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Nei deserti dell'ovest: STORIE DI NATIVI, COWBOY, ARTISTI E ANIME IN CERCA DI REDENZIONE
Nei deserti dell'ovest: STORIE DI NATIVI, COWBOY, ARTISTI E ANIME IN CERCA DI REDENZIONE
Nei deserti dell'ovest: STORIE DI NATIVI, COWBOY, ARTISTI E ANIME IN CERCA DI REDENZIONE
E-book286 pagine4 ore

Nei deserti dell'ovest: STORIE DI NATIVI, COWBOY, ARTISTI E ANIME IN CERCA DI REDENZIONE

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Un viaggio nella wilderness americana attraverso gli stupefacenti deserti rocciosi del New Mexico e dell’Arizona dove ancora oggi sono confinati i nativi delle tribù dei navajo e degli hopi, fino a raggiungere la mitica Monument Valley e poi più a nord lo Utah con i suoi paesaggi mozzafiato di Canyonlands (dove fecero il salto nel vuoto Thelma e Louise), Arches e il Capitol Reef National Park con i suoi numerosi itinerari paesaggistici, per poi tornare nella cosiddetta “terra dell’incanto” del New Mexico per visitare i due gioielli di Taos e Santa Fe. Un viaggio in una zona spettacolare per scoprire la bellezza di una natura selvaggia ed incontaminata. Ma un viaggio che ci dà lo spunto per raccontare tante storie legate ai luoghi visitati: storie di mandriani e di pionieri, di profeti alla ricerca della terra promessa, di fuorilegge, di un micidiale serial killer e dei famigerati skinwalkers tanto temuti dai navajo. Ma anche di vagabondi che hanno attraversato il deserto per miglia e miglia con la sola compagnia di un cavallo o di un mulo. E ancora lo spietato razzismo nei confronti dei nativi e la storia dei circoli intellettuali alternativi nati nei dintorni di Taos prima negli anni ‘30 e poi ancora negli anni ’60 dove si sono rifugiati molti intellettuali che contestavano la deriva del mondo occidentale. Ma soprattutto il racconto delle leggende dei nativi, dei loro usi e costumi e delle loro tradizioni ancestrali fatte di magia e di un profondo senso del sacro e di amore per la madre terra. Un viaggio anche interiore per ritrovare la propria anima attraverso numerose riflessioni sulla vita, sulla morte, sulla natura e sul significato delle leggende dei nativi.
LinguaItaliano
Data di uscita9 dic 2021
ISBN9791220372947
Nei deserti dell'ovest: STORIE DI NATIVI, COWBOY, ARTISTI E ANIME IN CERCA DI REDENZIONE

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    Anteprima del libro

    Nei deserti dell'ovest - Diego Baldini

    Capitolo I

    Albuquerque: la nascita, la sua storia violenta e l’Hells Alf Acre

    Sarò sempre in grado di disprezzare i mondi che ho conosciuto, come candele bruciate a metà quando il sole sorge e mi spinge verso altri ancora sconosciuti. (TdA)

    (W. L. Rusho, The Mystery of Everett Ruess, Gibbs-Smith, 2010)

    Il viaggio è iniziato, con le sue speranze, le sue incertezze e le sue paure e la prima tappa è Albuquerque, nel New Mexico. C’è molto da raccontare su questa città, perché ha una lunga storia e soprattutto qualcosa di particolare rispetto a tutte le altre grandi città degli Stati Uniti.

    La prima popolazione a insediarsi nella zona dove si trova ora la città furono gli Ancestral pueblo verso il 1300. Qualche secolo dopo, nel 1700, sopraggiunsero gli spagnoli che si accamparono lungo il fiume Rio Grande e costituirono il primo nucleo della comunità che avrebbe poi dato origine ad Albuquerque il cui nome fu dato in onore del duca omonimo allora viceré della nuova Spagna. Sembra però che ci sia anche una derivazione dal latino albus quercus che significa quercia bianca.

    La città di Albuquerque ha cominciato a espandersi significativamente quando iniziarono i lavori della ferrovia nel 1880. Verso la fine di quell’anno era già diventata un centro di rilievo in cui si contavano circa venti saloon, diverse case da gioco e alcuni bordelli. Con lo sviluppo economico arrivarono anche i problemi; in città molte persone giravano armate, le rapine alle banche e ai treni erano frequenti e, non ultimo, si registravano spesso sparatorie o veri e propri linciaggi attuati da gruppi di cosiddetti vigilanti che usavano mezzi sommari per vendicare gli atti di violenza considerati più atroci e più vigliacchi. Nella città iniziò a diffondersi anche l’uso di droga, specialmente di oppiacei, e una criminalità legata alla tossicodipendenza.

    Un ulteriore sviluppo si ebbe poi nel 1926 quando arrivò la U.S. Route 66, la storica autostrada che collega Chicago a Santa Monica. La nuova importante arteria portò alla città una vera e propria età dell’oro: Albuquerque divenne presto un punto essenziale di passaggio per molti turisti e uomini d’affari e la sua Central Avenue, soprannominata la City of Neon, cominciò a diventare famosa per i numerosi negozi e le insegne che luccicavano nelle nere notti del deserto facendola sembrare quasi una piccola Las Vegas.

    Oggi Albuquerque si può definire una piccola metropoli, ma senza il grande traffico e la frenesia di molte altre città americane. Il centro storico, nonché la parte più graziosa della città, è rappresentato dalla Old Town, il cui cuore è costituito dalla Old Town Plaza: una zona pedonale che comprende una decina di edifici in stile pueblo-spagnolo, con il tetto piatto e contorni morbidi di mattoni affiancati da lunghi porticati che offrono riparo dalla calura del sole, spesso, letteralmente rovente.

    Come in ogni medio-grande città degli Stati Uniti che si rispetti, non manca una periferia degradata e turbolenta, composta in gran parte da case mobili e roulotte abitate per lo più da latinoamericani, asiatici e altre minoranze etniche. In questi quartieri degradati l’Albuquerque Police Department (APD)ha il suo bel da fare a tenere a bada la delinquenza facendo, spesso, uso di metodi non proprio ortodossi, tanto da essere considerata eccessivamente violenta dall'opinione pubblica: tra il 2010 e il 2014, infatti, la APD ha ucciso ben 25 persone in scontri a fuoco. Famoso è il caso di James Boyd, un vagabondo che viveva sulle colline appena fuori città, in una zona deserta e isolata e che fu ucciso dalla polizia perché resistette all’arresto. Tutta la scena fu ripresa da un video che dimostrò l’assurda e gratuita violenza esercitata dalla polizia.

    Il New Mexico è definito terra dell’incanto per la bellezza dei suoi paesaggi e la secolare storia che racchiude, ma dietro questa facciata luminosa nasconde anche un lato oscuro. Proprio ad Albuquerque, nel 2009, si registrò la più grande scena del crimine mai vista in tutti gli Stati Uniti. Nella West Mesa, un’area semi desertica situata alla periferia sud-est della città, un tempo sacra alla tribù navajo, fu ritrovata una fossa profonda 8 metri, ribattezzata poi The Bowl (la scodella), che conteneva le ossa di dodici donne brutalmente assassinate: erano ispaniche, tutte scomparse improvvisamente tra il 2001 e il 2006, e tutte che vivevano nella cosiddetta zona di guerra, un quartiere popolato da prostitute, spacciatori, tossicodipendenti e bande criminali, per le quali il West Mesa era il luogo prediletto in cui seppellire i corpi degli assassinati.

    Il male è di casa in questi luoghi: ragazze che spariscono senza essere ritrovate, prostitute assassinate, bande di spacciatori che usano le ragazze e poi le eliminano per timore che parlino, intrecci tra bande di delinquenti, polizia, droga e uomini politici; si parla anche di riti occulti, omicidi su commissione, regolamenti di conti, insomma tutta l’espressione del lato oscuro dell’essere umano, di quell’anima nera del mondo che i nativi cercano di esorcizzare attraverso le preghiere rituali, mentre l’uomo occidentale resta inerte perché non è più capace nemmeno di credere in qualcosa.

    La violenza ad Albuquerque, dunque, ha radici lontane, ma si sviluppò maggiormente a partire dal 1880, quando l’arrivo della già citata ferrovia portò, oltre a un grande sviluppo economico, anche parecchia delinquenza, tanto da renderla una delle città più pericolose del vecchio West al pari di Tombstone o Dodge City, all’epoca tristemente famose come posti posseduti dal male e abbandonati da Dio.

    Negli annali si ricordano, fra i tanti episodi di violenza, le famigerate gesta dei Desperados delle Sandia Mountain che, proprio alla fine del 1800, terrorizzarono la città e le zone circostanti. Si trattava della banda di Marino Leyba, rapinatore di treni e banche, ma noto anche per la lunga scia di sangue che lasciò dietro di sé. Tre fuorilegge appartenenti alla banda furono catturati e linciati dopo essere stati imprigionati per quello che fu l’ultimo dei loro crimini, ossia l’uccisione di un colonnello dell’Esercito americano. Furono prelevati dalla loro cella da un gruppo composto da circa duecento uomini con il volto mascherato i quali, senza tanti preamboli, li impiccarono ad alcuni alberi che sorgevano sul ciglio della strada. Poco tempo dopo fu emesso un mandato di cattura anche per Marino Leyba con l’accusa di aver partecipato all’omicidio di due pastori: il capo di quella banda di criminali fu rintracciato nei pressi della cittadina di Estancia da un Vice sceriffo che, senza pensarci due volte, lo uccise sul posto a colpi di pistola.

    A quel tempo la violenza e la legge del più forte regnavano sovrane. I furti erano all’ordine del giorno, specialmente di cavalli, così come le sparatorie. I fuorilegge erano spesso giudicati in maniera sommaria e, se ritenuti colpevoli, impiccati direttamente all’albero più vicino.

    Una nazione senza bordelli è come una casa senza bagni.

    Marlene Dietrich

    L’Hayatt Regency Hotel è uno dei tanti alberghi di buon livello che si trovano oggi nella zona centrale di Albuquerque. Agli inizi del ‘900, invece, il Regency era la sede di uno dei bordelli più importanti della città, gestito da una certa madam Lizzie McGrath, fra le più famose mâitresse del quartiere a luci rosse di Albuquerque.

    Lizzie aveva alle spalle una storia di degrado e di riscatto. Dopo un’infanzia infelice e un’adolescenza burrascosa, aveva iniziato a prostituirsi in uno dei vari bordelli della città. Era una giovane determinata e ambiziosa, tanto che nel giro di pochi anni, grazie alle sue doti e a un’oculata economia, riuscì a diventare la tenutaria del Wine Cottage e col tempo riuscì a mettere da parte una fortuna grazie ai buoni rapporti che intesseva con l’alta società e i ricchi proprietari delle ville adiacenti al suo locale.

    Come tutte le case d’appuntamenti che si rispettino, anche quella di Lizzie ebbe numerosi problemi legati a denunce relative a furti, protezione di fuorilegge, risse e atti di offesa al pubblico pudore. Oltre a tali problematiche, il suo bordello fu anche travolto da una violenta campagna di protesta che ne vedeva coinvolti anche altri due, gestiti rispettivamente da Minnie Carroll e Nelly Driscoll: tutti e tre erano stati aperti nelle vicinanze di luoghi storici della città come la Masonic Hall e una chiesa luterana, fatto questo che, alla lunga, fu percepito come un vero e proprio affronto all’onore della città.

    La zona si chiamava Hell’s Half Acre (Il mezzo acro d’inferno) ed era diventata negli anni il vero e proprio quartiere a luci rosse della Old Town.

    Per evitare la chiusura, le proprietarie dei tre bordelli decisero di offrire un’ingente somma di denaro alla chiesa luterana, la quale li accettò di buon grado e decise di spostare la sua sede in un’altra zona della città. Tuttavia, nel 1914 i bordelli furono definitivamente abrogati dal nuovo sindaco appena eletto, D.H. Boatright, che pose fine all’epoca che aveva visto fiorire le case della passione e del desiderio nei quartieri della Old Town.

    A ricordo della casa d’appuntamenti e della storia di Lizzie McGrath, l’Hayatt Regency Hotel ospitò fino al 2011 il McGrath Bar and Grill, ristorante che, alla chiusura, fu teatro di un funerale simbolico da parte dei dipendenti stessi: misero l’insegna del ristorante in una bara che viaggiò su un carro funebre lungo le vie della città accompagnato da un suonatore di cornamusa. Un folto gruppo di persone seguì questo inusuale corteo: fu così sepolta per sempre quella che era stata, un tempo, una vera e propria istituzione di Albuquerque.

    Capitolo II

    Verso il deserto e l’incontro con John Egenes

    È tempo di ripartire per inoltrarsi nelle vaste lande desertiche che circondano la città di Albuquerque e dare inizio al vero viaggio.

    Uscendo dalla zona centrale della città si prende la I-40, verso ovest, che in questo tratto è chiamata Coronado Fwy: una via molto trafficata trovandosi ancora nei pressi della città, pur spalancandosi già sul deserto. La strada è lunga e diritta. Il cielo assume subito una dimensione ampissima. Dopo circa sei miglia sulla Coronado Fwy, si passa sotto un ponte, oltrepassato il quale la strada prende il nome, ben più noto, di Route 66. Il paesaggio è impressionante e non lo si può immaginare finché non ci si trova immersi dentro: sembra di essere sbarcati sulla luna e si ha la sensazione che la strada non abbia una fine e non porti da nessuna parte. Si sente il nulla intorno, ma è un nulla che suscita una forte meraviglia tanto è inusuale.

    Dopo circa sette o otto miglia, la vegetazione diventa più rigogliosa e gli arbusti aumentano, pur restando generalmente grigi e rinsecchiti, quasi a formare una sorta di mortifera prateria per decine di miglia. La monotonia del paesaggio è rotta dalla molteplicità dei colori che si alternano: dal grigio della sabbia e di alcuni arbusti, al marrone scuro delle formazioni rocciose, al grigioverde di altri arbusti, al verde più rigoglioso di altri ancora. Il tutto mentre nel cielo le nuvole assumono di volta in volta un colore bianco, blu scuro, grigio opaco o, a volte, quasi nero.

    Percorse circa quaranta miglia di deserto si imbocca una strada minore indicata sulla cartina come Old Route 66: in realtà ci sono oggi due Route 66 negli Usa. Una è quella nuova, ampia e confortevole, l’altra è quella originaria ed è quella che conserva ancora tutto il fascino di questa famosa strada. Le due vie si affiancano lungo tutto il tragitto.

    A un paio di miglia di distanza si arriva al borgo successivo: Laguna, in tutto simile a quello precedente ed è immediato, per chiunque viva in grandi città o semplicemente in un paesino europeo, porsi la domanda su come si possa vivere in certi posti. Ovviamente e, chissà, fortunatamente, non tutti abbiamo la stessa mentalità e predisposizione verso la vita in generale.

    Dopo Laguna, nel giro di venticinque miglia circa, si superano rispettivamente Paraje, Acomita e McCartys, ma si tratta effettivamente di poche case che affiancano la strada.

    A circa quindici miglia da Mc Cartys, subito dopo aver passato una zona indicata come Parco naturale El Malpais, si giunge finalmente alla successiva meta prefissata: la cittadina di Grants. Si tratta di un paese con un’estensione molto ampia: le strade sono larghe e le case distano fra loro diversi metri. Alcune di esse sono basse e decisamente di poco fascino, in altri casi invece sono graziose villette con giardino. Ci sono tante stradine che si incrociano e ai bordi delle quali si trovano le case, ma un centro vero e proprio, per come lo si possa intendere con la mentalità europea, non esiste. È opportuno ricordare che ci si trova in un territorio storicamente abitato dai nativi americani, nel quale, a circa sedici miglia da Grants, si trovano diversi pinnacoli di pietra arenaria chiamati Los Gigantes che, secondo la tradizione navajo, rappresentano mostri pietrificati.

    Più a est dei Los Gigantes si trova invece The Malpais, una formazione originata da un flusso di lava. Sempre secondo la tradizione navajo, si tratterebbe del sangue coagulato del capo dei mostri chiamato Big Yei.

    Gli eroi gemelli, che uccisero il mostro, fecero due solchi sulla terra con i coltelli di pietra per fermare la diffusione del flusso e per impedire alle due correnti del sangue di Big Yei di unirsi e raggiungere le dimore di Monster Who Kills With His Eyes, che avrebbe portato alla resurrezione del mostro stesso. L’ultimo solco è rappresentato da un tratto del fiume San Jose¹ (TdA)

    A Grants è d’obbligo menzionare un personaggio che fungerà da compagno di viaggio virtuale e che porta il nome di John Egenes.

    John Egenes arrivò a Grants nel 1974 mentre percorreva il tratto da Gallup ad Albuquerque. Lui e il suo cavallo Gizmo avevano già percorso parecchie miglia e avevano appena lasciato l’arido deserto della riserva indiana, dove l’acqua e l’erba erano stati molto scarsi quell’anno a causa delle rare piogge. John, al suo arrivo in città, aveva i nervi a fior di pelle e, vedendo le auto passargli accanto, si domandò chi glielo avesse fatto fare di intraprendere un viaggio del genere.

    Nel suo Man & Horse, infatti scriveva:

    […] Ci stiamo entrambi trascinando malamente e i miei nervi sono tesissimi. La gente guida in autostrada nei loro camper con aria condizionata, mangiando biscotti e bevendo soda pop. Odio ognuno di loro […] Mentre stavo trascinando Gizmo, sentii le redini tirare verso il basso, mi girai a guardarlo. Si era buttato a terra. Mi chinai sopra di lui, presi la sua testa tra le mie braccia e piansi.² (TdA)

    Nel 1974 John Egens si trovava in grosse difficoltà economiche e viveva in una casa simile a una baracca. La sua vita aveva preso una brutta piega: decise così di dare un taglio a tutto e di mettersi in viaggio. Con pochi dollari in tasca, sellò il suo cavallo Gizmo con una vecchia sella della cavalleria tedesca risalente alla Seconda guerra mondiale pagata quarantacinque dollari e, insieme al suo devoto amico a quattro zampe, si misero in cammino. Gizmo era un Quarter Horse di quattro anni, sauro con una striscia bianca che gli scendeva dalla fronte fino al naso, di corporatura snella e una testa ben proporzionata con due occhi intelligenti e svegli. John li descriveva così:

    L’occhio di un cavallo è la prima cosa che noto quando lo guardo. Dice molto della sua intelligenza e segnala la quantità di fiducia che ha dentro di sé. Quelli di Gizmo erano intelligenti e gentili. Erano abbastanza morbidi da essere rassicuranti, ma avevano abbastanza bianco per mostrare un senso di curiosità.³ (TdA)

    Partendo da Ventura, in California, attraversarono ben undici Stati: California, Nevada, Arizona, New Mexico, Texas, Oklahoma, Arkansas, Missouri, Tennessee, North Carolina e Virginia. Per John si trattava di un viaggio alla scoperta di sé stesso e di quella pace interiore che non era mai riuscito a trovare.

    La storia di John è una delle tante storie americane di disadattamento e precarietà economica. Il padre abbandonò la famiglia quando lui aveva solo sette anni e la madre si trovò a dover crescere quattro figli da sola e a dover rinunciare, ancora giovane, a qualsiasi speranza di un futuro romantico. I numerosi amanti di turno l’abbandonavano non appena scoprivano la sua situazione familiare e lei, di volta in volta, si trovò a dover lavorare duramente per poter racimolare quel po’ di denaro sufficiente a nutrire i figli e a sperare di vivere in una dimora fissa dopo aver dovuto subire diversi sfratti. John sviluppò un carattere solitario e introverso, tanto che uno psichiatra direbbe che ho avuto problemi di abbandono, che mi hanno fatto diffidare di tutti e fare affidamento solo su me stesso […] Ho vagato attraverso la vita nel buio, accecato come un cervo dai fari.⁴(TdA)

    Arrivato in età adolescenziale, ogni tanto partiva e stava in giro per settimane senza dare informazioni alla madre. A diciassette anni chiamò da un carcere della Louisiana dove era stato rinchiuso sei giorni per vagabondaggio. Nonostante tutto, John si definiva un tipo dal bicchiere mezzo pieno, che prende le cose come vengono e non cercano di capire il perché.⁵(TdA). E così sopravvisse; non solo, riuscì anche a prendersi una laurea.

    Scrisse:

    Ero bloccato sulla strada meno battuta e mi convinsi che era la strada migliore da percorrere, anche se non sempre si è dimostrato vero […] Ho letto libri, scritto storie e iniziato a scrivere canzoni. Ho imparato a fare l’autostop, ho imparato a guidare i treni merci e ho imparato a viaggiare nel paese con la sola compagnia di me stesso.⁶ (TdA)

    Così, un giorno, John decise di partire. Lui e Gizmo attraversarono aridi deserti e distese di praterie per centinaia di miglia, dormendo sotto le stelle e viaggiando in mezzo a coyote, cavalli selvaggi, scorpioni e vedove nere, accampandosi sulle rocce del deserto, in baracche abbandonate e persino in qualche cimitero.

    Colpisce la sua storia e la descrizione che fece dei suoi anni giovanili: l’amore per la solitudine, il difficile approccio con le ragazze, Johnny Cash e i Beatles, la musica a dare un senso alla sua vita, l’autostop, il viaggio solitario, le letture, i cavalli, Kerouac e la cultura Hippy e, anche, il voler farcela sempre da solo.

    Sulla sua decisione di partire scrisse:

    L’idea di essere un cowboy solitario era un po’ banale e abusata, ma si confaceva alle mie tendenze anticonformiste. E inoltre, anche se l’idea di una lunga cavalcata era una cosa comune, il farlo non lo era poi così tanto.⁷ (TdA)

    Fu un viaggio, in alcune occasioni, decisamente pericoloso. Quando si è in giro da soli con un cavallo in mezzo al deserto non si può mai sapere cosa possa capitare, ma soprattutto si hanno ben pochi mezzi per poter far fronte agli inconvenienti. C’è da dire che però il vero viaggio è anche questo: lasciarsi andare completamente, abbandonare le proprie certezze, rischiare e, soprattutto, provare ad avere fede. Fattore quest’ultimo che ormai appare estremamente difficile e per certi versi anacronistico, in un tempo in cui la tendenza ad avere tutto sotto controllo è divenuta spasmodica.

    John racconta che un giorno, poco prima di arrivare a Grants, fu morso da una vedova nera, un aracnide altamente pericoloso, chiamato così perché si dice che tenda a uccidere il maschio dopo l’accoppiamento, pur trattandosi di una leggenda. In ogni caso, il suo veleno è tanto potente da essere circa dieci volte superiore a quello di un serpente a sonagli e molto più pericoloso in quanto, mentre il veleno del serpente tende a paralizzare solo la parte del corpo che viene morsa, il veleno della vedova nera colpisce il sistema nervoso centrale bloccando l’intero organismo. John aveva con sé solo delle aspirine con le quali tentò di tenere sotto controllo il dolore mentre cercava di arrivare faticosamente presso il primo centro abitato, Oatman, nella parte occidentale dell’Arizona, vicino alle Black Mountains. Arrivò, alla fine, stremato, trascinandosi aggrappato al cavallo. Fu soccorso da alcuni passanti e trasportato dal primo dottore della zona, a circa un’ora di macchina. Era oramai tardi per iniettare un siero e, per diversi giorni, John fu assalito da dolori lancinanti. Poté prendere solo delle aspirine, qualche pillola di codeina e fare bagni caldi, tutto al fine di attutire il dolore. Non c’era altro da fare.

    Dopo cinque giorni di riposo, quando cominciò a sentirsi meglio, si rimise in sella a Gizmo e, senza perdere altro tempo, riprese il viaggio diretto a Nord Est, lungo la Oatman Road: la strada che John ribattezzò Bloody 66, a causa della tortuosità e pericolosità da cui era caratterizzata. In effetti, ancora oggi, ha mantenuto tutte le sue caratteristiche di tratta dissestata che si arrampica sulle montagne rocciose fra innumerevoli tornanti e strapiombi: rievoca le vecchie strade tracciate dai pionieri che andavano a Ovest per trovare fortuna. Il nome sinistro le si addice particolarmente ed esprime tutta la wilderness di questa zona.

    ___________________

    ¹ Stephen C. Jett and Editha L. Watson, Navajo Sacred Places, University of California Press, 1995.

    ² John Egenes, Man & Horse: The Long Ride Across America, Delta Vee, 2017.

    ³ Idem.

    ⁴ Idem.

    ⁵ Idem.

    ⁶ Idem.

    ⁷ Idem.

    Capitolo III

    Gallup e l’El Rancho Hotel

    Il viaggio riparte da Grants per inoltrarsi sempre più verso ovest e, precisamente, verso quella che sarà la prossima tappa: Gallup. Si deve percorrere la vecchia Route 66 che affianca tutta la parte sud di Grants. Pur essendo al limite della città, si

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