Charlie
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Info su questo ebook
Non ha dubbi Charles. Niente e nessuno potranno farlo desistere dal suo proposito. Almeno finché l’incontro casuale con Nina, una giovane catalana che tira avanti a suon di espedienti, non lo porterà a rimettere in discussione le sue convinzioni, a rifare i conti con se stesso e a fare pace con le sue fragilità.
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Anteprima del libro
Charlie - Davide Mannelli
Table of Contents
Capitolo Uno
Capitolo Due
Capitolo Tre
Capitolo Quattro
Capitolo Cinque
Capitolo Sei
Capitolo Sette
Capitolo Otto
Capitolo Nove
Capitolo Dieci
Capitolo Undici
Capitolo Dodici
Capitolo Tredici
Capitolo Quattordici
Capitolo Quindici
Capitolo Sedici
Capitolo Diciassette
Capitolo Diciotto
Capitolo Diciannove
Capitolo Venti
Capitolo Ventuno
Capitolo Ventidue
Capitolo Ventitré
Capitolo Ventiquattro
Capitolo Venticinque
Capitolo Ventisei
Capitolo Ventisette
EPILOGO
64547.pngCapitolo Uno
Mi chiedo come possano far mangiare questa roba ai passeggeri. Eppure mi trovo in prima classe. Probabilmente questo non conta più niente. Ormai siamo tutti uguali.
Se non fossi sicuro di trovarmi in volo verso Barcellona, giurerei di essere su un letto d’ospedale. Eccolo, davanti a me, il piatto per il malato. Una poltiglia di carne dalla dubbia provenienza e una montagna di vomito giallo che dovrebbe rappresentare del purè di patate.
Cristo santo, non ci posso credere. In vita mia ho mangiato le cose più buone del mondo, ve lo giuro. Facevano a gara per invitarmi.
Arriva Charles Green, lo scrittore!
Dovete credermi quando vi dico che le pietanze più buone del mondo si sono incastrate fra i miei denti e hanno conosciuto la profondità del mio palato. E non mi riferisco alla solita roba che vi fanno vedere nei film: il caviale, le uova di storione e stronzate simili. Parlo della vera cucina locale di ogni angolo del pianeta che – non per vantarmi – ho conosciuto come nessun altro.
Con la scusa di dovermi recare nel tacco del Perù o sulle terrazze della costa francese per qualche ricerca su un nuovo libro, ho assaggiato veramente di tutto: le creme e i dolci più deliziosi, la carne più tenera, i formaggi più gustosi. Sono pure riuscito a mantenere un fisico asciutto e giovanile, anche se la mia carta d’identità, che se ne frega dei sentimenti, mi dice che ho sessantadue anni.
New York, 8 marzo 1955. Fanculo. Non si scappa.
Dov’ero rimasto? Ah, sì! Davanti a me c’è il cibo mostruoso che passa la compagnia aerea. Non posso far altro che mandare i miei sensi altrove e deglutirne quel tanto che basta per non morire di fame.
Dovreste vedere come mangia sereno il mio vicino, maledetto lui! È grasso. Ho sempre odiato la gente grassa. Mi mette ansia, fastidio, tristezza. Questo pachiderma rientra nella categoria di quelli che mi danno fastidio. Ogni boccone che manda giù è uno spaventoso grugnito. Vi giuro: sembra un maiale. Un suino fatto e finito, costantemente votato all’ingrasso. Lo scemo ogni tanto si volta verso di me e mi domanda perché abbia lasciato quasi tutto, come se fosse normale mangiare con la sua voracità. Ha anche un alito micidiale!
Perché non sono un porco puzzoso come te, avrei dovuto rispondergli. Invece risparmio più che posso ogni spiegazione, alludendo a un generico mal di testa.
Appena saliti a bordo, questo scemo ha preso a raccontarmi qualcosa di lui. Non che me ne fregasse qualcosa – sia chiaro – ma è quel tipo di persona che attacca subito bottone e inizia a vomitarti tutto quello che riguarda la sua vita, il suo lavoro, i suoi hobby. Per questa gente è sufficiente che la sorte ti riservi un posto accanto a loro perché si senta in diritto di rivendicare una specie di solidarietà umana. Pazzi balordi!
A ogni modo – che ci crediate o no – quest’uomo oggettivamente brutto, sulla cinquantina, fa il rappresentante di prodotti di bellezza. Ha persino cercato di vendermi un po’ della sua roba, tirando fuori da un’improbabile borsa tubi, tubetti, creme e cremine dai nomi più idioti che abbia mai sentito. È proprio vero che Dio ha il senso dell’umorismo.
Mentre fingevo di prestare attenzione e mi sorbivo in silenzio i suoi racconti, rimuginavo fra me e me due considerazioni. La prima riguarda il lavoro di questo tizio. I rappresentanti per me hanno sempre rappresentato dei falliti in continuo movimento, ma capisco che ogni uomo per mangiare deve pure arrangiarsi in qualche modo. E questo talvolta può significare accollarsi i lavori più squallidi, stupidi e insignificanti che la loro dimessa esistenza possa offrire. La seconda cosa, invece, proprio non riesco a mandarla giù: ma davvero esistono tutti questi uomini che utilizzano questa roba? Allora è vero che i maschi – se così ancora li possiamo chiamare – sono diventati peggio delle femmine. Un mucchio di froci senza speranza che si spalma addosso queste cose alla frenetica rincorsa dell’eterna giovinezza e dell’eterna bellezza. Sarà che io sono all’antica; sarà che ai miei tempi gli uomini facevano gli uomini e andavano a spaccarsi il culo nel Vietnam; sarà che ormai non ci capisco più niente, ma tutto questo io non lo sopporto. Ti credo che è venuta su una generazione di checche isteriche e temo che, andando avanti, sarà sempre peggio. Ma questo, in fin dei conti, non mi riguarda. Perdo già troppo tempo a concedergli spazio fra i miei pensieri, maledizione!
Vedere il mio vicino che continua a mangiare mi ha messo fame. Se solo ci fosse qualche salsetta di contorno, potrei farmi sfiorare dall’idea di sporcarmi il muso con questa roba.
Provo a richiamare l’attenzione dell’hostess in fondo al corridoio. Lei si accorge e mi fa cenno di aspettare un momento. Questo gesto mi ha sempre terribilmente innervosito. La perdono solo perché è un gran pezzo di fica. Bionda, liscia, fresca. Tutte così le dovrebbero fare, dannazione! Invece di questi gioiellini il Padre Eterno ne crea sempre un numero così limitato, come fossero delle fuoriserie concesse a pochi eletti: ogni cinquanta vacche dalle cosce molli esce fuori una di queste hostess.
Ho sempre pensato che quello dell’assistente di volo fosse il mestiere più sexy al mondo. Uno di quei mestieri destinato alle donne sensuali, di quelle che sanno far bene l’amore. Avete mai visto una hostess inchiavabile? Io no. O, almeno, in prima linea non le fanno neanche avvicinare. Ed è giusto così. Ma quello che ai miei occhi le rende davvero irresistibili è quel loro atteggiamento sempre un po’ stizzoso, quasi fossero lì per caso, quasi dovessero pensare ad altro e si sforzassero d’ascoltare le tue richieste come se ti stessero facendo un favore. Forse sono soltanto delle modelle frustrate che non hanno trovato un ripiego migliore di questa divisa. Sì, è possibile.
Comunque questo animaletto qui di fronte a me è proprio il mio ideale di donna. Non mi sono mai piaciute quelle troppo abbondanti. Per me ogni creatura mandata per deliziarci dovrebbe essere come la signorina: snella ma non magra; fianchi sinuosi; una terza di seno; lineamenti sottili e sguardo ammiccante camuffato da un’espressione di leggero fastidio. Dio ti benedica!
Non so se l’avete capito, ma sono un grande appassionato del genere femminile. Non riesco neanche a ricordare il numero di volte in cui ho tradito mia moglie. Però non sono stato un pessimo marito. Tutt’altro. L’unica persona alla quale ho voluto bene è stata proprio Sondra. Delle altre non me n’è mai fregato nulla. Era solo un fatto fisico, una faccenda puramente carnale, di una banalità sconcertante e al tempo stesso irrinunciabile.
Credo che l’uomo sia fisiologicamente votato al tradimento. Anzi, non lo chiamerei neppure tradimento, ora che ci penso bene. Più che altro si tratta di una necessità fisiologica, una raffica di ormoni che non puoi fare a meno di scaricare su altre donne. E tutto questo non ha niente a che vedere con i sentimenti o con la mancanza di rispetto.
Ho sempre pensato che mia moglie sapesse che io la tradissi, ma non per questo le è mai venuto in mente di lasciarmi. Ci siamo amati dal primo all’ultimo giorno, fino a quando il cancro l’ha fermata. Non ho rimorso per quei tradimenti, credetemi. Sono soltanto orgasmi numerati e nient’altro.
Ecco! Finalmente l’hostess si avvicina. Quanto è carina!
«Mi scusi, signorina».
«Mi dica».
«Questo cibo...».
«C’è qualcosa che non va?».
«Beh! Di cose che non vanno ce ne sarebbero parecchie».
«Non capisco, signore».
«No, nulla. Era solo una battuta. Però, a dire la verità, ho mangiato di meglio».
«Questo è il nostro pranzo standard, signore. Nessuno si è mai lamentato».
«D’accordo. Lasciamo perdere. Lei è troppo graziosa per rivolgerle dei rimproveri. Del resto non ce l’ho con lei, ma con chi cucina questa roba».
Mi sorride timidamente. Penso che il complimento le abbia fatto piacere.
«Vuole ordinare dell’altro?».
«No. Mi porti semplicemente qualche salsetta. Non so… qualcosa per mandare giù meglio il boccone».
«Certamente, signore. Provvedo subito».
«Lei è molto gentile e – ripeto – molto carina».
«La ringrazio, signore. Se ha la cortesia di attendere un attimo...».
Mi accosto leggermente con la testa verso di lei e, sorridendole, comincio a bisbigliarle all’orecchio.
«La vista del suo sedere mi ripaga ampiamente di questo cibo di merda. Glielo garantisco».
L’hostess cambia di botto espressione. Mi sa che ho esagerato.
«Lei è un grandissimo maiale. Provvedo a portarle quanto chiesto. Anzi, passerò l’ordine a una collega».
«Non volevo mica offenderla! Era solo un complimento».
«Se voleva essere un complimento, le è riuscito malissimo».
La tipa si allontana e mi lascia qui come uno stronzo.
Ha parlato così forte che il mio vicino ha sentito tutto e se la sta spassando alla grande. Dannazione! Questa qui mi ha messo in imbarazzo. Non pensavo di essere stato così scortese. Le ho solo detto che ha un bel culo. Che c’è di male?
Mi volto verso la montagna di lardo che mi sta di fianco.
«Insomma, che cazzo ridi?».
Anche lui cambia espressione, proprio come l’assistente di volo.
«Ma come si permette di parlarmi così? Io neanche la conosco!».
Prende una rivista e comincia a ignorarmi. Razza di cretino! Io neanche la conosco!
Maledizione! Questo viaggio si sta rivelando peggio di quanto mi aspettassi.
Forse, però, in fin dei conti ha ragione il ciccione. Non è che mi sia presentato bene. Provo a rimediare subito.
Mi chiamo Charles Green e sono uno scrittore. Anzi, sarebbe più corretto dire che lo sono stato visto che sono ormai dieci anni che non butto giù una riga. Ma non posso lamentarmi. Ho avuto tutto il successo che ho cercato, forse fin troppo. Ho venduto ventiquattro milioni di copie in tutto il mondo con una stupidissima serie di romanzi gialli, incentrati su un investigatore squattrinato e sul suo cane, un