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P.S. Ti odio da morire
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E-book340 pagine3 ore

P.S. Ti odio da morire

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Info su questo ebook

Un amore che si rafforza lettera dopo lettera

Dall’autrice bestseller del Wall Street Journal

Caro Isaiah,
sono passati otto mesi da quando eri un semplice soldato pronto a partire per chissà dove, e io una cameriera troppo timida. Mentre ti passavo furtivamente quel pancake gratis, ricordo di avere sperato che non ti accorgessi del mio sguardo. E invece l’hai fatto. E così abbiamo passato insieme la settimana più incredibile di tutta la mia vita, in attesa del giorno in cui saresti dovuto partire. Quei momenti trascorsi insieme hanno cambiato tutto. Dopo che sei partito, ho conservato ogni tua lettera. Ho imparato a memoria ogni parola, in attesa di un nuovo messaggio o qualunque cosa che mi parlasse di te. E poi un mese fa hai smesso di scrivermi. E ieri hai persino avuto il coraggio di venire nel locale dove lavoro facendo finta di non conoscermi. E pensare che avrei potuto amarti. Spero almeno che tu abbia avuto una buona ragione.Maritza la cameriera
P.S. Ti odio. Questa volta per davvero.Le regole (e i cuori) si possono infrangere

«Questa storia mi ha catturata ancora prima della fine del primo capitolo!»

«Un libro che ti fa sentire bene, con tante risate e dolcezza.»

«Mi ha fatto sentire le farfalle nello stomaco, ho adorato ogni parola.»
Winter Renshaw
è una inguaribile ottimista. Vive da qualche parte negli Stati Uniti ed è molto difficile vederla senza un quaderno e il suo laptop. Quando non scrive, pensa a quello che dovrebbe scrivere. Ha un marito, tre figli, il carlino più pigro mai vissuto al di qua del Mississippi e un altro cucciolo che si è impossessato di tutte le sue scarpe. I suoi libri sono diventati bestseller del Wall Street Journal e hanno conquistato il cuore delle lettrici.
LinguaItaliano
Data di uscita12 dic 2018
ISBN9788822728715
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    Anteprima del libro

    P.S. Ti odio da morire - Winter Renshaw

    Dedicato a Sandy Lang

    Il pensiero di ciò che avrebbe

    potuto essere fa più male

    di un cuore infranto.

    Bridgett Devoue

    Caro Isaiah,

    otto mesi fa eri solamente un soldato che stava per partire in missione e io una semplice cameriera che ti serviva un pancake gratis sperando che non notassi il suo sguardo insistente.

    Invece te ne sei accorto.

    Abbiamo passato assieme una settimana che ci ha cambiato la vita, e l’ottavo giorno ci siamo detti addio scambiandoci gli indirizzi all’ultimo secondo.

    Ho conservato ogni lettera che mi hai inviato, le tue parole sono diventate subito il mio mantra.

    Ma mesi fa hai smesso di scrivere, e poi hai avuto il coraggio di presentarti di nuovo alla mia tavola calda e di comportarti come se non mi avessi mai vista in vita tua.

    E pensare che… ho quasi amato te e il tuo animo meravigliosamente complicato.

    Quasi.

    Qualunque sia la tua motivazione, spero sia valida.

    Maritza la Cameriera

    p.s. Ti odio e stavolta… dico sul serio.

    1

    Maritza

    «Benvenuto al Brentwood Pancake and Coffee. Mi chiamo Maritza e sarò la sua cameriera». Saluto così, con la solita tiritera, il mio milionesimo cliente della mattina. Questo qui, un adone con i capelli corvini e gli occhi color miele, ha aspettato più di settanta minuti per un tavolo vicino alla finestra (anche se credo che per i tempi di Los Angeles sia un batter d’occhio).

    Non mi considera nemmeno.

    «Tavolo per uno, oggi?», chiedo, guardando la sedia vuota di fronte a lui. La baraonda mattutina per la colazione sta per finire e, per sua fortuna, al momento ho solo un altro tavolo a cui badare.

    Non mi risponde. Magari non mi ha sentito.

    «Caffè?». Ecco un’altra domanda ovvia. Be’, che cavolo, il locale si chiama Brentwood Pancake and Coffee. Tutti vengono qui per quello e per i pancake grandi come piatti. Ordinare qualcos’altro è considerato un reato federale.

    L’uomo capovolge la tazza che ha sul piattino, la spinge verso di me e io inizio a versarlo. Quando è per tre quarti piena, con la mano mi fa cenno di fermarmi. Un secondo dopo, aggiunge due confezioni di panna e mezza bustina di zucchero con dei movimenti precisi, rigidi. Pianificati.

    «Signora, mi scusi, ma non è così interessante», dice in un sussurro, mentre il cucchiaino con cui ha appena mescolato tintinna contro la tazza di porcellana.

    «Come, prego?»

    «Sta qui in piedi a fissarmi», dice. Dà due mescolate finali, poi appoggia il cucchiaino sul piattino. Rivolge il suo sguardo ambrato su di me.

    «Non ha qualche altro tavolo di cui occuparsi?».

    I suoi occhi sono caldi come il miele, ma il suo sguardo è freddo, penetrante. Spietato.

    «Sì, giusto». Mi schiarisco la voce e vado via. Non avevo intenzione di indugiare con lo sguardo su di lui, ma non c’era bisogno che questo stronzo con l’atteggiamento da sono-figo-e-me-la-tiro mi trattasse male. Denunciatemi pure per essermi distratta un momento.

    «Torno da lei tra un attimo». Così lo lascio da solo con il menu, il caffè, il suo cattivo umore, il suo sguardo pensieroso… le sue spalle larghe… le sue labbra carnose… E torno al lavoro. Mi fermo al tavolo 4, dove il signore e la signora Carnavale hanno bisogno di altro decaffeinato della casa.

    Dopo averli serviti, faccio un respiro profondo e torno da Mister Alto Tenebroso e Stronzo con un sorriso forzato.

    «Pronto per ordinare?», chiedo. Mi sfilo la penna da dietro l’orecchio e tiro fuori il taccuino dal grembiule verde.

    Lui piega il menu e me lo porge. Anche se ho le mani occupate, riesco comunque a metterlo sotto il braccio senza far cadere nulla.

    «Due pancake. Uova strapazzate. Pane di segale. Burro, non margarina».

    «Mi spiace», dico indicando un cartello sopra il registratore di cassa che recita chiaramente:

    UN

    SOLO

    PANCAKE

    PER

    CLIENTE

    ,

    NESSUNA

    ECCEZIONE

    .

    Strizza gli occhi e, quando lo ha letto, rimane impietrito.

    Ripeto la sua ordinazione: «Allora abbiamo un pancake, uova strapazzate e pane di segale con burro».

    «Che cazzo di regola è questa?». Guarda l’orologio come se dovesse andare da qualche parte. O come se non avesse tempo per una regola che, anche secondo me, è una vera stronzata.

    «I pancake qui sono enormi. Le assicuro che uno basta». Provo ad allentare la tensione prima che la situazione mi sfugga di mano, perché non è mai piacevole coinvolgere i superiori.

    I proprietari della tavola calda sono rigidi da morire su questa regola e la responsabile lo è anche di più. Sarà ben lieta di informare qualsiasi cliente insoddisfatto del motivo per cui pancake è al singolare, e non al plurale, nel nome del locale.

    Ho visto molti clienti andarsene e non tornare mai più a causa di questa stupida regola. Ecco il motivo per cui la nostra valutazione su Yelp è calata a picco, anche se non sembra che gli affari ne abbiano risentito. La fila arriva sempre fuori dalla porta, e nelle mattine del fine settimana addirittura in fondo alla strada (a volte succede persino nei giorni feriali). A essere sinceri, la bontà di questi pancake va ben oltre la loro reputazione, ma quella stupida regola non è altro che un’astuta strategia di marketing ideata per far aumentare la richiesta.

    «E se avessi ancora fame? Posso ordinarne un altro?», chiede.

    Perplessa, faccio segno di no con la testa.

    «Mi state prendendo per il culo». Si raddrizza sulla sedia, con la mascella serrata. «E che cazzo, sono solo dei fottuti pancake».

    «Non sono solo pancake, sono pancake di Brentwood», gli dico con un sorriso collaudato.

    «Sta cercando di fare la carina con me, signora?», mi chiede, spostando l’attenzione su di me, ma senza flirtare. Ha le narici un po’ dilatate e non posso fare a meno di pensare a quanto sia sexy così arrabbiato. Però non mi intriga molto l’idea di darci dentro con uno stronzo del genere.

    È un figo pazzesco ma non vado a letto con gli idioti. Chiaro e tondo.

    Dovrei essere sbronza. Ma proprio tanto. E disperata. E anche se lo fossi… non saprei. È uno che ce l’ha col mondo, e per quanto mi riguarda non c’è ficaggine che tenga.

    «Mando la sua ordinazione, okay?», chiedo con un sorriso così forzato che mi fanno male le guance. Si dice che il buonumore sia contagioso, ma inizio a credere che questo tipo ne sia immune.

    «Basta che l’ordine sia completo, signora». Serra le labbra mentre sbuffa dalle narici. Non so come mai continui a chiamarmi signora, visto che sono palesemente più giovane di lui. Cioè, fino a tre anni fa non avevo neanche l’età legale per bere.

    Non sono una signora.

    «Il cuoco non ne preparerà due», gli dico in tono di scuse prima di mordermi il labbro inferiore. Magari se mi gioco la carta della timida e indifesa si arrende. Funziona. A volte.

    «Allora lo prendo per il mio ospite», dice, indicando con la mano il posto vuoto di fronte a sé mentre tiene l’altra chiusa a pugno. Non riesco a non notare che il suo orologio è uno di quelli usati dai militari.

    «Non serviamo nessuno che non sia fisicamente qui», dico. Ecco un’altra politica ferrea del locale. Fin troppi clienti negli anni hanno provato a usare il trucchetto della persona in più, perciò i proprietari si sono inventati questa regola ulteriore. E hanno fatto le cose sul serio: c’è un monitor di sicurezza installato in cucina. Addirittura fanno controllare lo schermo ai cuochi prima di preparare le comande, proprio per essere sicuri che nessuno bari.

    L’uomo si passa la mano tra i capelli scuri, e mi accorgo solo ora che ha un taglio militare.

    Militare.

    Scommetto che è un soldato.

    Per forza. I capelli, l’orologio, l’uso eccessivo della parola signora e le continue parolacce… Mi ricorda mio cugino Eli, che è stato dieci anni nell’esercito americano. E se è come lui, non lascerà perdere.

    Con un sospiro gli appoggio la mano sulla spalla, anche se non dovremmo toccare i clienti per nessun motivo. Ma questo tipo è teso e le sue spalle muscolose stanno supplicando di ricevere un tocco delicato.

    «Mmm… Mi dia un attimo, va bene? Vedrò cosa posso fare», gli dico.

    Serve il nostro Paese. Combatte per la nostra libertà. Anche se è senza dubbio un emerito stronzo, merita almeno un altro pancake.

    Mi devo far venire in mente qualcosa.

    Tornando in cucina, mando la sua ordinazione e controllo di nuovo i Carnavale.

    Nel tragitto per andare a riempire la caraffa del caffè, passo vicino a un tavolo pieno di bambini che urlano. Uno di loro ha appena buttato il suo gigantesco pancake per terra, tra i sospiri di disappunto della madre.

    Mi chino, raccolgo la frittella appiccicosa da terra e la rimetto sul piatto.

    «Vuoi che te ne porti un altro?», chiedo. Sono fortunati, questo è l’unico caso in cui si può fare un’eccezione, ma devo mostrare il pancake sudicio come prova.

    Il bambino grida, e riesco a sentire a malapena sua madre che prova a dire qualcosa. Do una rapida occhiata al tavolo e vedo cinque nanerottoli sotto gli otto anni, tutti vestiti Burberry, Gucci e Dior.

    La madre, oltre a due enormi labbra rifatte, sfoggia una gigantesca pietra scintillante all’anulare della mano sinistra, mentre il padre è completamente assorbito dal cellulare.

    Ma non sono una che giudica.

    A Los Angeles mancano dei buoni ristoranti adatti alle famiglie e quelli che ci sono non penso che accoglierebbero la loro nidiata a braccia aperte. Tra l’altro, non credo neanche siano dotati di seggioloni.

    Tra i mostriciattoli abbronzati con i capelli biondo platino, il più grande urla in faccia alla madre «Non voglio il pancake!», e l’incarnato perfetto della donna vira verso una tonalità cremisi quasi in tinta con la sua impeccabile borsa Birkin.

    «Lo… Lo porti via e basta», dice lei in preda all’agitazione, mentre si passa la mano sulla fronte lucida ritoccata col botulino.

    Annuisco, ma prima di entrare in cucina mi fermo per nascondere il piatto con il pancake sotto una pila di tovaglioli di stoffa. Non appena il soldato terminerà il suo, correrò con questo in cucina e dirò che gli è accidentalmente caduto per terra.

    «Ordinazione pronta per uscire!», grida un addetto alla cucina dal passavivande. Mi affaccio e vedo la sua colazione pronta e fumante. Potrei aver fatto passare avanti il suo ordine mentre nessuno guardava. Non ho le energie per gestirlo, nel caso si innervosisca per i lunghi tempi d’attesa.

    Afferro il piatto e corro da lui. Glielo porgo con un sorriso e un cortese «Le posso portare qualcos’altro?».

    Osserva il piatto, poi solleva lo sguardo su di me.

    «Lo so», dico con un’alzata di spalle. «Si fidi di me e basta. Ci penso io».

    Gli faccio l’occhiolino, un po’ disgustata da me stessa. Non ha idea di quanto sia difficile per me fare l’accondiscendente dopo il modo in cui mi ha trattata. Avrei voglia di rovesciargli addosso una caraffa di caffè bollente ma, solo per rispetto e stima per il suo lavoro (e, preciso, solo per questo motivo), non farò nulla del genere.

    E poi a me servono le mance. Devo essere tollerante. Dio solo sa quanto abbia bisogno di questo lavoro. Abiterò pure nella bellissima dépendance di mia nonna ma, credetemi, mi fa pagare l’affitto.

    La generosità non è di casa nella famiglia Claiborne.

    Il tipo abbassa lo sguardo e immerge i rebbi della forchetta lucida in un pezzo soffice di uovo strapazzato.

    Non mi ringrazia neanche, ma c’era da aspettarselo. Gli spiego che presto sarò di nuovo da lui, poi torno in cucina dove Rachael, un’altra cameriera, è in cerca di un po’ di tregua.

    «È tuo il tavolo con i bambini urlanti?», chiedo.

    «Sì». Con uno sbuffo solleva la frangetta bionda e alza gli occhi al cielo.

    «Non ti invidio», la stuzzico. Rachael ha tre bambini. Ci sa fare con loro, sembra sappia sempre qual è la cosa giusta da dire per distrarli ed evitare il disastro totale.

    «Facciamo uno scambio. La famiglia per il tipo con le fossette al tavolo 4».

    «Ha le fossette?». Mi sporgo con la testa osservando il mio militare.

    «Cavolo, sì. E pure profonde. E anche un sorriso da urlo. Pensavo fosse un modello, un attore o qualcosa del genere, ma mi ha detto che è un caporale dell’esercito».

    «Non può essere lo stesso tizio. A me ha a malapena sorriso, invece a te ha già detto che lavoro fa?»

    «Eh». Solleva un sopracciglio rosso sottile. Sembra chiedersi se stiamo parlando della stessa persona. «Mi ha chiesto come stavo. Ho pensato fosse molto alla mano».

    «Quello lì? Capelli scuri? Occhi dorati? Muscoli pompati che quasi gli esplodono da sotto la maglietta grigia?». Lo indico e tolgo il dito di scatto.

    Dà un’altra occhiata. «Sì, è lui. Non si dimentica un viso così… E nemmeno quei bicipiti…».

    «Strano». Incrocio le braccia e lo guardo di nuovo. Magari ce l’ha con le ragazze come me. Anche se il mio aspetto è piuttosto ordinario. Altezza nella norma. Peso nella media. Capelli castani. Occhi nocciola.

    Forse gli ricordo una ex?

    Mentre sono ancora immersa nei miei pensieri lui si gira all’improvviso, come accorgendosi del mio sguardo, e i nostri occhi si incontrano. Prendo un asciugamano di fronte a me e inizio a strofinarlo sul bancone. Si è appena sciolto un cubetto di ghiaccio e cerco di sembrare indaffaratissima nell’asciugare l’acqua che si sta spandendo.

    «Beccata». Rachael mi dà una gomitata prima di andare a controllare la famiglia modaiola. Le do un colpetto sul braccio mentre passa, poi mi prendo un attimo per ricompormi. Una volta scomparso il calore dalle mie guance, vado da lui per controllare che vada tutto bene. Mi sento sollevata di non trovare traccia del suo pancake, neanche un pezzettino. Infatti, ha terminato l’intera colazione… caffè e tutto quanto.

    Mentre sto per togliere il piatto, mi ferma. Appoggia la mano sulla mia e i nostri occhi si incontrano.

    «Perché mi stava osservando da laggiù?».

    Il suo sguardo è penetrante e intrigante nella stessa misura. È come se volesse farsi un’opinione di me veloce e precisa, e contemporaneamente fosse interessato. Il che non ha proprio senso, visto che il suo corpo abbronzato e perfetto emana solo segnali di antipatia nei miei confronti.

    «Scusi?». Faccio la finta tonta.

    «L’ho vista. Risponda alla domanda».

    Oddio. Non vuole lasciare perdere. Qualcosa mi dice che avrei fatto bene ad accettare lo scambio di tavoli con Rachael. Dal momento in cui gli ho versato il caffè, questo qui non ha fatto altro che creare problemi.

    Apro la bocca, ma non so bene cosa dire. Da un lato, so che probabilmente dovrei farfugliare delle sciocchezze per calmarlo ed evitare che si lamenti con la mia responsabile. Dall’altro, sono stanca di fare la gentile con un uomo che si degna di chiedere a un’altra cameriera come sta andando la giornata, ma non riesce a trattare la sua come un essere umano.

    «Stava parlando di me con l’altra ragazza», dice. Tiene ancora la mano sulla mia per evitare che io sfugga alla conversazione.

    «Voleva fare a cambio di tavoli», dico con un sospiro.

    Inarca le sopracciglia ed esamina la mia espressione.

    «E poi mi ha parlato delle sue fossette», aggiungo. «Mi ha detto che prima le ha sorriso… Mi stavo solo chiedendo come mai è stato così gentile con lei, ma non con me».

    Mi lascia andare. Mi raddrizzo e afferro il grembiule prima di lasciarlo con le mani.

    «Mi ha portato un giornale mentre aspettavo. Non era obbligata a farlo», dice con le labbra serrate. «Mi dia qualcosa per cui sorridere e lo farò».

    Che sfacciataggine ha quest’uomo.

    Il calore alle orecchie e la tensione alla mascella mi suggeriscono che farei meglio ad andarmene se voglio mantenere la mia stimata posizione come cameriera del turno mattutino qui al Brentwood Pancake and Coffee. Ma i tipi come lui…

    Provo a dire qualcosa, tuttavia i miei pensieri al momento non hanno senso e contengono una punta d’astio. «Vuole che le porti il conto, signore?», riesco a dire un secondo dopo a denti stretti.

    «No, non ho ancora finito di fare colazione», dice tutto d’un fiato.

    Entrambi osserviamo i piatti vuoti.

    «Altre uova?», domando.

    «No».

    Non riesco a credere a quello che sto per fare per lui. Ma a questo punto, prima lo butto fuori da qui meglio è. Cioè, intendiamoci, ora lo faccio per me stessa.

    «Un attimo». Porto i piatti vuoti in cucina prima di infilarmi dietro al bancone per prendere il pancake sozzo del bambino. Il cuore mi pulsa nelle orecchie e il mio corpo è in trepidazione, ma proseguo. Torno al passavivande e comunico a uno dei cuochi che il cliente al tavolo 12 ha fatto cadere il suo pancake per terra.

    Dà un’occhiata al piatto, poi al monitor di sicurezza e infine a me, prima di levarmelo dalle mani e cambiarlo con uno fresco. Lì dietro c’è un’efficiente catena di montaggio: un mucchio di tizi con la retina per capelli, il grembiule e una spatola per mano, in piedi davanti a una piastra lunga sei metri.

    «Grazie, Brad», dico. Mentre torno dal mio cliente, mi fermo a controllare i Carnavale, ma il loro tavolo è già stato sparecchiato. Rachael mi riferisce che erano di fretta, quindi si è occupata lei del loro conto.

    Merda.

    «Ecco a lei». Poggio il piatto di fronte al tizio.

    Lui solleva lo sguardo su di me e per un attimo strizza gli occhi color miele. Ammicco pregando che non mi faccia altre richieste.

    «Mi faccia sapere se desidera qualcos’altro, va bene?», gli dico, ma vorrei aggiungere: E non chieda altri pancake. Mannaggia a me se rischio di nuovo il posto di lavoro per un ingrato come lei.

    «Caffè. Ne vorrei un’altra tazza, signora». Afferra la caraffa in vetro dello sciroppo d’acero e versa quella delizia appiccicosa proveniente dal Vermont sul suo pancake fumante. Provo a distogliere lo sguardo mentre disegna una

    X

    e poi un cerchio.

    Torno indietro, prendo una nuova brocca di caffè e vado a servirlo, riempiendogli la tazza per tre quarti. E un secondo dopo eccolo che mi guarda, sollevando gli angoli della bocca carnosa e mostrando le fossette più belle che abbia mai visto… Come se avesse fatto lo stronzo per venti minuti solo per prendermi in giro, per farmi uno scherzo.

    Ma improvvisamente non c’è più.

    Il suo sorriso smagliante contornato da fossette sparisce prima che io abbia la possibilità di apprezzare com’è realmente quando non è del tutto nervoso e burbero.

    «Lieta di averle dato finalmente un motivo per sorridere», lo provoco. Diciamo. Gli accarezzo delicatamente la spalla, ancora tesa da morire. «Posso portarle qualcos’altro?»

    «Sì. Il conto, signora».

    Alleluia.

    Cerco di portarglielo in fretta. In un minuto, inserisco il mio cartellino identificativo nel sistema, stampo la sua ricevuta, la infilo nel portaconto e torno di corsa al suo tavolo. Il suo bancomat è sul bordo, come se si fosse stancato di tenerlo in mano perché io ci ho messo troppo tempo.

    E anche io non vedo l’ora che se ne vada. Immagino che sia l’unica e sola cosa su cui ci troviamo d’accordo.

    «Gliela riporto subito», gli dico. Sulla sua carta di plastica blu, oltre al logo

    VISA

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