’abito fuori stagione si stava bagnando, Giorgio poté distinguere l’incresparsi della pelle sulle braccia nude, anche i capelli pendevano, lunghi, lisci e castani, come un sipario sulla rabbia che l’aveva pervasa. Gliel’aveva pur detto, Baer, quando l’aveva assunto: Alice è come la nitroglicerina, se non la sai maneggiare esplode per un niente.
Avanzò d’un passo, l’acqua gorgogliava giù dalle grondaie e si spandeva sul viale; Alice si accorse di lui e girò la testa, il braccio piegato con la sigaretta fra le dita, sollevata accanto al volto. Represse un brivido. Giorgio non si sentì di dire niente, sfilò il trench e glielo porse, poi, osando drappeggiarglielo sulle spalle, lei se lo strinse addosso e tirò su col naso: Voglio andarmene,
dichiarò.
Andiamo,
disse Giorgio.
Mosse un paio di passi verso piazza Medford, dove aveva parcheggiato il Discovery, mentre Alice era partita con il suo passo deciso verso piazza Risorgimento e il Duomo. Giorgio s’arrestò e la raggiunse. La macchina è di là.
Lo so.
Alice camminava al centro del corso, pestando le pozzanghere e schizzandosi le calze, gli lanciò un’occhiata furiosa da dietro: Devo sbollire.
Giorgio si fermò osservandola allontanarsi, era implicita la richiesta di solitudine e, anche se l’incarico prevedeva che non dovesse perderla di vista neanche per un attimo, capiva che quel minimo di briglia sciolta era l’unico pedaggio che potesse versare per accedere alla sua fiducia.
Ritornò alla sala della Fondazione, un capannello di persone stava uscendo facendo fioccare gli ombrelli con l’ansia di un gruppo di idrofobi, mentre lui, riparato dalla sua coppola inglese, li osservava con sottile commiserazione. Quando se ne furono andati rientrò alla mostra.
Una gigantografia di Pietro Pedro Ghiraudo guardava l’ingresso, un intenso primo piano in bianco e nero dell’artista da poco scomparso. Il volto selvatico fissava l’obiettivo con grandi occhi scuri, una barba sale e pepe gli contornava il viso e, da sotto una berta di lana, ciocche ribelli ricadevano sulla fronte e sulle spalle. Se lo ricordava. Aveva vissuto molti anni a Castagnole Lanze, dove aveva acquistato una cascina isolata verso Coazzolo, che era diventata il suo studio.
Un pittore in paese equivaleva alla discesa degli alieni in piazza San Bartolomeo, era stato accolto con la stessa, incredula perplessità; sbalordiva i paesani che quell’uomo che conosceva la terra si guadagnasse da vivere coi pennelli. Il rintocco irritato d’un paio di tacchi annunciò Raffaella Ghiraudo, l’incompatibile sorella dell’artista percorreva avanti e indietro le sale con la camminata stizzita, mormorando parole di costernazione a chiunque incrociasse. Quando lo notò, Giorgio le restituì l’occhiata e infilò le mani nelle tasche dei jeans, in attesa.
Non doveva tenerla d’occhio?
l’accusò.
Giorgio si guardò alle spalle: Alice non c’era.
Mi sembra che si difenda bene da sola,
commentò. Ci sarebbe stato bene tirare fuori la pipa e mordicchiarla, dopo quella risposta involontariamente sarcastica, ma non lo fece, non voleva rincarare.
La Ghiraudo si piantò i pugni nei fianchi morbidi, gli occhi s’indurirono, ma poi cambiò. Qualcosa di caldo le distese i tratti del viso, le labbra marcate da un rossetto scuro accennarono un arco amichevole. Certo, Gaspare se l’è cercata.
Chi?
Volpe.
Giorgio annuì, mentre con la memoria ricostruiva la discussione precedente il lancio del Nebbiolo: il professore stava dibattendo di arte con una certa sufficienza verso Alice, il tutto davanti al quadro principale della mostra, La Sinòira. La discussione era parsa densa, ma non litigiosa, fino alla reazione della Aymone.
È un bel caratterino,
osservò Giorgio.
Raffaella Ghiraudo gli indicò un punto in fondo alla sala: Un caffè?
E si girò sui tacchi rumorosi, ancheggiando.
Giorgio la seguì, gli occhi catturati dai fianchi della donna, fino a una lussuosa Nespresso, posata su un tavolino tra due sculture primitiviste. La Ghiraudo preparò i caffè, gli porse un bicchierino di carta compostabile e si sedette accavallando le gambe forti.
È stata la sua amante per un po’,
gli sussurrò con fare complice. Un sorriso a labbra serrate, strette fino a stirarle.
Ama l’antiquariato,
non s’impedì di dire Giorgio. La Ghiraudo strinse di nuovo le labbra in quel sorriso acido, da bevitrice masochista di succo di limone.
Oh, li porta bene, ma non è più una ragazzina.
Ma pensa...
La perfida stoccata della Ghiraudo non lo sfiorò; ai suoi occhi, Alice Aymone appariva una ragazzina, ma ai suoi cinquant’anni anche una trentenne cominciava a sembrargli distante. A differenza di Volpe, che delle ragazze sembrava volersene abbeverare al pari d’una fonte della giovinezza. Forse il sentore del declino partiva proprio da quei desideri.
Giorgio bevve il suo caffè, accartocciò il bicchierino e lo lasciò cadere nel bidone. La Ghiraudo cambiò gamba accavallata. Ci fu un fruscio, ma lui represse l’istinto di guardargliele.
Forse ha sbagliato a invitare entrambi,
azzardò.
La Ghiraudo borbottò qualcosa, posò il suo caffè e sventolò la mano. No, non potevo proprio evitarlo. È a loro due che si deve la divulgazione dell’opera di Pedro. I primi che hanno intuito il suo talento, la portata del suo progetto artistico.
La donna si alzò stirandosi il vestito sulle cosce e avanzò decisa verso La Sinòira.
Era un dipinto a tempera su tela, di circa due metri per due, raffigurante una natura morta. Ghiraudo aveva scelto un soggetto banale per quello che era considerato il suo capolavoro: La Merenda Sinòira, il classico pasto dei contadini, consumato verso quella che i tempi moderni definivano come l’ora dell’aperitivo e che permetteva di prolungare il lavoro nei campi finché la luce reggeva. Sulla tela imperavano grappoli d’uva, taglieri di salami, pane, frittate verdi alle erbe, uova sode e una mezza toma a disegnare un semicerchio irregolare pallido in contrapposizione con una porzione nera che occupava circa un quarto dell’opera e che aveva fatto dibattere più di un critico a riguardo: l’avanzare della notte, l’oscuro presagio di un cambio dei tempi contro la tradizione, un guizzo cupo che spezzava la perfezione spaziale degli alimenti rappresentati. Giorgio ci vedeva lo spicchio d’un pneumatico. Di un trattore. Glielo disse, alla Ghiraudo, mentre lei proseguiva nella disamina.
Ludovico Sacchetto, della GAM di Torino, l’ha accostato a Guttuso,
disse con fierezza. Sebbene privo della vorticante mediterraneità del pittore siciliano, dei suoi colori violenti e intensi,
citò ancora, poi si fermò, dopo che lui le ebbe confessato la sua visione. La donna spalancò gli occhi, annuì meravigliata: Anche la Aymone ci ha visto la gomma di un trattore. E Sacchetto, pure lui.
Volpe no?
La Ghiraudo ci pensò su un attimo, gli occhi puntati verso il soffitto, l’unghia che batteva ritmica sulla guancia e le labbra civettuole. Sembrava quasi che stesse atteggiando una sottile seduzione. Per un momento, Giorgio si ritrovò a guardarla con occhi maschili. Si truccava in maniera calcata per i suoi gusti e aveva degli occhi verdi molto belli, il corpo pieno, seni importanti. Gli sorrise, infine, tanto che i rimbrotti stizziti di prima sembrarono svanire davanti ai colori caldi del quadro.
"No, Gaspare era convinto che Pedro fosse un primitivista puro, troppo legato alla terra, alla sua terra, per contaminarsi con il mondo moderno."
Che stronzata, pensò Giorgio, ma lo tenne per sé. Mosse un passo indietro, la ruota del trattore a un secondo sguardo si mostrava davvero massiccia, simile a un cupo fronte temporalesco, di quelli che nelle sere d’estate incombono come cappe di piombo, pronti a spaccare la calura e riversare acqua, grandine e forza rabbiosa sulla terra. E gli acini d’uva, posati molli vicino alla toma, avevano qualcosa di tenero e fragile.
C’era disperazione in quel dipinto.
Sospirò, incrociò le braccia sul petto, abbassò il mento. La Ghiraudo si fece più vicina, portava un profumo vanigliato che faceva pensare al sesso, goloso, dolce e porco; Giorgio ne fu turbato, tanto da deglutire e cambiare postura. Sollevò il Timex per vedere quanto tempo aveva speso a farsi eccitare dalla sorella