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Terremoto dentro
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E-book260 pagine3 ore

Terremoto dentro

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Info su questo ebook

Una raccolta di racconti. Una storia fatta di tante storie.
Da L'Aquila a l'Emilia.
Il terremoto fa paura, mette paura, sconvolge i percorsi e le
strade certe. Il terremoto porta alla luce un'unica grande verità,
l’incertezza e la fragilità che rende l’uomo piccolo di fronte a una
natura che non chiede il permesso.
Il terremoto arriva quando non lo sai e porta quello che
neanche immagini o potevi immaginare.
Lascia segni. Ovunque.

Le persone. Quelle segnate, in molti modi diversi, lungo
diversi percorsi, che poi ricominciano, ricostruiscono, prendono
coscienza e, una pietra dopo l’altra, un passo dopo l’altro, reinventano
il domani.
Sono proprio le persone il centro di queste storie.

I racconti, dunque, sono raccolti in due sezioni, Abruzzo 6 aprile 2009 3.32 ed Emilia 20 – 29 maggio 2012.
L’esplorazione, da un lato, di una storia di altri che si voleva fare propria, attraverso la costruzione di narrazioni e dall’altro il racconto della propria storia, si compongono in un unicum, articolato e vario, in cui i tanti aspetti, così diversi e complicati di questo terremoto fuori e terremoto dentro, si intrecciano, fino a dipingere quel quadro meraviglioso che è l’uomo e la sua fragile potenza.
LinguaItaliano
Data di uscita3 feb 2014
ISBN9788868856434
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    Anteprima del libro

    Terremoto dentro - Autori Vari A Cura Di Alessandra Pederzoli

    a cura di Alessandra Pederzoli

    TERREMOTO DENTRO

    Questo lavoro nasce all’interno di un laboratorio di scrittura creativa che ha dato seguito al progetto Terremoto Dentro promosso da Ausl di Imola, INGV di Bologna, liceo socio psico pedagogico di Imola, Rete delle Associazioni e Polisportive legate ai Centri di Salute Mentale della Regione Emilia Romagna.

    Tutto è partito da un viaggio di stage a L’Aquila nel quale i partecipanti hanno conosciuto la città a due anni dal terremoto, incontrato i cittadini, ascoltato e conosciuto le loro storie. Al ritorno la necessità di elaborare l’esperienza, riviverla e trasmetterla attraverso il racconto, prima di costruzione fantastica poi di autobiografia, in seguito al terremoto emiliano del maggio 2012.

    Ogni riferimento a cose o a persone reali è puramente casuale 

    Foto di copertina: interno del municipio di Medolla, gennaio 2013. Foto di Sergio Maritato

    UUID: e8530118-8c52-11e3-8535-27651bb94b2f

    Questo libro è stato realizzato con BackTypo

    un prodotto di Simplicissimus Book Farm

    Indice dei contenuti

    ABRUZZO

    PRESENTAZIONE

    LIBERO, FINALMENTE

    SALTO NEL VUOTO

    SALTO NEL VUOTO

    PICCOLO INVISIBILE SERPENTE

    SILENZIO

    TROPPO TARDI

    LA FERITA

    IL VETRO ROTTO DI UNA FOTO

    LA RIMOZIONE

    ONDE DI PIETRA

    FINALMENTE LIBERO

    FELICITA', FORTUNA AVEVA AVUTO ELISA

    UN CALCIO GIALLO

    FRANCA ANNA CLAUDIO GIACOMO

    LA STRETTA DI MANO

    IL VESCOVO

    PAROLE. SEGNI. SENSAZIONI

    UNDER THE SUN

    THAUMA

    GRAFIE

    EMILIA

    DA L'AQUILA A FINALE EMILIA

    STO DORMENDO

    L'IMPOSSIBILE IN UNA NOTTE

    RUSPA E ARCOBALENO

    LE QUATTRO E ZEROTRE

    VENTINOVEMAGGIO

    EMILIA

    CAMPOVOLO

    SOLITUDINE

    SPERANZA

    GLI OCCHI DI ANITA

    DOPO MESI

    ESSERE O NON ESSERE, AVERE O NON AVERE

    DELIRI NELLA NEBBIA

    FACCIAMO NOI

    NUBI SPARSE

    A DUE VOCI

    GLI AUTORI

    Ringraziamenti

    ABRUZZO

    6 APRILE 2009 3.32

    PRESENTAZIONE

    Alessandra Pederzoli

    ...mi sto facendo crescere la barba perché ho tante paure e la barba mi protegge. Ma la paura più grande che ho è quella del terremoto.

    Il terremoto fa paura, mette paura, sconvolge i percorsi e le strade certe. Il terremoto porta alla luce una unica grande verità, l'incertezza e la fragilità che rende l'uomo piccolo di fronte a una natura che non chiede il permesso.

    Il terremoto arriva quando non lo sai e porta quello che neanche immagini o potevi immaginare. Distrugge, fa crollare, sposta, assesta e riassesta, lascia segni sulla terra, nei muri, nelle pietre, negli orologi a pendolo che si fermano e ti ricordano quei pochi, indelebili, secondi.

    Lascia segni. Ovunque.

    Lascia segni nelle persone. Nelle persone che lo vivono e lo respirano.

    Le persone. Quelle segnate, in molti modi diversi, lungo diversi percorsi, che poi ricominciano, ricostruiscono, prendono coscienza e, una pietra dopo l'altra, un passo dopo l'altro, reinventano il domani.

    Sono proprio le persone il centro di queste storie.

    Persone inventate, storie raccolte, ascoltate, re-impastate tutte insieme, rielaborate. Storie guardate con gli occhi di chi un terremoto non l'aveva mai vissuto, di chi lo poteva solo immaginare viaggiando per le strade dell'Aquila a due anni dal sisma. Storie che si intrecciavano ai riflessi della luce del sole, sugli snodi dei ponteggi, al silenzio delle strade in zona rossa, dove solo il rumore del vento tra le transenne e le lamiere faceva da compagno di viaggio.

    Le voci di chi raccontava, di chi mostrava la sua L'Aquila, di chi la voleva far arrivare lontana, almeno nelle testimonianze che dovevano insegnare qualcosa.

    Tutto questo ascoltare, incontrare persone, vivere situazioni, percorrere strade e respirare vita ed emozioni così forti e così contrastanti tra loro, rabbia, energia, delusione, rassegnazione e voglia di crescita nello stesso tempo, ha portato a inventare storie. Storie dove sta dentro tutto e dove l'uomo che vive oggi, ha vissuto ieri, e progetta domani, è al centro della narrazione.

    L'ascolto e il tentativo di immedesimazione in una situazione sono diventati poi esperienza. Esperienza concreta, viva, pungente, completamente invadente e invasiva. Da spettatori a attori. Il terremoto abruzzese raccontato è diventato terremoto emiliano vissuto, toccato con mano.

    Il racconto è diventato autobiografia, testimonianza. Gli autori sono diventati narratori di loro stessi. Le storie sono divenute le loro storie. Le case, le loro case. I paesi, i loro paesi. Le emozioni, le loro emozioni.

    I racconti, dunque, sono raccolti in due sezioni, Abruzzo 6 aprile 2009 3.32 ed Emilia 20 – 29 maggio 2012.

    L'esplorazione, da un lato, di una storia di altri che si voleva fare propria, attraverso la costruzione di narrazioni e dall'altro il racconto della propria storia, si compongono in un unicum, articolato e vario, in cui i tanti aspetti, così diversi e complicati di questo terremoto fuori e terremoto dentro, si intrecciano, fino a dipingere quel quadro meraviglioso che è l'uomo e la sua fragile potenza.

    LIBERO, FINALMENTE

    Fabio Tolomelli

    Finalmente libero! Pensò Giacomo uscendo dal carcere.

    Erano passati due anni dalla condanna di omicidio colposo per quel crollo a L'Aquila. Era stato direttore dei lavori per la costruzione di quel palazzo.

    Sì il terremoto era stato forte. Ma se i lavori di costruzione fossero stati corretti quell'edificio non sarebbe crollato. Soprattutto non ci sarebbero stati tanti uomini e donne morti, amici e parenti straziati dal dolore dalla perdita dei loro cari.

    Durante il periodo di coercizione carcerario, Giacomo si era chiuso in un silenzio abissale, pensava solo ai giorni che gli rimanevano di carcere e non parlava con nessuno. Restava giorno e notte al buio guardando fisso il soffitto senza riuscire a pensare a nulla.

    Fisicamente fuori dal carcere sentì un nodo stringergli la gola. Non capiva più nulla. Poi la mente finì di girare a vuoto e come una pallottola conficcata nel cervello sentì spalancarsi la testa. Così potè ricordare quanto era successo.

    Era il bel mezzo degli anni ottanta, anni degli yuppies per intenderci: bella vita, belle donne, vestiti firmati, auto e moto di grossa cilindrata. Il denaro, il successo e l'arrichimento ad ogni costo facevano da padrone. I valori morali erano scaduti inesorabilmente.

    Giacomo lo sapeva che quel palazzo sarebbe crollato per un terremoto neanche troppo forte; tuttavia la moglie pretendeva da lui danaro; ne era avida. Per la sua bellezza qualsiasi richiesta della donna era per lui un comando. Donna che nel momento più critico del carcere lo aveva lasciato per uno più ricco. Ma per lui non cambiò nulla perchè tanto affettivamente non gli aveva mai dato niente.

    Ora era solo al mondo, non aveva parenti, gli amici li aveva persi tutti. Possedeva solo una valigia con qualche vestito. Dove andare, cosa fare a chi rivolgersi. Il nodo alla gola si faceva sentire sempre più forte: doveva piangere ma non ci riusciva. Si sentiva seguito, controllato, osservato dai passanti. Poi odiato, deriso e preso in giro. Ma tutto ciò non lo toccava più di tanto. Era il pensiero di aver sbagliato volontariamente a fare i calcoli a farlo star male. Pensò di voler dormire in modo che al risveglio il tempo fosse tornato indietro. Ma sapeva che anche questo non poteva accadere

    Ora aveva capito la dimensione della pazzia. Tutto questo aveva finito di logorare la mente ma il dolore più grande di tutti, il senso di colpa, avrebbe agito per tutta la vita senza dargli mai un'attimo di respiro. Mentre camminava verso il centro del paese dove abitava sentì battere una mano sulla spalla. Era Mimmo, capomastro, visibilmente ubriaco che disse: Sono felice di vederti fuori dal carcere. Giacomo non rispose, nè fece alcun cenno. Allora Mimmo guardandolo negli occhi e gli disse: Guarda sapevamo tutti con che materiali era stato fatto l'edificio, solo che tu hai pagato per tutti.

    Questa consapevolezza non mutò di una virgola il suo stato d'animo. Prese un foglio. Ci scrisse sopra che voleva andare a scusarsi personalmente con tutti i morti. Salì sul piano più alto di un palazzo rimasto in piedi e si gettò. Finalmente libero.

    SALTO NEL VUOTO

    Fabio Tolomelli

    Il silenzio era l’unica situazione in cui Roberto riusciva a leggere per sentirsi pienamente libero. Per lui leggere era uno sprigionamento di adrenalina pari al tuffarsi dal trampolino più alto della piscina olimpica dell’Aquila: prima si carica muscolarmente, poi libera il corpo verso l’alto, si coordina, e scende nel vuoto accompagnato da un sottile velo di paura di farsi male e infine, giù. Nell’acqua dove tutti i recettori sprigionano un forte senso di pressione, poi un istante di forte freddo, il silenzio. Alcune bracciate per risalire all’aria dove i polmoni si possono spalancare e l’ossigenazione libera un forte senso di euforia.

    Quel giorno Roberto si trovava a Bologna per una gara di tuffi, quando di buon mattino sua zia gli telefonò per dirgli della catastrofe. E con la schiettezza tutta abruzzese gli disse, senza giri di parole, che tutta la famiglia era morta sotto le macerie della casa completamente distrutta.

    Fu come un tuffo in una piscina completamente vuota, senza acqua. Il contatto con il fondo, forte e secco. Era come una profonda ferita che attraversava anima e corpo. Non più la gioia di risalire. Ma lì, fermi. Percependo solo il dolore interiore che aumentava e implodeva. Fino a quando scoppiò in lacrime, lacrime senza controllo. Quando Andrea, suo compagno di stanza, lo vide piangere gli chiese cosa fosse successo. Roberto visibilmente spaesato tra pianti e singhiozzi gli rispose telegraficamente: Il terremoto, non ho più nessuno e niente. Andrea che era irpino di origine, capì la devastazione che affliggeva l’amico. Gli prese la mano, lo abbracciò e gli disse senza paura di essere di circostanza: Amico, devi farti forza, hai la vita, puoi farla continuare, finchè la morte non ti chiamerà.

    SALTO NEL VUOTO

    Alessandra Pederzoli

    Il silenzio era l’unica situazione in cui Roberto riusciva a leggere per sentirsi pienamente libero. Per lui leggere era sprigionare la sua adrenalina, come lo era tuffarsi dal trampolino più alto della piscina olimpica dell’Aquila. Si allenava proprio lì quando, ancora studente, viveva con la famiglia nella prima periferia della città, prima di trasferirsi definitivamente a Firenze, dopo gli studi. Prima la carica muscolare, poi la libertà del corpo verso l’alto, la coordinazione, e la discesa nel vuoto, accompagnato dal sottile alito della paura di farsi male e infine, giù, l’impatto. Nell’acqua, dove tutti i recettori sprigionano un forte senso di pressione, poi un istante di forte freddo e il silenzio. Alcune bracciate per risalire all’aria dove i polmoni possono spalancarsi e l’ossigenazione libera un emozionante senso di euforia.

    Quel giorno Roberto si trovava a Bologna per una gara di tuffi quando, di buon mattino, sua zia gli telefonò per sbattergli in faccia, ancora assonnato, la catastrofe. E con la schiettezza tutta abruzzese che da sempre la contraddistingueva gli disse, senza giri di parole, che tutta la città era sotto le macerie, non si faceva ancora il conto dei morti e L'Aquila non c’era più. Ma tanto lo sapevano no, da troppo tempo l’aspettavano, anche se quelli là continuavano a seminare serenità, fatta di parole vuote. La sua famiglia però stava bene. I genitori non volevano preoccuparlo per lasciarlo tranquillo ma lei no, voleva che lo sapesse, alla faccia di quei suoi tuffi, che in fondo lei mica capiva cosa ci trovasse di tanto bello. Era successo un disastro e lui doveva saperlo, che cavolo!

    E ora vai, torna alla tua gara che qui noi, invece, se ne fa un’altra, di gara. Così la zia aveva chiuso quell’atroce telefonata del mattino. Una voce piena di rabbia e di astio. Non riusciva a decifrare quell’astio, non sapeva dirsi se venisse dal crollo della città e dalla disperazione che vi regnava o se, invece, non fosse il frutto di una avversione che la zia nutriva nei suoi confronti fin da quando se ne era andato, in cerca di chissà quale benessere altrove. Non lo sapeva. O forse sì. Ma poco importava. In quel momento davvero poco importava.

    Incredulo. Stavano bene. E nessuno voleva avvertirlo. E lui stava lì a tuffarsi nell’acqua fredda. Come freddo era il sangue che gli correva nelle vene e l’aria che sentiva nelle narici. Ma freddo non era.

    Che hai? Non ti avranno mica già comunicato che hai perso ancora prima di mettere il costume eh?! così Andrea, il compagno di stanza, lo punzecchiava per svegliarlo da quel torpore. Silenzio. Solo il rumore dei suoi pensieri.

    Oh! Ci sei? Che c’è? Morto il gatto della zia? Eddai che tra un po’ ti voglio sul pezzo. Concentrato, fermo, adrenalinico e preciso come sempre. Dai che ci si gioca la qualificazione eh?!

    E ancora silenzio.

    Ma allora mi preoccupo. Mi vuoi dire che cazzo è successo che una telefonata delle sei di mattina ti rende uno zombie?!

    Sai no che io sono abruzzese. Vengo da L'Aquila. Beh c’è stato il terremoto, stanotte, ieri sera… boh… non ho capito bene. Crollato tutto. Tutto capisci? Tutto, cazzo! E io sono qui. E mia madre, mio fratello, mio padre sono là e non so neanche dove stanno, che fanno, che faranno. Che cazzo!

    Oh porc! Dai accendi la tv, qualcosa diranno no? Prendi il telefono e chiama tua madre, tuo fratello, che cazzo ne so. Mica puoi stare lì a immaginare cosa può essere successo, no?

    Già, il telefono. Doveva sentire la loro voce, non poteva solo immaginare e appoggiarsi unicamente sull’astio della zia. Come se fosse colpa dei suoi tuffi se all’Aquila era venuto il terremoto. Mica stavano così le cose. Come se fosse stata colpa della sua scelta di trasferirsi a Firenze. Eh no, va bene tutto, ma no. E così telefono, televisione, notizie dai giornalisti, interviste nei servizi, immagini raccapriccianti, la voce della madre al telefono che lo tranquillizzava e quello del fratello che lo malediceva, quasi sorridendo, per non essere stato con loro in quel momento. Un saluto ad Andrea, pigiama in valigia, iscrizione alla gara lasciata sul tavolino dell’albergo e chiavi in mano. Un lungo, lunghissimo viaggio che da Bologna lo doveva riportare alla sua città. Mai avrebbe voluto tornarci così di fretta. Mai.

    Ore e ore alla guida, poi l’arrivo a quel bombardamento, prima di emozioni e poi di muri che trovava dinnanzi a sé e che gli impedivano, così accasciati com’erano, ancora fumanti di polvere, quasi di riconoscere i suoi luoghi. Quelli che l’avevano visto crescere e diventare uomo. Arrivare lì in quel modo e sgranare gli occhi fu proprio come un tuffarsi in una piscina completamente vuota, senza acqua. Fu il contatto con il fondo, forte e secco. E quel tonfo gli attraversava anima e corpo. Rimbombava. Non più la gioia di risalire. Ma lì, fermo. Immobile sul fondo di quella piscina vuota, a braccia aperte e respiro spezzato. Sentiva solo il dolore interiore che aumentava e implodeva.

    Poi la ricerca della sua famiglia. Tutti i punti di riferimento se ne erano andati. Tutti. Transenne, traffico ovviamente bloccato. Deserto, confusione insieme a un silenzio assordante. La disperazione nei volti di chi aveva perso tutto in quel botto sotto il quale era sepolta ogni cosa. Ogni possibilità di sopravvivere al presente per andare incontro al futuro; perdere la casa, il lavoro, gli affetti. Radere al suolo una vita fatta di tutto e, ora, piena di niente. Un dramma che si respirava a ogni passo e che riempiva la consapevolezza di Roberto che, alla resa dei conti, non aveva perso nulla se non la voglia di avere una casa in affitto a Firenze, dove la precarietà della promessa di un lavoro gli assicurava la parvenza di una vita felice. Si guardava intorno e vedeva, passo dopo passo, la vita crollare. Quella di una città e delle persone che l’hanno abitata. Si respirava la solitudine di tutti quelli che, guardando la loro casa, la sentivano morta, come morta sentivano la possibilità di andare avanti; insieme alla casa, la perdita del lavoro e la necessità di trovare al più presto un’altra collocazione. Difficile, impossibile da immaginare in quella bolgia caotica dell’emergenza. Nei campi di accoglienza, forse, in una tenda della Protezione Civile a vivere secondo ritmi imposti da chi ti sta concedendo aiuto e ti chiede in cambio uniformità di comportamento e silenzio assenso. O forse in un albergo, lontano decine di chilometri dalla vita condotta fino a quel giorno. Camminava, scostava i tanti sulle strade, incrociava vigili del fuoco e volontari accorsi da ogni parte della penisola. Avanzava e muto si sentiva riempire da quei pensieri di futuro. Si sentiva strano perché cercava di immaginare futuro laddove il futuro sembrava attanagliato dalla morsa della distruzione. Eppure un futuro, uno qualsiasi avrebbe trovato spazio, sgomitando tra i no e i non voglio di quanti avrebbero conosciuto la costrizione del non ho altra scelta.

    Alla sua famiglia le cose non erano andate così male, però. E, seppur costretti a fare i conti con la rivoluzione di una città abitata e vissuta, il terremoto sembrava non aver tolto loro quasi nulla. Quasi. Il terremoto forse aveva portato via la sicurezza. La tranquillità e sicurezza che toglie a tutti coloro che ne fanno esperienza diretta, quella mancanza che costringe a vivere, in un limbo di attesa, quasi nevrotica, di ciò che potrebbe accadere. Perché in fondo nessuno, se non le persone paranoiche, vive di questa sensazione nel corso della regolarità della vita. E con il terremoto ci si ritrova, di colpo, a fare i conti con tutto questo essere assolutamente impreparati e sprovvisti di risorse e strumenti per camminare su

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