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Una Sporca Occasione
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E-book279 pagine4 ore

Una Sporca Occasione

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Info su questo ebook

Trovare uno sconosciuto morto nel proprio letto è un accadimento che può cambiare sicuramente la vita di un uomo.E’ quanto succede ad un cuoco di mezza età, che una sera, tornato stanco dal lavoro, ha la spiacevole sorpresa di trovare, nel suo bilocale di Trastevere, un poveraccio il quale ha scelto, non si capisce per quale ragione, di finire la sua triste esistenza, proprio lì in quella casa. Inizia così un susseguirsi di situazioni che porterà il protagonista in una discesa agli inferi fino al colpo finale e alla sua redenzione dopo aver fatta propria la Teoria del Paguro Bernardo. Pierluigi Albertoni poeta, scrittore, saggista, regista vive a Roma.
LinguaItaliano
Data di uscita18 lug 2012
ISBN9788867512409
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    Anteprima del libro

    Una Sporca Occasione - Pierluigi Albertoni

    633/1941

    Capitolo 1

    Di cadere negli inferi proprio non me l’aspettavo. Ma il caso orienta le sue scelte e innalza o condanna senza appello. Casualmente. Senza preavviso. Come quel martedì notte, quando la sfiga era in agguato. Pronta a balzarmi addosso. Nera, villosa, putrefatta, come può esserlo soltanto la malasorte. Da ganglio purulento di un misero tapino che non aveva mai fatto niente di male a quel Dio, che fin da bambino, a dispetto delle esortazioni materne, non poteva amare. Pregare per credere. Sacrificarsi per onorare un Dio distante e sempre assonnato. Un giro di milonga con gli accordi stonati.

    Del resto, prima o poi doveva succedere, ne ero sicuro. Troppe volte lo avevo immaginato. La disposizione stessa della casa lo consentiva. Un loft a mezzanino, in un vicolo poco trafficato di Trastevere. Una porta facile da aprire. Scasso agevole per qualsiasi balordo. Bastava una pellicola fatta scivolare tra i battenti, quattro scossoni ben dati e il gioco era fatto. Una volta, che inavvertitamente mi ero chiuso la porta alle spalle, i pompieri, in pochi secondi, m’avevano messo in grado di riprendere possesso delle mie due stanze con servizi. Pochi metri quadrati dove grigliare una bistecca è un’impresa di difficoltà esponenziale.

    Anche quella maledetta notte, quando ero tornato a casa mezzo morto dalla stanchezza, dopo aver lavorato, senza un attimo di respiro, dieci ore di fila in cucina, davanti ai fornelli, con il caldo, gli odori, la maledetta fretta di accontentare i clienti, la porta era aperta. Non spalancata, ma senza le quattro mandate che, solitamente, uso dare. Non ho mai avuto fiducia nel prossimo. Specie nella solidarietà umana. Tutti per uno e uno per tutti è, nel mio caso, il mio io sfruttato da tutti. Nel bisogno, mai nessuno si è fatto avanti. I parenti no di certo, figuriamoci gli amici. I soli amici veri sono quelli che tintinnano in tasca. I maledetti spiccioli che non servono a niente, ma, se non ci sono, non si sa dove trovarli. La mancanza di quelle quattro mandate era un baluardo psicologico che veniva a mancare. La cosa m’insospettì, tanto che entrai in casa riluttante. Un’angoscia sorda mi rallentava i movimenti. Eppure fino a poco prima ero stato attivo. Avevo gettato tutte le mie energie per accontentare una congerie di sfessati che, per quel che valevano, potevano benissimo esser impalati. Coglioni i cui desideri venivano regolarmente disattesi dai camerieri e da me che, dei loro gusti, me ne battevo ampiamente le palle.

    Come avrete capito, sono cuoco. Un lavoro difficile da fare. Incasinato dal susseguirsi delle comande. Un tourbillon di piatti che mischiandosi, aggregandosi, omogeneizzandosi nella testa danno al malcapitato davanti ai fornelli un senso di nausea; una repulsione, quasi congenita, al cibo. Se v’interessa sapere quanto è faticoso fare il cuoco chiedetelo a chi già lo fa! Vi dirà che, quando finalmente rincasa, non vede l’ora d’infilarsi a letto e sprofondare in un sonno ristoratore. Io per riprendermi ho bisogno di dormire almeno dodici ore. Forse troppe! Ma la mia stanchezza, oltre che fisica, è psicologica. Fatta in parte come risarcimento degli anni trascorsi nella estenuante veglia sui libri poiché, fin da ragazzo, ho sentito un bisogno quasi fisico di leggere tutto quanto di scritto mi passava per le mani. Ero un onnivoro del sapere; un coglione maniaco della ricerca. Erano gli anni del liceo, quando speravo di diventare qualcuno; di ritagliarmi un posto di rilievo nella vita. E invece… Dio vede e la sfortuna provvede! Senza lasciarti un’alternativa di riserva. Adesso poi, che sono merda calpestata, il sonno mi è indispensabile. Quando dormo non riesco a limitarmi. Dormo e basta! Tanto che dopo il lavoro, non ho hobby, amici, relazioni. Sciacquette occasionali da una botta e via. Puttane smandrappate da fottere senza romantici preliminari. L’amore è una perdita di tempo per chi non ha niente da fare. Alba da preludi rosa. Sviolinata con rondini in volo. Bugie in fromboise. Peh’t bateau. Cream topped with raspberry.

    Quando mi guardo attorno noto la diversità tra me e i miei coetanei. Loro si divertono, escono con le ragazze, tirano tardi. Io no! Io me ne sto tutto il giorno al chiodo. Pronto al massimo a considerare la mia sfortuna e a piangere l’agra terra che mi ha generato. Purtroppo non ho mai avuto una vita felice. Una vita in discesa, tutta rose e fiori.

    La mia vita è stata una interminabile via crucis con le stazioni ricolme di spine e di dolori. Ultimamente poi è peggiorata. Da quando, da chef di ristorante, ho accettato di fare il cuoco in una trattoria a conduzione familiare.

    Alla Taverna Blu, tre stelle della guida Michelin, ero entrato come aiuto di cucina. Un ruolo di poco superiore allo sguattero che però mi aveva permesso di stare da subito nell’alta ristorazione. La porta che avevo imboccato era di servizio. Lo sapevo bene. Ma non potevo sperare di più. Non avevo un curriculum da esibire, né una scuola adeguata da accampare. Mi trovavo nella condizione in cui si trova la maggior parte dei miei connazionali. Con una discreta cultura, quando c’è e magari, come nel mio caso, con studi universitari alle spalle che, però, contano ben poco; per cui, alla resa dei conti, quando ti presenti per un posto di lavoro, al massimo, come titolo di merito, puoi assicurarli sulla tua buona volontà. Sul desiderio di sacrificarti. Come l’ultimo extracomunitario. Il disperato affamato del terzo mondo. Il paria disposto a tutto; anche ad accettare, come salario, unicamente un misero tozzo di pane stantio e avvelenato dal caporalato.

    Da poco era morta mia madre e con lei avevo seppellito la mia unica fonte di sostentamento. Avevo per ciò assoluto bisogno di lavorare. E lo dovevo fare senza sussiegosi distinguo. Quel posto di aiuto di cucina non potevo farmelo scappare. Importante era cominciare. Avviare il meccanismo. Entrare in quella sfera difficilmente penetrabile che è il lavoro. Il miraggio pure sancito dalla Costituzione italiana per cui sarebbe un tuo diritto ottenerlo, ma che, se lo accampi, ti viene negato da una serie, quasi metafisica, di giustificazioni. Pare proprio che nessuno ti voglia. La tua richiesta risulta una peregrina fantasia e la tua necessità un capriccio bizzarro. Così vaghi di posto in posto. Sollecitato da ogni possibile sussurro di lavoro. Bussi ad ogni porta che ritieni probabile varcare, con l’unico scopo di vedertela sbattere in faccia. La verità è che ti vogliono tenere sulla corda, farti penare per poi assumerti, nel caso decidessero di utilizzarti, in stato di soggezione, con un continuo ricatto di sudditanza. Di sfondo c’è la continua recessione. La congiuntura nefasta. La macchina produttiva inceppata. Prendere o lasciare. Se tentenni prendono un altro. Una schiera infinita di postulanti lo reclama. Non pensare! Potresti pentirtene. Così, accetti. Salendo dal gradino più basso. Il primo che ti è dato da occupare.

    Pare che tutti i grandi chef vengano dalla gavetta. Da anni d’esperienza sul campo.

    Auguste Escoffier, il più grande cuoco di tutti i tempi, aveva iniziato anche lui come aiuto di cucina: a tredici anni, nel ristorante dello zio, a Nizza.

    Alla Taverna Blu, rubando con gli occhi, in soli due anni, avevo scalato posizioni su posizioni, fino a diventare chef in seconda. Un posto di rilievo che mi metteva in pole position per essere al più presto chef di prima, con un mio settore da sovrintendere. E chef di prima lo sarei diventato se, a mettermi i bastoni fra le ruote, non ci fosse stata l’antipatia epidermica che il capo chef nutriva per me. Il maestro, come voleva essere chiamato, era una vecchia checca dal mestruo doloroso ventinove giorni al mese. Non potendo avere il ciclo, lui aveva epistassi. Con sbrodolature a non finire. Difficili da tamponare. Nervoso e grifagno. Rancoroso e perfido.

    Pluridecorato, Cordon bleu, membro di conventicole culinarie super raffinate, il maestro mi guardava con disprezzo. Con la sua sensibilità tutta femminile capiva che sotto, sotto, miravo a fargli le scarpe. A scalzarlo. A mettermi al suo posto. Perciò mi teneva a distanza, non me ne passava una. Ogni occasione era buona per umiliarmi e ributtarmi all’angolo. All’ennesima retrocessione, allorché mi ero visto scavalcato dall’ultimo suo amichetto, avevo preferito licenziarmi e presentarmi, con il cappello in mano, all’Hosteria del Moro.

    La retrocessione era stata grande. L’Hosteria del Moro era il classico locale da clientela frettolosa, attenta più al prezzo che alla qualità. Niente raffinata atmosfera. Tovaglie bianche. Posateria marcata. Camerieri in smoking. Lì era tutto da porzioni abbondanti, da fame atavica. Da chi, più che al gusto, mira a riempire la pancia. Senza fronzoli, senza elaborate mise en plat; senza porzioncine da gastrite cronica. A differenza della Taverna Blu, all’Hostaria del Moro si servivano sane pastasciutte, minestroni costellati da grandi occhi di grasso, cotolette di seconda scelta un po’ coriacee, ma appaganti, per operai e impiegati, uscieri e muratori in pausa pasto. Clientela giornaliera che desiderava rifocillare il corpo con una spesa popolare.

    Anche il mio stipendio era popolare; da cuoco di mensa più che da chef, ma mi offriva la possibilità di essere libero e di non dovermi più prostrare al maestro. La libertà ha un prezzo e io avevo deciso di pagarlo.

    Ebbene (e qui entriamo in presa diretta), anche quella notte, ero tornato a casa alle due e mezzo e, senza accendere la luce per non perdere l’abbiocco, mi ero infilato in camera, mi ero spogliato e, sempre al buio, mi ero avvicinato al letto sperando, finalmente, d’infilarmici e riposare. E’ stato allora che ho trovato il mio posto occupato. Qualcuno ci si era infilato prima di me. Un ingombro sconosciuto. L’inaspettata constatazione mi aveva causato uno shock tremendo. Tremavo come una foglia. Non sapevo più che fare. C’è voluto un bel po’ prima che mi ripigliassi e con cautela, accendessi la luce.

    Quello che vidi era un fagotto informe. Un ammasso che sollevava completamente le coperte. Soltanto quando in parte lo scopersi, mi accorsi che era un uomo rannicchiato come un gatto, con la testa adagiata sul cuscino. Che ci faceva e come mai era lì, non me lo spiegavo. Ho perfino pensato ad un ologramma da stanchezza, che dopo poco sarebbe scomparso. Guardavo quell’uomo e non sapevo come comportarmi. Poi mi sono fatto coraggio e l’ho scosso. L’ho chiamato più volte: signore. Soltanto all’ennesimo scossone, non ottenendo risposta, ho finito di scoprirlo e di guardarlo in faccia. Aveva l’aspetto di un poveraccio capitato nel mio letto per volere di qualche Caritas diocesana. Una situazione illogica, ma che a volte può capitare. Un sacco di cose illogiche capitano quotidianamente nella vita. Situazioni perfino paradossali. Basta sfogliare un giornale per rendersene conto. La madre che al mattino, imbambolata dal sonno, spacca la testa al figlio, infila i piatti della cena nella credenza, si veste accuratamente, si trucca, poi grida aiuto e agli attoniti soccorritori, racconta che ad ucciderle il figlio è stato il vicino di casa. L’uomo nero delle favole. Il bruto che ce l’aveva con lei perché non aveva accettato le sue turpi avances. Miserevole scusa di chi non sa giustificare il suo atto insano e vuole in qualche modo scagionarsi. La folle signora, apparentemente per bene, che non è mai cresciuta, che parla ancora con toni infantili e la cui mentalità è stata tarpata da un’infanzia dorata. La piccola di casa che non doveva essere responsabilizzata. La poverina che alla prova della vita non aveva retto, e, al noioso e insopportabile piagnucolare del figlio, aveva reagito con trenta zoccolate sferrate con rancore.

    O la suora pazza che, per glorificare il Signore, alla sera della Vigilia di Natale, al posto del cappone, sgozza la novizia, la rosola al forno e la serve alle consorelle con contorno di patate. Così, anche lo sconosciuto morto nel mio letto non mi sembrava nemmeno un caso troppo sorprendente. Alla fin fine, me l’aspettavo! Ogni sera, tornando a casa mi assicuravo che tutto risultasse come l’avevo lasciato. L’ispezione la facevo proprio per tranquillizzarmi. Per mettere un punto fermo. Quasi un concesso prima di aprire. Per cui non trovando la stabilità sperata giravo per il bilocale a vuoto come una puleggia sballata. A rigor di logica avrei dovuto chiamare la polizia. Affidare il caso, come spesso avevo letto, alle forze dell’ordine. Però, nonostante facessi del tutto per concentrarmi, non riuscivo a coordinare le idee. Non ero in grado di prendere una decisione, di elaborare un piano. Nei momenti cruciali la ragione fa cilecca e ti trovi a sbattere la testa contro la moscaiola come un moscerino annebbiato.

    Così continuai, ancora per un po’, a scuotere quel corpo rigido che, sotto la mia spinta ruzzolava, per poi tornare al punto di stasi. Senza un gemito, un lamento. Nemmeno quando l’avevo schiaffeggiato. Soltanto dopo inutili sforzi, in un lampo di lucidità gli avevo auscultato il cuore e finalmente avevo constatato che non batteva, che chi mi stava davanti era morto. Dinanzi all’inerzia totale del muscolo cardiaco, il mio spavento era diventato panico. Non avevo però gridato. Avevo cercato, nel possibile, di controllarmi. Mi seccava allarmare i vicini. In questi casi il primo indiziato è chi scopre il cadavere. Per cui occorre stare attenti a cosa si fa, a come si agisce. Le chiacchiere girano veloci. Si rinfocolano. Aumentano. Fino a diventare verità sacrosante. Da poco mi ero trasferito a Trastevere. Non conoscevo nessuno. Nessuno avrebbe testimoniato in mio favore. Nessuno che dicesse Non può essere stato lui. Lo conosco bene. L’ho visto crescere. E’ una brava persona! No! Con i vicini avevo scambiato al massimo un cenno di capo. Non sono mai stato un tipo socievole. Non mi piace familiarizzare. Non so mai che dire. E poi di giorno dormo e di notte lavoro fino a tardi. Il mio comportamento poteva nuocermi. Lo capivo. Vatti a spiegare; specie con le forze dell’ordine. I famosi carabinieri delle fiction televisive. L’efficienza dei nostri poliziotti è riassumibile nelle relazioni annuali della Corte di giustizia: l’ottanta per cento e oltre d’omicidi irrisolti; il novantasette per cento dei furti impuniti; l’emergenza sicurezza sempre nel programma di tutti i governi. La verità è che se il cittadino vuole giustizia, deve farsela da solo: con la legge del taglione: l’occhio per occhio! "Le forze dell’ordine hanno constatato…". Nel mio caso, che avrebbero potuto constatare? Che un uomo era morto. Bastava toccarlo!

    Difficile era semmai dire come mai si trovasse lì. Come c’era venuto o se qualcuno l’aveva portato. La giustizia, a queste domande sarebbe stata in grado di rispondere? Io quell’uomo non lo conoscevo, non l’avevo mai incontrato, non l’avevo mai nemmeno visto. Per me era un emerito sconosciuto! Un disgraziato che malauguratamente aveva scelto il mio letto per crepare!

    Guardai di nuovo l’uomo: poteva avere circa quaranta anni. Il volto era gonfio e segnato, i capelli radi e scarmigliati. Gli osservai i vestiti. Indossava un maglione a giro collo abbastanza liso. I calzoni erano stazzonati, le scarpe scalcagnate. Le scarpe di una persona sono per me la spia più attendibile del suo stato sociale. Capisco che è un concetto astruso, forse fin troppo cervellotico, ma me lo porto appresso fin da ragazzo. Da quando spendevo gran parte delle mance per comprarmi scarpe. Ne avevo di tutti i tipi, per tutte le stagioni. Stando allo stato di quelle del morto doveva essere un drogato. Al proposito gli ispezionai le braccia. Seppure segnate da leggere abrasioni, erano pulite: niente buchi. I drogati sono furbi; per non farsi scoprire si bucano nei posti più strani. Più che le braccia, avrei dovuto guardagli l’inguine, tra le dita dei piedi. Solo l’idea dei piedi mi provocò un conato di vomito. Mi trattenni con forza. Mi passai una mano tra i capelli, presi fiato, deglutii forte e tornai ad almanaccare.

    Il tempo intanto passava e io non trovavo una soluzione valida, una via di fuga per scappottarmi. Alla fine decisi di chiamare la polizia. Il problema era quale numero formare. In quel momento non ne ricordavo nessuno. Passai in soggiorno alla ricerca dell’elenco telefonico. Nell’inserto centrale lo trovai. Digitai e attesi. Dopo una quindicina di squilli, quando stavo per riagganciare, una voce gutturale scandì un Pronto! annoiato.

    Mi ripresi dal torpore, in cui involontariamente ero sprofondato, ed esordii con Chiamo per un’emergenza c’è un morto nel mio letto!. Dopo un silenzio, che in quel momento mi sembrò eterno, sempre la voce gutturale disse: Si rivolga al servizio pompe funebri! Il caso non è di nostra competenza.

    Come non è di vostra competenza – azzardai - Credevo che uno sconosciuto morto nel mio letto vi dovesse interessare!.

    Cosa – domandò incredulo il mio interlocutore - lei ha uno sconosciuto morto nel letto?.

    Proprio così!. Risposi io che ormai non sapevo nemmeno più se quanto dicevo era giusto e se dovessi denunciare il mio caso. Stavo quasi per chiedere scusa e riattaccare quando la solita voce domandò: Non è un suo amico, un suo conoscente, un vicino di casa?.

    No! Questa notte sono tornato dal lavoro e l’ho trovato nel mio letto!.

    Doveva dirlo subito! – bofonchiò l’agente - In caso d’omicidio la situazione è totalmente diversa!.

    Non so, se è omicidio! - osservai timidamente - L’ ho trovato morto e basta!.

    Lasci perdere! Verificheremo noi! Dica piuttosto chi è e da dove chiama!.

    Declinai le mie generalità. Ripetei tre volte l’indirizzo.

    Ha il nome sul citofono?. Mi chiese ancora l’agente.

    Non c’è citofono. Sto a piano terra. Con ingresso singolo. Basta suonare il campanello per farsi aprire. Fate presto. Mi trovo in difficoltà!.

    Dopo la telefonata il sonno era irrimediabilmente compromesso. Nel migliore dei casi, tra accertamenti e interrogatori non avrei avuto il tempo di dormire. Sempre che non sorgessero complicazioni. Ma ormai il caso non era più nelle mie mani. Avevo messo in moto la giustizia. Dovevo lasciare fare. Potevo ripetermi all’infinito che quell’uomo non lo avevo mai visto. Non sapevo spiegarmi come mi fosse entrato in casa. La porta d’ingresso non presentava effrazione. Ma le mie giustificazioni non potevano bastare. Me ne rendevo conto. Ci sarebbero voluti ulteriori chiarimenti. Per la legge siamo tutti colpevoli. Avevo un alibi. Tutta la sera ero stato in trattoria. Testimoni il sor Enzo, e la sora Maria. I camerieri, i clienti. Li avrei coinvolti. A suo tempo. Per ora dovevo dormire. Non ce la facevo più a reggermi dritto. Gli occhi mi bruciavano. Le gambe erano molli. Sfatte. Nell’attesa dei carabinieri, avrei potuto concedermi un sonnellino. Una breve pausa. Tanto per staccare. Mentre rimuginavo, mi resi conto di essere in T-shirt e mutande. Con un estremo guizzo di volontà tornai in camera. Mi rimisi gli abiti che portavo, m’infilai le scarpe. Nel caso mi fosse toccato uscire. I piedi mi dolevano; erano gonfi. Un principio di cattiva circolazione. Mi sciacquai la faccia, mi spazzolai i capelli e tornai in soggiorno ad aspettare.

    L’immagine del primo sogno non mi si era ancora sfaldata che il campanello mi svegliò. Andai ad aprire. Quattro uomini irruppero in casa senza nemmeno salutarmi. Senza chiedermi permesso. Gli apripista del graduato. Lui mi chiese per quale motivo l’avevo chiamato.

    Il motivo? Doveva dirmelo lui. Io non l’avevo. O meglio l’avevo perché desideravo al più presto liberarmi del morto. I poliziotti fanno strane domande. Senza senso. Almeno apparente. Come chiedermi se li avevo chiamati io. Certo che ero stato io. Chi mai avrebbe dovuto farlo? Analogamente guardai con sospetto la squadra. Perché tanti uomini? Che bisogno c’era? Che temevano? Cercai d’indovinare il grado di chi mi stava interrogando. Non ho dimestichezza con i militari. Alla leva sono stato scartato. Insufficienza toracica. Non fare il militare mi aveva permesso di stare più tempo con mia madre. A Luisa (chiamavo sempre per nome mamma) ero legato da doppio cordone ombelicale. La vedevo bella, intrigante. Giudicavo fortunato mio padre. Io non sono sposato perché non ho mai trovato una donna come Luisa. Soltanto una volta stavo per farlo. Non perché innamorato, ma per mamma. Mi voleva sistemato. Con moglie, figli, casa. Una richiesta balzana. Che bisogno c’era? La casa potevo averla anche da scapolo e i bambini mi scocciavano. Inseguendo le mie idee, nel frattempo mi ero distratto per cui non avevo sentito cosa, il graduato, mi stava chiedendo. Capii soltanto:…dov’è il morto? Gl’indicai la camera. Lui schizzò via seguito dai suoi uomini. Da quando c’erano i carabinieri la mia casa era stata rivoltata, perlustrata, fotografata, ispezionata, in tutti gli anfratti. I cassetti aperti e svuotati, le carte sparpagliate per terra. Avevano perfino guardato nella dispensa. Chissà che credevano di trovarci!

    Ad un tratto mi sentii tirare per un braccio. Era un uomo della squadra che mi obbligava a sedere. C’era il graduato che mi voleva parlare. Se è d’accordo – disse - verbalizziamo!.

    Come?.

    Sì! Scriviamo quanto è in grado di ricordare. Un brogliaccio informale, utile per mettere a punto la dinamica dei fatti!.

    Preso alla sprovvista raccontai, come meglio potevo, le azioni che avevo compiuto e di come mi ero accorto del morto. Soltanto per un attimo, mentre raccontavo, il graduato aveva distolto la sua attenzione e si era rivolto a un subalterno per chiedergli se il medico Manconi era arrivato e se aveva completato tutte le operazioni del caso. Quindi – bruscamente mi chiese – se il morto lo conoscevo? Se… l’avevo già visto.

    Gli ripetei per l’ennesima volta che non lo conoscevo, non l’avevo mai visto; non immaginavo nemmeno lontanamente, chi poteva essere.

    E come mai – mi chiese scocciato – questo sconosciuto ha deciso di morire proprio in casa tua?.

    Già come mai? Perché non me lo diceva lui? Era o no l’investigatore? Allora risolvesse il caso. Si facesse carico dei perché e dei percome! Se io avessi avuto la risposta, il caso sarebbe stato chiuso. L’enigma risolto. Tutti sarebbero stati felici e contenti e ognuno sarebbe potuto tornare da dov’era venuto. Anch’io, magari approfittando del divano letto, avrei potuto dormire. Stavano agitando aria fritta, ribaltando domande alle quali entrambi non sapevamo rispondere.

    Ricapitoliamo – disse ad un tratto – alle due e trenta di notte torni a casa. Ne sei sicuro?.

    Proprio sicuro non ero. Non avevo guardato l’orologio. Ero entrato in casa senza accendere la luce e sempre al buio mi ero spogliato, ero andato in camera e avevo cercato di coricarmi.L’ora l’avevo vista una mezz’oretta prima all’orologio di Campo de’ Fiori. Tempo di arrivare a casa e avevo immaginato potessero essere le due

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