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Dove l'alba spunta al tramonto- La mia Terra del Fuoco
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E-book140 pagine1 ora

Dove l'alba spunta al tramonto- La mia Terra del Fuoco

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Info su questo ebook

Su, Franco, raccontami della tua Patagonia E allora apro la scatola delle vecchie fotografie e la memoria sempre vivissima riporta nuova luce e nitidezza a quelle immagini mai perdute e inizio a raccontare di quel ragazzino bolognese curioso, imprudente, velleitario e sognatore che, lasciata Buenos Aires al termine dell'anno scolastico, andava a Ushuaia, nella Terra del Fuoco, per trascorrere le sue favolose vacanze estive. Ma anche di quel padre che lo condusse nell'estremo sud dopo avere realizzato il suo sogno incredibile in quell'isola lontanissima da Bologna. In quei racconti tornano a nuova vita i giorni trascorsi in una terra distante da noi nel tempo e nello spazio, dove l'insolito e, talvolta, l'incredibile, potevano fare parte del quotidiano. Vicende di vita vissuta in una giostra di situazioni, luoghi e persone: cavalli, ammiragli, tori, gauchos, ballerine, preti fuori dagli schemi, tagliaboschi, missionari, banditi, profezie, la Pampa, rompighiacci, la Patagonia e pirati di Torre del Greco nello stretto di Magellano. Una rievocazione che potrebbe parere fantasia ma è ricordo vero. Qualche volta struggente, spesso splendente.
LinguaItaliano
Data di uscita11 mag 2021
ISBN9791220337410
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    Anteprima del libro

    Dove l'alba spunta al tramonto- La mia Terra del Fuoco - Franco Borsari

    altri.

    Prima parte

    La grande avventura

    QUELLO STESSO GIORNO

    Atremila chilometri di distanza Buenos Aires risplendeva immensa e carica di vitalità con i ristoranti affollati, i parchi, i viali, i cinematografi, i teatri, le ambasciate, il teatro lirico frequentato da artisti di tutto il mondo, le piazze alberate e i palazzi di stile parigino, mentre il tango risuonava ovunque. Il tango, collante di una città, passione di tutti senza distinzione di ceto o cultura.

    Le note di quella musica struggente e sensuale si diffondevano dalla radio a tutte le ore del giorno. Si ascoltava nelle case e nei mezzi pubblici e giungeva nelle strade dai negozi, ma anche dalle radio dei lustrascarpe appostati in Avenida de Mayo, Corrientes, Diagonal Norte e nelle altre vie del centro. In calle Florida il bandeoneón di un musicista di strada suonava El día que me quieras…di Carlos Gardel.

    Nella metropoli si conosceva la Terra del Fuoco per sentito dire e veniva considerata soltanto un’entità lontana, ignota, più che altro una curiosità ammantata di mito. Un’isola di leggende, di indios, di personaggi fantasiosi, di gelo e solitudine, una terra misteriosa al di là dello stretto di Magellano dove le ultime vette andine prendono il posto della pianura brulla della Patagonia atlantica.

    Di quell’isola al confine estremo, e di Ushuaia, si parlava pochissimo e ancor meno la si conosceva, quasi che la grande distanza che la separava dalla capitale la separasse anche dai cuori della gente.

    Ma quello stesso giorno in cui il vento, con il suo saluto, diede la buonanotte a Ushuaia, il Governo del generale Perón prese una decisione importante per la Terra del Fuoco: una decisione che non solo avrebbe cambiato il volto di Ushuaia, ma anche la vita dell’isola e dei suoi abitanti.

    Juan Domingo Perón era al potere da circa un anno insieme a sua moglie Eva Duarte, per tutti Evita. Fu lei, Evita, la donna dai bei lineamenti e dal carattere forte e battagliero che, con l’appoggio del popolo, lo aveva fatto liberare dalla prigione militare nell’isola di Martín Garcia portandolo al potere.

    In quel momento l’Argentina era percorsa da uno spirito di novità che infondeva grandi speranze tra i più disagiati. Il Governo promuoveva l’industrializzazione del Paese, la costruzione di scuole e ospedali con l’appoggio entusiasta dei diseredati, i descamisados, come venivano chiamati.

    Quel giorno il Governo decise la chiusura del penitenziario di Ushuaia e la costruzione di una base navale militare.

    Dopo una lunga presenza nell’isola, non ci sarebbero più stati reclusi pericolosi a diradare i boschi, ma uomini in divisa con motovedette a presidiare le acque e le isole, a difendere i confini e la popolazione.

    Non si trattava solo di dismettere il penitenziario e costruire un edificio per il comando; era il 1947 e il Governo aveva varato il primo piano quinquennale per potenziare l’economia argentina. Quel progetto faceva parte di un ampio programma di sviluppo per tutta la nazione e, in particolare, per le regioni più meridionali del Paese. Esso prevedeva anche l’insediamento di nuovi abitanti oltre ai militari, lo sfruttamento delle ricchezze naturali di quelle vaste aree lontane dalla capitale e le basi per un futuro sviluppo turistico.

    Per Ushuaia fu decisa la costruzione di centinaia di abitazioni, strade, la nuova scuola, l’ospedale, una centrale idroelettrica, un hotel e il mattatoio.

    Stava per realizzarsi un insieme imponente di opere che avrebbe cambiato il volto della cittadina e le nuove costruzioni avrebbero portato nuova vita e dato nuovo impulso all’economia in quell’isola dal clima mutevole.

    Ma chi avrebbe voluto avventurarsi fino a quelle remote latitudini dalla natura bellissima e varia, ma poco ospitale, per realizzare un simile progetto, per cercare nuovo lavoro, per costruire una nuova vita in una terra lontana dalle città, dalle comodità e forse dagli affetti?

    Le prime presenze stabili di europei in Terra del Fuoco risalgono al finire degli anni 60 del XIX secolo quando vi giunse un missionario inglese, il reverendo Thomas Bridges, che si insediò con la moglie nella piccola penisola della baia di Ushuaia ancora oggi chiamata La Misión, dove nacquero i suoi figli.

    Giunse poi l’ingegnere rumeno Julius Popper alla ricerca dell’oro, un personaggio che arrivò a battere moneta con il consenso del Governo, ma contribuì anche allo sterminio dei nativi.

    I salesiani installarono la loro prima missione nell’ ultima decade dell’800 con l’impegno di mons. Giuseppe Fagnano che, partendo dalla città cilena di Punta Arenas, realizzò un centro per la protezione e l’istruzione degli abitanti indigeni nel nord est della Terra del Fuoco, in prossimità di quella che oggi è la città di Rio Grande. Nei suoi percorsi di esplorazione ed evangelizzazione scoprì anche il grande lago che oggi porta il suo nome, il lago Fagnano.

    Nei primi anni del Novecento giunse Pasquale Rispoli, detto ‘il pirata Pasqualino’: era partito da Torre del Greco alla ricerca del padre che non aveva più dato notizie di sé e lo trovò seduto al tavolo di una taverna di Punta Arenas, sulla riva cilena dello stretto di Magellano. Con il padre, e con il suo cutter, navigò per anni tra lo stretto di Magellano e i canali della Terra del Fuoco di cui conosceva ogni isola, ogni anfratto, ogni insenatura, facendo traffici che non sempre si potevano definire legali. Una volta favorirono l’evasione di un detenuto dal carcere di Ushuaia per condurlo in Cile, ma la loro fuga finì davanti alle motovedette cilene che li intercettarono prima che potessero raggiungere lo stretto di Magellano. Nelle bettole di Ushuaia, dove era di casa, Pasqualino raccontava volentieri le sue imprese, spesso ingigantendole tra il compiacimento generale.

    Negli anni Venti del XX secolo arrivarono anche alcune famiglie provenienti dai Balcani.

    Missionari, avventurieri e persone in fuga dalle privazioni, queste erano le figure che si avventuravano nella sperduta Terra del Fuoco.

    Per vivere in quell’isola, a quei tempi, occorrevano motivazioni forti, spirito di sacrificio e grandi capacità di adattamento.

    LO SGUARDO AVANTI

    Secondo un trattato Italo-Argentino in vigore in quegli anni, le imprese italiane erano favorite nell’esecuzione di opere pubbliche e le autorità argentine informarono quelle italiane della grande opportunità di lavoro offerta in Argentina.

    Nel 1947 l’Italia era ancora profondamente ferita dalla guerra, era un’Italia che cercava con fatica di riprendere le attività, di ricostruire case, strade, fabbriche, ponti e ospedali ridotti in macerie dai bombardamenti, un’Italia in cui la mancanza di lavoro privava tanti nostri connazionali anche del cibo quotidiano.

    La notizia di quell’incredibile bando arrivò ad un giovane imprenditore bolognese di trentaquattro anni: Carlo Borsari. Era mio padre.

    Alto, di forte corporatura, lo sguardo acuto e mobilissimo, di mentalità aperta e generoso di carattere, lo spirito di intraprendenza faceva parte del suo carattere. Già a ventidue anni aveva avviato una piccola fabbrica per la produzione di mobili in legno in via Ca’ Selvatica, in piena città, e a ventisei era entrato anche nell’edilizia e con la sua impresa costruì l’edificio di una colonia estiva a Dobbiaco, proseguendo questa attività anche negli anni successivi.

    Nell’immediato dopoguerra entrò in società in un’impresa specializzata nella bonifica del territorio da ordigni bellici di cui il nostro Appennino era disseminato a seguito dei cruenti combattimenti svolti per mesi lungo la tristemente celebre ‘linea gotica’.

    La personalità di mio padre era molteplice per diversi aspetti: rapido nelle decisioni, grande affabulatore, amante dell’arte, sensibile alle necessità altrui, ma anche autoritario e facile alla collera se qualcosa non andava secondo le sue intenzioni.

    Durante la guerra riuscì ad impadronirsi di timbri e carta intestata della Wermacht con cui produsse falsi lasciapassare per conoscenti, dipendenti e partigiani, evitando loro il rischio della deportazione e, forse, salvandogli anche le vite.

    Quelli della guerra furono anni di dolore, distruzione e morte, anni in cui gli italiani soffrirono guardando avanti, seppellirono i caduti, generarono nuove vite e, dopo essersi riparati in un rifugio antiaereo, potevano trovare ancora il desiderio e la forza di progettare il futuro, di concedersi uno svago, forse un cinematografo o una balera improvvisata perché, come dice la frase fatta, la vita continua e continuava davvero ogni giorno, nonostante tutto.

    Fra i tanti, un piccolo episodio di guerra può dare un’idea del suo carattere.

    Il 24 luglio 1943, ancora una volta, si udirono urlare le sirene a preannunciare l’arrivo, con il loro rombo sinistro e minaccioso, degli stormi della morte.

    Quel giorno Bologna e il suo importante snodo ferroviario subirono un devastante bombardamento che distrusse molti edifici civili lungo la direttrice che conduce verso la stazione e danneggiò la chiesa di S. Francesco e distrusse l’ospedale Maggiore, allora situato in centro città tra via Rivareno e quella che oggi è piazza Azzarita.

    Tra gli edifici colpiti vi fu lo storico palazzo Ghisilieri, sede del rinomato Hotel Brun.

    Mentre ancora era in corso il bombardamento, un uomo sbucò da via Nosadella e corse per via Ca’ Selvatica urlando disperatamente e implorando aiuto perché sotto le macerie dell’albergo, all’angolo tra piazza Malpigli e via Ugo Bassi, c’erano sua moglie e sua figlia. Carlo Borsari, senza indugiare un solo istante, insieme ai suoi dipendenti e ad altri volonterosi, anziché cercare riparo in un rifugio, si diresse verso il luogo del disastro mentre i passi della loro corsa rimbombavano pesanti e tetri nei portici angusti di via Nosadella. Poi lungo piazza Malpighi, che alla loro ansia di giungere in tempo, in quel torrido giorno di luglio, parve interminabile. Quando arrivarono l’immagine che si parò ai loro occhi fu

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