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Una dolce sorpresa
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E-book212 pagine2 ore

Una dolce sorpresa

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Attraction Series

Un'autrice tradotta in 8 Paesi

Di solito non mi piacciono molto le persone. Preferisco i gatti. Ma il mio vicino non è come tutti gli altri. Vive nell’appartamento di fronte al mio, ed è il classico tipo abbottonato, con le scarpe co­stose, profumato come una pubblicità di Calvin Klein. Il classico tipo che ha tutto sotto controllo. È Mister Perfezione, e secondo me dovrebbe abbassarsi un attimo al livello dei comuni mortali.
Ma poi qualcosa di suo è finito nella mia cassetta della posta. Lo so. Assurdo. È chiaramente una strategia per provarci con me. È stata la postina a mettercelo, ma so bene a che gioco sta giocando. Non mi farò certo fregare da uno così. Il problema è che quando il pacco si è aperto (ovviamente per errore) non ho avuto scelta: ho dovuto guardarci dentro. Il suo segreto scon­cio mi ha fissato dritto in faccia. A quanto pare Mister Perfezione non è poi tanto perfetto. Chi l’avrebbe immaginato? Be’, io. E ho intenzione di godermi ogni secondo di quello che succederà.
Penelope Bloom
È un’autrice bestseller di «USA Today». Dopo aver lavorato come insegnante in un liceo, ha deciso di dedicarsi comple­tamente alla scrittura di romanzi, spinta dall’entusiasmo delle sue due figlie. La sua serie Attraction Series ha avuto un successo immediato e ha scalato le classifiche dei libri più venduti negli Stati Uniti. La Newton Compton ha pubblicato Sono una brava ragazza, Vo­glio un bravo ragazzo, Il mio dolce peccato e Una dolce sorpresa.
LinguaItaliano
Data di uscita12 ott 2020
ISBN9788822751089
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    Anteprima del libro

    Una dolce sorpresa - Penelope Bloom

    1

    Lilith

    Tutti hanno sempre pensato che fossi asociale, qualsiasi cosa voglia dire. Be’, sapete una cosa, stronzi? Non ero asociale per nulla. C’erano un sacco di cose che mi piacevano della gente. Era bello assistere alle piccole disgrazie che capitavano a chi se le meritava. Adoravo mettere le persone a disagio. Solo perché scorrazzare in un prato erboso con la mia migliore amica e un cestino da picnic non era la mia idea di paradiso in terra, non significa che fossi psicopatica. Il fatto che probabilmente avrei salvato un gatto prima che un’altra persona… Okay, lo ammetto, questo forse faceva pendere un pochino di più la bilancia da quella parte, ma nessuno è perfetto.

    Dobbiamo tutti trovare qualche gioia nella vita. Dei piaceri peccaminosi. I miei derivavano dalle sventure altrui, tutto qui. Forse c’è un modo migliore per dirlo… La maggior parte delle persone non mi piaceva e godevo a vederli soffrire? No, non va bene nemmeno così.

    In pratica, davo per scontato che il karma negativo fosse in agguato per tutti e se ero così fortunata da assistere al momento in cui colpiva, be’, tanto meglio. Il tizio che andando al lavoro si era schizzato la cravatta di caffè probabilmente poche ore prima aveva ignorato il suo dolce golden retriever innocente che chiedeva solo un grattino alla pancia. Karma. La donna che era tornata dalla pausa pranzo con della carta igienica appiccicata sotto i tacchi probabilmente la sera prima aveva maltrattato un povero addetto al servizio clienti perché il suo coupon non funzionava. Peggio ancora, sono quasi certa che il coupon non funzionasse perché lei non aveva letto le specifiche sul retro, come il novanta per cento della gente. Bum. Il karma colpisce ancora.

    C’è però una cosa che mi piace ancora di più degli atti casuali di giustizia dell’universo. Non mi entusiasmo facilmente e non ho l’abitudine di sorridere – ma godo da morire aspettando che il karma colpisca qualcuno che mi ha fatto incazzare.

    Ed è così che tutto è cominciato.

    Abitavo sullo stesso pianerottolo di Mr Perfetto. Non sapevo come si chiamasse, anche se ormai viveva di fronte a me da qualche settimana, e nemmeno avevo intenzione di scoprirlo. Probabilmente era un nome di merda tipo Cade, Tade o Spade. Tipi come lui avevano sempre uno di quei nomi lì, come fossero appena scesi da uno yacht con i mocassini ai piedi e un golf legato in vita.

    Mr Perfetto non si vestiva così, ma ce l’avrei visto benissimo. Forse per i capelli o perché aveva una di quelle facce odiose che rendono bello anche un calvo. Magari perché guardandolo riuscivi praticamente a vedere la sfilza ininterrotta di persone assolutamente magnifiche che avevano fatto l’amore tra di loro per dare alla luce un uomo con i geni ideali. O forse perché si teneva in forma a un livello ridicolo – cioè, insomma, a chi serve un corpo che sembra stia cercando di liberarsi con classe da qualsiasi cosa indossi, un muscolo perfettamente tornito alla volta?

    Avevo deciso, in un attimo di stravaganza, di concedergli una possibilità, il giorno in cui aveva traslocato. È importante tenere a mente che la mia decisione non aveva quasi nulla a che vedere con il suo bell’aspetto o con qualsiasi bizzarra fantasia nata attorno a lui e al mio respiro affannoso. Niente di tutto ciò. Volevo solo dare prova di buon vicinato. Invece di fulminarlo con lo sguardo come facevo di solito, mi ero limitata a guardare nella sua direzione aspettando che si presentasse. Gli avevo persino rivolto uno di quei leggeri cenni che si scambiano gli uomini: di solito alzano il mento oppure lo abbassano leggermente, e avevo proposto una delle due varianti.

    Non mi aspettavo chissà che. Forse un cenno col mento, all’insù o all’ingiù. Forse un sorriso. Forse che mi trascinasse in camera sua per possedermi, travolto dalla mia bellezza selvatica.

    Invece mi ignorò del tutto. Non incrociò nemmeno il mio sguardo. Zero. Quindi, nelle immortali parole dei ragazzini delle medie, a quel punto era guerra.

    Voleva essere perfetto? Voleva appendersi un cartello al collo con scritto: Ho una vita migliore della tua?. Benissimo. S’accomodasse pure. Ma se io mi prendo la briga di non fulminarti con lo sguardo, puoi scommetterci il culo che come minimo mi devi un educato cenno del capo.

    Quello fu il suo primo errore.

    Il successivo fu che aveva sempre l’aria di tenere una scorta di Felix Felicis, quello dei romanzi di Harry Potter, nel suo appartamento, come se ogni giorno della sua esistenza si risolvesse in una serie infinita di fortunate coincidenze. Glielo leggevi negli occhi.

    Ma i dettagli non sono fondamentali. Il fatto è che mi irritava. Quindi, aspettavo con rabbia che l’universo si rendesse conto di dovergli una trentina d’anni di sfortuna condensati in un minuto. Non volevo che gli capitasse nulla di grave, ma se l’avessi visto cadere di faccia una volta sola sarei stata al settimo cielo. Mi sarebbe bastata persino una frattura bizzarra. Il suo bagno avrebbe potuto otturarsi riempiendogli la casa di cacca. Mi andava bene tutto, davvero.

    Sin dal giorno in cui si era trasferito lì, mi ero sentita un’ombra proiettata dal raggio di sole glorioso che era la sua vita. Ne avevo abbastanza.

    Era martedì, quindi probabilmente non sarei riuscita a evitarlo. Forse avevo una vaga idea dell’ora in cui tornava dal lavoro, ma non è che fossi una stalker. Solo che lui era preciso come un orologio, e delle due l’una: o arrivava sempre con mezz’ora di anticipo e aspettava che fossero le cinque in punto prima di entrare, oppure era fortunato a tal punto da non incappare mai in un treno in ritardo o nel traffico. Considerando che abitavamo a New York, faticavo a crederci.

    Io uscii alle cinque meno due minuti, non perché volessi incontrarlo, ma perché guarda caso uscivo a quell’ora. Ci volevano un paio di minuti per scendere fino alle cassette delle lettere, quindi per pura coincidenza lui entrò proprio quando io arrivavo dalle scale.

    Non portava nulla di vistoso. Occhiali da sole economici, maglietta blu stinta e jeans. Ovvio che addosso a lui sembrassero abiti di alta classe, cosa che metteva addosso a me la voglia di fargli lo sgambetto. Se il karma non voleva fare il suo lavoro, ero più che contenta di offrirgli la mia collaborazione occasionale.

    Le cassette dei residenti erano incassate nella parete e fatte per i giganti. Io ero un dignitoso metro e settanta, eppure dovevo sollevarmi sulla punta dei piedi per girare la chiave e allungare una mano dentro. La cassetta di Mr Perfetto era proprio accanto alla mia. Lui ci arrivava senza problemi, mentre io cercavo di non perdere la dignità, tutta allungata e con la faccia spiaccicata contro il muro. Tirai fuori un pacco inaspettatamente grande.

    Ci ritrovammo tutti e due con una scatola in mano – la mia beige, senza segni particolari, la sua molto femminile, rosa, chiusa con un nastro di seta bianca.

    «Bel pacco», dissi. Mi sorprese un po’ sentire la mia voce. Pensavo che corpo e cervello si fossero accordati per adottare una rigida tattica passivo-aggressiva, ma non mi sarei scusata per la frecciatina.

    Si girò con un sopracciglio inarcato. Dio. Era proprio avvenente. Mi dava quasi la nausea; non gli bastava essere bello come un divo del cinema, no, doveva scalare la classifica fino alla perfezione. Non potevi nemmeno dire che diventasse noioso, perché parte della sua perfezione stava proprio nei dettagli unici piazzati nei punti giusti – le sopracciglia, per esempio, forse erano un po’ troppo scure o troppo folte, ma chissà come si adattavano benissimo alla sua faccia. E poi c’era il naso. Non mi ero mai interessata tanto al naso di un uomo, ma bisognava ammettere che il suo era carino. Solenne. Persino nobile. Mi faceva dubitare di essermi convertita all’improvviso al feticismo da nasi. Esisteva?

    «Il tuo è più grosso». Indicò con la testa la scatola che avevo in mano.

    Faticai a reprimere un sorrisetto alla nota scherzosa nella sua voce. Di solito non avevo nessuna difficoltà a non sorridere. Mi veniva naturale. E di solito gli uomini non mi agitavano affatto; quindi, quella strana sensazione nello stomaco doveva essere l’effetto di un’avversione potente.

    «Già, be’, ho ordinato un dildo extralarge». Inclinai la scatola e gli lanciai un’occhiataccia.

    Rise. Un suono profondo, musicale. «Se non ti vedo uscire entro domani chiamo l’ambulanza?»

    «No. L’idraulico».

    Rise di nuovo; mi sorpresi quasi a sorridere, di fronte a quei bei denti bianchi e regolari. «Non ti trattengo. Hai grossi impegni. Capisco».

    «Sì, extralarge», mugugnai, poi mi affrettai a tornarmene di sopra. Che coglione. Poteva fingere di essere gentile e affabile quanto voleva, ma non si era mai nemmeno dato la pena di presentarsi. Sfoderava il suo fascino solo parlando di enormi vibratori? Probabilmente era un pervertito…

    Ne avevo ordinato uno sul serio, ma della taglia normale, e quell’informazione non lo riguardava. E non approvavo l’idea di giudicare la vita sessuale di qualcuno (o la sua assenza) dal fatto che possedeva un arsenale di sex toy di tutto rispetto. O avevi gli attrezzi per risolvere la questione a portata di mano, o dovevi chiamare qualcuno che se ne occupasse al posto tuo. Io preferivo essere preparata.

    Tornata dentro casa, passai qualche minuto a smembrare la scatola, visto che ero troppo pigra e cocciuta per fare i cinque passi che mi avrebbero portato in cucina, dove tenevo le forbici.

    Mi aspettavo di trovare il mio compagno per la serata – diciotto centimetri di lunghezza per cinque di diametro. Invece, c’era solo una stupida busta da lettere.

    La tirai fuori e la girai. Ne caddero un paio di tessere di plastica e il mucchietto di fogli che le accompagnava rimase incastrato all’imboccatura. Nel caso si trattasse di una nuova tattica per la pubblicità indesiderata, stava funzionando: avevano stuzzicato la mia curiosità.

    Anche Roosevelt, il mio gatto, era interessato. Era un munchkin, in pratica il corgi del mondo felino: zampette corte su un corpo di stazza normale. Qualcuno potrebbe sostenere che creare una razza di gatti con le gambette corte e tozze è un’assurdità. Allo stato brado, avrebbero perso qualsiasi lite di strada con un altro gatto, avendo più difficoltà ad arrivare a portata di zampa eccetera. Ma è altrettanto lecito dire che sono una figata.

    Raccolsi una delle tessere e fissai sospettosa la fotografia. Era la patente del mio vicino. Bob Smith? Avevo toppato con i vari Cade o Spade, ma Bob era ancora peggio. Forse là fuori c’è qualcuno che si chiama Bob ed è una persona fantastica – siamo onesti, poco probabile – ma era proprio tipico del mio vicino avere un nome del genere e farmi dubitare dei miei pregiudizi onomastici. Coglione.

    Buttai la tessera nella scatola e mi misi a riflettere. Pensai che aprire per sbaglio la posta di qualcun altro era un errore perdonabile. Quindi, per il momento, non mi sentivo molto in colpa. Se però frugavo tra le carte, forse avrei cominciato a sentirmi a disagio. Feci un verso infastidito e richiusi la scatola. Qualsiasi segreto avesse Bob Smith, non me ne importava al punto da accollarmi il leggero rimorso che mi avrebbe dato ficcanasare nella sua posta di proposito.

    Bussarono, forte. Grattai Roosevelt sotto il mento, poi andai ad aprire.

    Prima, mi accertai di assumere l’espressione giusta. L’idea era Hai interrotto qualcosa di estremamente importante, ma non appena mi trovai davanti il mio vicino rimasi spiazzata.

    Aveva in mano un dildo viola con delle belle vene in rilievo. Di norma, mi sarei crogiolata per qualche secondo nella bellezza di quell’opera artigianale. Uno stampo fatto come si deve. Un bel finish sul silicone, base a ventosa fantastica. Tutto ciò che una ragazza può sognare. In fondo in fondo, ero probabilmente in imbarazzo, ma avevo imparato da tempo che in casi del genere è meglio abbracciare il tuo stato d’animo che cercare di nasconderlo.

    «Oh, bene. Hai trovato il mio partner», dissi e glielo strappai di mano. Per enfatizzare il messaggio, appiccicai allo stipite della porta la ventosa dietro le palle, lasciandolo lì a dondolare minaccioso ad altezza occhi.

    Lui mi guardava, leggermente divertito. «Il tuo partner era finito nella mia cassetta delle lettere. Mi chiedevo se avessi ricevuto tu il mio pacco, per caso».

    «Se avessi ricevuto il tuo pacco, me ne sarei accorta».

    Non rise del mio gioco di parole. Con le braccia conserte, i bicipiti e il petto facevano venire voglia di leccarli, anche se avrei preferito morderli. Dopotutto, tipi come quello avevano già una vita abbastanza piacevole.

    «Sicura?», domandò. C’era una nota di tensione nella sua voce.

    Chissà perché, il suo tono mi spinse a mentirgli. Forse l’universo aveva finalmente trovato il modo di tirare a Mr Perfetto la palla curva che si meritava. A meno che l’unico tentativo per ristabilire l’equilibrio fosse stato fargli affibbiare quel Bob Smith dai genitori. Forse il fato aveva visto nel mio cuoricino nero e perverso e aveva capito che ero la complice ideale.

    Incrociai le braccia anch’io e mi strinsi nelle spalle con una nonchalance degna di un Oscar. «Sì. Sicura. Mi è arrivato solo del cibo per gatti. Forse non c’era spazio per tutte e due le scatole, quindi hanno infilato il mio dildo nel tuo buco».

    Dilatò un po’ le narici. Belle narici, se ci credete; quell’accenno di rabbia sul suo viso lo faceva assomigliare ancora di più a un dio intoccabile. Aveva i capelli scuri, una leggera ombra di barba e occhi grigio chiaro. Un po’ pallido, ma a me in un certo senso piaceva. Significava che almeno non si pavoneggiava all’aria aperta flettendo i muscoli e (ancora peggio) non si infilava in una di quelle camere radioattive che chiamano lettini abbronzanti, in perizoma e unto da capo a piedi.

    Dopo una lunga pausa densa di tensione, sospirò. «Se dovesse comparire, sai dove trovarmi».

    «Certo». Diedi una schicchera al dildo, lo guardai dondolare per un po’, poi lo strappai a due mani dallo stipite. Fece un suono di risucchio molto volgare. «E comunque, grazie per avermi riportato il mio partner».

    Sospirò di nuovo e chiuse la porta. La mia porta. Che genere di persona è uno che per porre fine alla conversazione chiude la porta di qualcun altro?

    Fissai rabbiosa il dildo, come se potesse darmi una risposta. Ancora più rabbiosamente, lo lanciai verso il divano, e sfortunatamente Roosevelt si trovò sulla traiettoria. Il gatto si tolse di mezzo con un gridolino di guerra spaventato.

    Presi di nuovo in mano la busta spessa che era nella scatola, esitai, poi ci infilai per bene i fogli senza guardarli. Scusa, universo. Non mettermi in mezzo.

    2

    Liam

    Controllai di nuovo l’e-mail sul telefonino: il pacco era effettivamente stato recapitato quel pomeriggio. O la ragazza dell’appartamento di fronte mentiva, oppure era finito nella cassetta di qualcun altro. Non avevo modo di controllare, a meno che non volessi sprecare la serata seduto nell’androne a guardare tutti quelli che aprivano la buca delle lettere. E non sarebbe servito comunque a nulla, visto che non sapevo che genere di scatola fosse, che dimensioni avesse e nemmeno se fosse già nelle mani di qualcuno.

    Nulla di tutto ciò aveva importanza.

    Sapevo per istinto che ce

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