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Salvi: Un naufrago alla scoperta del nostro mondo
Salvi: Un naufrago alla scoperta del nostro mondo
Salvi: Un naufrago alla scoperta del nostro mondo
E-book446 pagine7 ore

Salvi: Un naufrago alla scoperta del nostro mondo

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Info su questo ebook

<< La radio era rotta ma il computer stimava ancora un mese di supporto vitale. M'infilai la tuta e svuotando la plancia di un po' d'aria, uscii all'esterno. Intorno a me miliardi di meravigliosi puntini luminosi. Stelle, pianeti, costellazioni sconosciute probabilmente lontanissime da casa mia. Era spaventoso ma affascinante sentirmi ancora un granello di sabbia in una spiaggia infinita... >>

Salvi è un astronauta di un mondo lontano costretto a un atterraggio di fortuna sul nostro pianeta alla fine del 19° secolo. Cercando di sopravvivere conoscerà gli uomini e rivivrà i sentimenti che il mondo tecnologico da cui proviene ha dimenticato.

Un viaggio dallo spazio profondo alle primitive isole del Pacifico, fino alle moderne città dell'America del nord nel terzo millennio.

Nelle praterie dei bisonti conoscerà un lato romantico della morte, a caccia di balene nell'Oceano il lato crudele dell'avidità umana. Ovunque incontrerà l'amicizia, ma nel più arido deserto della Terra troverà l'amore.

Una serie di stimolanti avventure che lo condurranno attraverso la gamma dei sentimenti umani a un'eccezionale esperienza di viaggio nel tempo. Una storia fra passato e futuro dove il cuore guiderà il cammino e ci aiuterà a immaginare ogni essere umano come un aspetto diverso di noi stessi.

Salvi è un romanzo d'avventura che ricorda la saggezza degli antichi, una dolce storia d'amore ma soprattutto un messaggio di speranza.

www.salvi.uno
LinguaItaliano
Data di uscita9 mar 2018
ISBN9788827501207
Salvi: Un naufrago alla scoperta del nostro mondo

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    Mi è capitato in mano questo libro quasi per caso, ammettendo che il caso esista.
    Leggendo la prima pagina lo trovai carino ma un pò lento poi lessi la seconda, la terza e mi si aprì davanti un universo... Quello di Salvi.

    Un protagonista Salvi che direi unico nel suo genere, capace di persistere ed esistere sul filo sottile fra disillusione e speranza, senza farsi mai influenzare troppo nè dall'una nè dall'altra, quasi a voler sottolineare l'indipendenza della sua esistenza dalle correnti della vita.

    Asserire che questo personaggio mi sia piaciuto è banale, dire che l'adoro è più vicino alla verità, quest'esploratore che dopo varie vicissitudini approda in un mondo paradossalmente opposto al suo e nonostante lo smarrimento e la paura riesce ad apprezzare la vita che lo circonda senza sovrascriverla con inutili pregiudizi, è per me pura poesia.

    Naturalmente nulla di tutto questo sarebbe possibile se non fosse per Mario Vallerini, lo scrittore dietro l'esploratore naufrago, abilissimo nel creare un universo letterario in cui il lettore si perda fino a divenire egli stesso il protagonista di un romanzo d'avventura che sotto le spoglie nasconde un anima molto più profonda... Un pò come Salvi che con la sua innocenza coglie il baratro fra possibilità e insensatezza.

    I motivi principali per cui ho amato questo libro credo di averli espressi al meglio delle mie possibilità, per cui a questo punto voglio dire cosa non mi è piaciuto.

    In verità c'è solo una cosa che non mi è piaciuta... che sia finito.... non poter più immaginare di salpare su un veliero insieme a Salvi per scoprire un pò di più di questo pazzo ma unico mondo.
    Perchè sopra ogni altra considerazione l'avventura di Salvi è un atto d'amore verso gli esseri umani, verso le loro infinite possibilità che forse però solo un esploratore di un altro mondo può davvero e realmente apprezzare.

    Un ultimo ringraziamento va al suo creatore per aver saputo osservare la vita come un lupo piuttosto che lasciarsi scivolare via come foglie d'autunno.

Anteprima del libro

Salvi - Mario Vallerini

1893.

1 Un granello di sabbia

Mi chiamo Wan Tuides Sah e secondo il tuo modo di misurare il tempo ho 140 anni. Un secolo e mezzo non è poco, ma sono ancora in buona forma. Sul mio mondo l'aspettativa di vita per un maschio raggiunge i 200 anni quindi, paragonato agli umani, ne dimostro circa settanta. Appartengo al popolo dei sarket , esseri attivi e pacifici che prosperano su Sar , un pianeta lontano migliaia d’anni luce dal tuo mondo. Sono arrivato sulla Terra circa sessantasei anni fa.

Nel mio pianeta ero un esploratore di primo livello. Cercavo le rotte più convenienti per il trasporto di merci nello spazio e sistemi per condividere informazioni fra i mondi. Era un lavoro che amavo molto, ma la parola lavoro non rende bene l'idea. La gente del mio pianeta non cerca un'occupazione, ma ha dei sogni. Noi scegliamo la direzione da dare alla vita per realizzarli. La parola migliore per tradurre questo concetto nella tua lingua potrebbe essere missione. Non esiste in lingua sarket l'equivalente del termine lavoro come non ci sono mansioni povere o prestigiose. Solo desideri da realizzare. Il mio sogno era aiutare ogni popolo a comunicare, così scelsi di diventare un esploratore di primo livello. Come dicevo; chi fa questo non cerca nuovi mondi ma rotte migliori per facilitare le comunicazioni e i commerci.

Iniziai su vecchie astronavi mercantili ricoprendo mansioni semplici e imparando quanto potevo dai colleghi anziani. Cominciai con le pulizie, poi diventai un facchino, un magazziniere, un cuoco e infine un buon cartografo. Fu durante quei viaggi che conobbi esseri d'altri mondi e scoprii d'avere talento per le lingue. Non sempre avevo tempo per studiare nuovi modi d'esprimersi e quando incontravo società meno tecnologiche dovevo fare molta attenzione a non interferire con la loro cultura. Quando invece mi trovavo in un primo contatto con esseri non troppo diversi da noi, ero libero di decidere cosa fosse più opportuno. In quel caso spesso trascorrevo parecchio tempo in loro compagnia. Ogni viaggio durava almeno tre mesi, per questo motivo le compagnie favorivano l’imbarco di chi era in grado di vivere lontano dai propri cari. Ero un buon candidato per viaggi di quel tipo perché non avevo famiglia né anziani da accudire. Inoltre amavo viaggiare, conoscevo la navigazione interstellare e non mi spaventavano i piccoli spazi chiusi come quelli enormi e vuoti. Conobbi pianeti dove regna l'ordine e la pace, altri dove l'unico credo è la guerra. Frequentai popolazioni che comunicano con il pensiero, altre con la musica, altre isolate nel silenzio e nonostante questo quando penso all’Universo non ho mai smesso di sentirmi come un granello di sabbia in una spiaggia senza fine.

L’avventura non mancava. Prima di raggiungere un pianeta, le uniche informazioni in nostro possesso erano quasi esclusivamente fotografie realizzate da sonde automatiche. Con quelle formulavamo delle ipotesi su chi e cosa avremmo potuto trovare sul posto preparandoci nel miglior modo possibile all'incontro. Dopo quasi settanta anni terrestri raggiunsi l'esperienza necessaria per la responsabilità del comando di un'astronave. Su un pianeta con una tale aspettativa di vita, qualsiasi tirocinio non poteva essere breve.

Mi fu affidata una nave piccola ma agile e veloce, ottima per corti viaggi e con poco equipaggio. Il nostro compito era trovare società aliene interessate a certe merci o almeno disposte a fornire assistenza e ristoro ai mercanti che avrebbero scelto quelle rotte. Iniziai il mio primo comando cercando mondi abitati da popolazioni tecnologicamente abbastanza avanzate. Con me viaggiavano Suan , Fiane e Divon . Tre colleghi responsabili delle questioni della nave. Il mio compito era tracciare la rotta e perfezionare il primo contatto. La prima destinazione che scelsi fu Rinovia . Un pianeta distante solo due mesi di viaggio. Era una missione semplice e tanto per cominciare senza troppi rischi. Lessi accuratamente le informazioni in nostro possesso e non trovai alcuna notizia di altri visitatori di quel mondo. Solo qualche riga che ipotizzava abitanti tranquilli e fisicamente simili a noi. Impazzivo di curiosità e presunzione: perché nessuno aveva considerato la possibilità di interagire con i pacifici Rinoviani ? Mi convinsi che una buona ricerca sul campo avrebbe colmato questa lacuna.

Scendemmo su Rinovia . Scelsi un prato alla periferia di un grande agglomerato urbano lontano da qualsiasi cosa facesse pensare ad attrezzature militari. Era una piacevole e luminosa giornata, con ventisei gradi centigradi e nessuno nei dintorni. Seguendo i consigli del manuale da Primo Contatto restammo immobili e in silenzio. Procedura che prevede anche un paio di giorni d'attesa nel protettivo guscio del nostro vascello per osservare dall’interno il comportamento degli indigeni e capire come comunicare con loro. Insomma prendevamo le misure. Quella volta, dopo qualche ora dal nostro arrivo due esseri si avvicinarono alla nave. I nostri rivelatori c'informarono che non possedevano alcun strumento minaccioso. Erano bipedi come noi, due occhi, un naso, ecc. La pelle lasciata scoperta da pochi indumenti era molto chiara. Dai lineamenti del viso e dalla muscolatura poco sviluppata non capivo bene la loro identità sessuale. I bipedi, indifferenti allo strano oggetto di forma piramidale alto come una casa di quattro piani che avevano davanti, si sedettero sul lato che faceva ombra per godersi il fresco e chiacchierare. Incuriositi, restammo a osservarli sui monitor delle nostre telecamere. Pochi minuti dopo transitarono altri esseri che non degnarono di uno sguardo la nostra nave e i loro colleghi. Improvvisammo un abbigliamento simile al loro e uscimmo per incontrarli. Era una veste chiara e sottile che ci copriva fino ai polpacci, ma purtroppo lasciava intravedere le mutande scure.

Come da manuale da Primo Contatto portammo con noi delle tavole con i Mandi : le immagini evocative principali. Sono dei quadrati di cartone da mezzo metro di lato con disegni molto semplici. Le immagini sono molto più facili da comprendere delle parole. In passato, con venti tavole illustrate in quel modo, comunicammo bene con molte culture senza conoscere una parola della loro lingua. Scelsi Divon , il mio navigatore per accompagnarmi. Le nostre esili corporature non sarebbero certamente apparse minacciose. Lui era intelligente e curioso, alla prima esperienza del genere e fremente dalla voglia d'entrare in azione. Uscimmo dall'altro lato della nave, così da non spaventarli con il sibilo dell'apertura della porta. Ci fermammo a quattro, cinque metri di distanza da loro ed esibimmo un sorriso e un breve inchino. Loro si volsero verso di noi per un paio di secondi e tornarono alla loro conversazione.

Restammo immobili in silenzio. Ci stavano in pratica ignorando e non credo che nel nostro manuale ci fosse qualcosa in merito a una situazione simile. Ci allontanammo di qualche metro e ci sedemmo sul prato in un punto ben in vista. Per gli indigeni non fece differenza, era come non esistessimo. Li osservammo per diversi minuti e pur senza comprendere una sola loro parola avemmo l'impressione che stessero chiacchierando di cose banali. Decisi di tentare con le tavole e ne scelsi una classica per l'occasione: due figure umanoidi sorridenti in procinto d'abbracciarsi. Ci avvicinammo e, imbarazzato, mostrai il cartoncino davanti a loro. Uno dei due dette una rapida occhiata, e riprese immediatamente la conversazione, l'altro non ci notò nemmeno. Rimanemmo nuovamente immobili e ammutoliti, in piedi a due passi di distanza. Dopo qualche secondo uno dei due si alzò, percorse alcuni metri in direzione della nostra nave e urinò sulla parete esterna della stiva di carico. Da ciò potemmo individuarne il sesso, poiché la fece in piedi. Quello rimasto seduto, si alzò con un breve sospiro annoiato e fece un passo verso di me. Aprì le braccia all'altezza delle spalle e mimò l'abbraccio del Mandi . Però senza sorridere. Ci sentimmo onoratissimi e felici di questo primo contatto. Divon lo salutò nella nostra lingua e l'indigeno sembrò trattenere a stento un conato di vomito. Diedi una gomitata al mio navigatore per intimargli di tacere. Questo piacque alla nostra nuova conoscenza e lo fece capire con un sospiro di rilassamento. Poi Divon ebbe una buona idea: prese una penna dal taschino e iniziò a fare un disegno sul retro immacolato di una delle nostre tavole. Fece un cerchio e con cauti gesti delle braccia cercò di spiegare che quel cerchio era il loro mondo. Nel centro del cerchio disegnò un pallino nero e vi puntò il dito per fargli capire che rappresentava noi qui presenti. Il musone sembrò mostrare interesse alla visione di quella specie di neo, mentre il suo compagno tornò a sedersi in silenzio. Divon continuò felice dell'attenzione conquistata. Disegnò altri tre pallini di varie dimensioni fuori dal cerchio ed io immaginai che fossero stelle del loro cielo. Poi disegnò due pallini storti (che appresi in seguito essere le due lune di Rinovia ) e un pallino lontano sul bordo del cartone che sarebbe dovuto essere Sar . Quindi si girò verso di me con un sorriso smagliante di autocompiacimento. Il depresso non dette segni di comprensione ma tenne lo sguardo incollato al disegno e dopo un lunghissimo minuto di silenzio, emise un delicato grugnito. Poi tirò il fiato e iniziò a parlarci rapidamente nella sua incomprensibile lingua. Terminato il discorso indicò il cielo in direzione di chissà dove e salutò con uno sbuffo. Infine tornò a sedersi vicino al suo amico e riprese immediatamente la conversazione. Io tacqui. Divon si accomiatò insultandoli nella nostra lingua, ma con un tono così distaccato che non avrebbero mai potuto capirne il senso. Poi tornammo alla nave per fare il punto della situazione.

Era evidente che ci trovavamo in una società abituata al contatto con esseri provenienti da altri mondi. Pensammo che la sfortuna ci avesse fatto incontrare degli indigeni poco interessanti. Non volevo tornare dalla prima missione sotto il mio comando con dei risultati così scadenti. Decisi di recarmi nella città vicina per prendere contatto con altri esseri. Presi una navetta monoposto, un mezzo simile a una motocicletta del vostro pianeta, ma senza ruote e in grado di volare a un metro dal suolo. Andai solo e in una borsa a tracolla misi i Mandi . Pochi minuti dopo raggiunsi quello che sembrava essere il centro città. Tanti palazzi uguali a due piani e di colore grigio chiaro. Le finestre erano delle lunghe feritoie orizzontali, alte forse un metro e lunghe quanto il lato dell'immobile. Non vedevo qualcosa che facesse pensare a porte o persiane. I passaggi per accedere ai palazzi erano aperti. Nessun mezzo di trasporto, solamente migliaia di bipedi che si spostavano a piedi in modo caotico e nervoso, un po' come formiche disturbate nella tana. L'aria era profumata e la città ordinata e pulita, se non si considerava il caos pedonale.

Mi fermai in una piazza con centinaia di Rinoviani seduti a terra e intenti a discutere. Parlavano tutti contemporaneamente e nessuno fece caso a me, un alieno su un mezzo volante fra loro. Lasciai la navetta vicino a una specie di pozzo, presi un Mandi raffigurante un umanoide su un trono e al suo fianco altri due seduti a terra. Era il disegno di un personaggio importante, come un capo o un governante. Iniziai a camminare tra la folla mostrandolo a tutti quelli che incontravo, ma nessuno degnava me e il cartone di uno sguardo. Finalmente, schivando centinaia di esseri che arrivavano da ogni direzione, raggiunsi il lato opposto della piazza. Un abitante sembrò incuriosito non so se dal mio affanno o dal cartoncino e provò a comunicarmi chissà cosa nel suo strano idioma. Avrei voluto abbracciarlo per avermi considerato, ma riuscii a controllare il mio entusiasmo. L'unica cosa che capii fu la direzione che il suo braccio teso indicava. Forse laggiù avrei trovato un rinoviano di potere in grado di darmi qualche risposta o al quale potessero interessare le mie offerte. Feci un rispettoso inchino di ringraziamento e mi diressi in quella direzione. L'indigeno mi guardò con sospetto e riprese a chiacchierare con il vicino. Seguendo le indicazioni mi diressi verso l'unico palazzo con un grande ingresso protetto da un portone. Davanti un tipo impettito con un abito scuro (probabilmente una divisa) mi prese di forza per un braccio e spalancò l'ingresso con un calcio. Quindi mi spinse bruscamente su per delle scale fino a una grande sala. Nel centro, seduto dietro una disordinata scrivania, c’era un rinoviano probabilmente un suo superiore. Estrassi il cartone con gli abbracci ma non feci in tempo a mostrarlo perché lui si alzò bruscamente e venne da me a passo veloce. Il Rinoviano si fermò con il suo viso a pochi centimetri dal mio, fissandomi negli occhi. Il suo sguardo era diretto, potente e autorevole. Continuò per alcuni secondi in completo silenzio mentre io faticavo incredibilmente a sostenerne lo sguardo. Poi girò i tacchi e tornò a sedere dietro la sua scrivania per sfogliare un documento. Rimasi in piedi in quel salone per un bel po', tornato nuovamente invisibile. Quello sguardo mi aveva annodato lo stomaco e spento il cervello. Era chiaro che questo capo o saggio che fosse, non si sentisse in alcun modo minacciato da me e non fosse interessato a quanto potessi offrirgli. Mi fu anche chiaro che la mia presenza non era gradita e decisi d'uscire dal salone in silenzio. Il brutale guardiano mi lasciò passare senza toccarmi.

Fuori dal palazzo sedetti su un gradino e provai a rilassarmi osservando gli esseri che popolavano la piazza. Nonostante l'andatura frettolosa e qualche abito appariscente che sembrava mostrare classi sociali differenti, erano tutti accomunati da una strana serenità. Per la prima volta mi sembrò che fossero distesi e appagati. Mi avvicinai a un gruppetto che stava mangiando qualcosa seduto in cerchio sul selciato. Notai in loro un dolce sorriso, appena accennato ma delicato e amorevole, prima che riprendessero a parlare. Ne facevano tante di parole, ma cominciai a notare una certa armonia e il fatto che io non dicessi nulla era per loro irrilevante, eravamo comunque insieme. Tornato alla nave, stilai il rapporto del nostro primo contatto.

-- Nave al suolo nel mappale N331 dove abbiamo incontrato forme di vita bipede simile a noi. Esseri probabilmente androgini, propensi alla comunicazione verbale e forse telepatica. Da una prima analisi non sembrano interessati a scambi d'alcun tipo. Non abbiamo notato alcuna forma d'interesse nei nostri confronti. --

Un bel fiasco di missione.

Quella sera a cena tutto l'equipaggio tenne il muso lungo, deluso dai risultati del nostro primo viaggio insieme. Suan , un bestione alto più di due metri e sovrappeso di almeno trenta chili si grattava la testa pelata con il pollice della mano sinistra. Era il responsabile degli approvvigionamenti, dei pasti e anche di quel poco di pulizia che riusciva a fare sulla nave quando ne aveva voglia. Quella sera per festeggiare il nostro primo contatto preparò un menù speciale e prese dalla sua cabina una bottiglia di Raff . Una bevanda a base di bacche fermentate proibita nella maggior parte dei pianeti conosciuti. Non è dissetante, ma provoca uno strano effetto: fa ridere da morire, nel senso letterale del termine. Chi ne abusa può anche morire dalle risate. Quella sera non togliemmo il tappo alla bottiglia e continuammo a bere i soliti succhi di frutta.

Suan ruppe il silenzio e disse: << Secondo voi quella gente legge qualcosa? >> Non capii dove volesse arrivare, ma ricordai di aver notato qualche rinoviano con dei fogli fra le mani e la scrivania di quella specie di capo occupata da molti documenti. << Credo di sì, quasi tutte le società producono letteratura, ma qui non riusciamo a spiegarci con i gesti, figuriamoci cosa potremmo mettere nero su bianco. >> Replicai. << Beh, allora andranno a scuola, ci saranno dei bambini che imparano a leggere e scrivere. Cerchiamo un'edicola e qualche testo con dei disegni! Insomma, loro non ci capiscono, ma noi potremmo scoprire cosa fanno e come vivono! >> L'idea non era male, soprattutto riportò un po' di speranza all'equipaggio.

All'alba del giorno seguente scoprimmo che la temperatura durante la notte era scesa di trentacinque gradi. Il cuoco ed io faticammo a non scivolare sul suolo ghiacciato mentre controllavamo l'esterno della nave. Quando tre ore dopo la temperatura si fece più mite, preparammo le navette. Chiesi a Suan d'accompagnarmi perché motivato dalla sua intuizione. Decidemmo d'entrare in città da direzioni differenti, tenendoci in contatto con la radio. Il primo che avesse trovato qualcosa simile a un'edicola avrebbe avvisato l'altro che l'avrebbe raggiunto. Dopo un'ora di giri a vuoto notai alcuni Rinoviani che uscivano da un edificio con dei fogli in mano. Pensai a una biblioteca. Raggiunta la soglia detti un rapido sguardo all'interno e chiamai il mio collega. Quando mi raggiunse, parcheggiò la navetta di fianco alla mia vicino all'ingresso, nella solita indifferenza di decine di passanti.

L'ambiente era immenso e sviluppato solamente su un piano. Grande quanto un vostro campo di calcio. All'interno milioni di fogli di carta malamente impilati su banconi di legno lunghi come tutto il locale. Ovunque migliaia di esseri parlanti in un frastuono insopportabile. I documenti erano ordinati in un modo incomprensibile. Potevamo distinguerli solo dal colore: pile di fogli azzurri e gialli. Gli esseri frugavano fra quelle carte senza curarsi di rimetterle al loro posto o che cadessero a terra. Fu semplice imitarli senza preoccuparci d'essere notati. Anche se quella era senz'altro l'ultima dell'eventualità. Tutti i documenti che riuscimmo a vedere erano manoscritti. Non capimmo neanche se la grafia si sviluppasse da sinistra verso destra o al contrario. A un certo punto Suan , distante almeno cinquanta metri da me, mi chiamò con un forte fischio. Questo attirò l'attenzione di tutti i presenti che di colpo si bloccarono tacendo. Un silenzio irreale appena disturbato dal fruscio dei fogli che ricadevano sui banconi o al suolo.

Mi si gelò il sangue. Non potevo sapere come gli indigeni avrebbero interpretato il nostro richiamo e gli sguardi che stavo incrociando erano, a dir poco, furiosi. Istintivamente girai la testa verso l'uscita e poi verso l'amico mio che con l'agilità di un bisonte ferito stava già correndo verso il passaggio. Iniziai anch'io a correre nella stessa direzione quando il ritorno di un frastuono ormai famigliare attirò la mia attenzione. I Rinoviani avevano ripreso tranquillamente a parlare e tutto era tornato come prima. Feci un appunto mentale: Cancellare la voce telepatia dal rapporto. Come cavolo mi è venuto in mente una cosa simile? Questi non stanno mai zitti, che se ne fanno della telepatia? Raggiunsi Suan sudato fradicio. Ci guardammo negli occhi trattenendoci dallo scoppiare in una fragorosa risata. Non avevamo mai visto alcun indigeno ridere, chissà come l'avrebbero presa. Rientrammo nel locale e Suan ritrovò il bancone dove giacevano alcuni fogli azzurri diversi dagli altri. Non c'erano segni di grafia, solo disegni. Le raffigurazioni erano chiare e cominciammo a capire alcune cose. Innanzi tutto c'erano dei bambini e degli animali, anche se non ne avevamo ancora visti. C'erano esseri che accudivano i giovani e gli anziani, altri che coltivavano la terra. Cercammo qualcosa che ci aiutasse a capire l'ordine di quei fogli, ma non ci riuscimmo, così ne prendemmo almeno un centinaio e ostentando indifferenza andammo verso l'uscita.

I giorni seguenti li trascorremmo sulla nave a studiare i fogli azzurri che avevamo preso e le sorprese non mancarono. Dopo cercammo riscontri nei dintorni, approfittando delle ore più calde per recarci in molte zone dell'abitato e della campagna vicina. Tutto l’equipaggio cercò di decifrare nel migliore dei modi quei documenti e i risultati furono soddisfacenti. Dopo una settimana perfezionai il mio rapporto.

-- I Rinoviani sembrano ignorare le novità, ma non è così. Per molte generazioni hanno studiato e sperimentato cosa per loro fosse importante. Non abbiamo trovato tracce di guerre nel periodo storico che abbiamo potuto studiare. Rispettano i bambini e gli anziani accudendoli amorevolmente. La loro società non conosce il conflitto fisico. Non esistono classi sociali, anche se alcuni sembrano svolgere compiti che noi reputeremmo più nobili. La loro cultura è basata sul rispetto delle priorità e non esistono forme di pagamento. Questa società usa lo scambio non governato dalle leggi della domanda e dell’offerta, ma da regole maturate nel rispetto delle necessità di ognuno. I Rinoviani barattano le merci dando loro il valore del tempo necessario alla produzione. Un bene che richiede alcuni giorni di lavoro è ricompensato con un altro cui occorre una quantità simile di tempo per essere prodotto. Oppure con altri la cui somma corrisponde a quel periodo. Il lavoro non è una condizione sociale. Chi lavora è rispettato come chi non può o chi non ne ha bisogno. Generalmente dopo un mese d'occupazione il rinoviano gode di un mese di riposo che dedica a se stesso e alla famiglia. Il ritmo della loro vita è simile a quello della respirazione: prima dentro e poi fuori. Prima ascoltare i bisogni personali e poi lavorare per quelli degli altri. Nella loro vita non c'è spreco perché non esiste avidità. Il rispetto dei propri e altrui bisogni non crea scompensi affettivi che in altre società sono normalmente compensati con cibo o droghe. Non comprendendo la loro lingua non riesco a capire come mai parlino tanto e in un modo apparentemente così disordinato. --

Ma lo ritengo di secondaria importanza, almeno quando m'allontano da quel chiasso.

-- Da una sommaria analisi della loro cultura non appaiono tracce di alcun culto religioso o filosofico. Poco disponibili alla comunicazione con società aliene; almeno nella parte che abbiamo esplorato del pianeta. --

Continuai con alcune ipotesi sulle differenze sessuali e sulle difficoltà che avremmo potuto incontrare se avessimo desiderato approfondire l'argomento. Queste scoperte cominciarono a dare valore alla nostra missione e il morale dell'equipaggio ne risentì positivamente. Trascorremmo ancora alcuni giorni su Rinovia incontrando popolazioni di varie zone del pianeta. Inutile dire che senza la collaborazione dei locali non concludemmo alcun affare, ma fornimmo un rapporto aggiornato sul pianeta e i suoi abitanti.

Quella fu la prima esplorazione sotto il mio comando. Apprezzata dagli studiosi di nuove società aliene che lessero i miei rapporti su Sar , ma un fallimento dal punto di vista commerciale. Forse per quel motivo, pochi giorni dopo il nostro rientro, mi fu assegnata una missione più semplice. Si trattava di recuperare l'equipaggio di una nave in avaria alla deriva in un sistema isolato. Non avevo alcun impegno in quel momento così il comando mi affidò quel compito che accettai di buon grado. Avevo anche voglia di visitare una zona dell'Universo che non conoscevo e ascoltare in prima persona cosa fosse successo.

La nave era piccola e così decisi di partire da solo, prevedendo d'imbarcare al ritorno solamente una decina di persone. La navigazione era completamente automatica e avendo già compiuto viaggi lunghi senza equipaggio non temevo qualche giorno di solitudine. Programmai una rapida sosta a metà percorso per alcuni rifornimenti indispensabili richiesti dal comandante della nave in panne. Dopo un paio di giorni di viaggio raggiunsi Antalia2 , un grande asteroide reso parzialmente abitabile al solo scopo di conservare carburante e viveri per le navi impegnate in lunghi viaggi. L'atmosfera è tossica e dopo l'atterraggio si raggiunge lo scalo camminando all'esterno protetti dalla tuta spaziale. I depositi non sono vicino alla piattaforma di sosta. Per arrivarci attraversai piccoli quartieri di acciaio e carbonio fino ai magazzini principali. Nelle poche ore che trascorsi sull'asteroide non vidi alcun essere vivente, interagii solamente con macchine parlanti e vecchi computer. La merce era già imballata e non mi restava che scortare il carico alla nave. Noiosissima routine a base di inserire il codiceinserire la passwordconfermareautorizzare. Tutto questo senza neanche il piacere di fare due parole con qualcuno e magari bere qualcosa. Ripartii sollevato all'idea di allontanarmi da quello squallido luogo.

Quattro giorni di navigazione mi separavano dalla nave in avaria. Impostai la rotta nel pilota automatico e decisi di programmare una stasi di tre giorni, per non annoiarmi e riposare un po'. La stasi è una condizione di riposo forzato che si può prolungare anche per mesi. In pratica si tratta di una capsula, dove il corpo conservato in vita a bassa temperatura, resta disteso su un lettino in uno stato simile al sonno. Utilissima quando si affrontano lunghi viaggi che non richiedono la presenza dell'equipaggio. Così mesi di navigazione possono trasformarsi in una bella dormita. Quella volta mi addormentai sperando di sognare qualcosa di bello e di trovare tutto a posto al risveglio. Mi addormentai sperando soprattutto di svegliarmi.

Riaprii gli occhi con il terribile freddo nelle ossa che si prova dopo quel tipo di sonno. Lo sportello illuminato della cabina/letto stava completando la sua apertura ma dall'esterno entrava uno spiffero di aria ghiacciata. Ero stordito e sopraffatto da una brutta sensazione: non ricordavo dove mi trovavo e non vedevo nulla intorno a me. Mi sedetti faticosamente sul lettino e strizzai gli occhi. Nel frattempo piccoli oggetti volanti mi colpirono una spalla, poi il petto e il viso. Faceva molto freddo quando la luce del lettino si spense. Mi rannicchiai su me stesso per scaldarmi ed evitare gli oggetti che lentamente mi venivano addosso, mentre ripetuti segnali acustici reclamavano insistentemente la mia attenzione. Ci vollero alcuni minuti per abituare gli occhi e riconoscere la mia cabina debolmente illuminata da luci d'allarme intermittenti.

L'aria era gelida e pesante da respirare. Non c'era forza di gravità, per questo ogni oggetto fluttuava nell'aria senza peso. Penne, fogli, una piccola pianta grassa, le scarpe, un tappeto, tutto volava disordinatamente in quel piccolo caotico spazio. Non mi era mai capitato un risveglio così difficile. Avevo i muscoli irrigiditi dalla procedura di stasi e dalla temperatura dell'ambiente. Lentamente provai a muovere le braccia e la schiena. Quando riacquistai un po' di mobilità, raggiunsi una coperta piegata in fondo al lettino che mi avvolsi addosso. Dopo essermi un po' scaldato, provai a uscire dalla capsula per dirigermi verso il quadro di controllo. Scivolai fuori e iniziai a girare su me stesso roteando sopra il pavimento della stanza fino a rimbalzare contro uno sgabello che stava volando su una rotta di collisione. Sempre alla deriva e dopo alcuni rimbalzi contro le pareti, raggiunsi il pannello dove lampeggiavano le luci colorate. Un piccolo monitor scriveva in rosso la frase: Allarme - Supporto vitale esaurito. Volevo correre in plancia, ma non era facile senza appoggiare i piedi sul pavimento. Dovetti aspettare l'urto di una parete per spingermi in un'altra direzione. Quando raggiunsi la porta della cabina, mi resi conto che era bloccata. Ero prigioniero nella gelida stanza. Gesticolai urlando di rabbia e questo mi diede quel poco slancio che mi permise di raggiungere un ripostiglio. Dentro trovai una lampada portatile e alcuni indumenti pesanti che indossai immediatamente. Rinvigorito dal tepore e dalla rabbia, rimbalzai fino al computer per scoprire cosa era successo. La nave era senza energia e ossigeno. Solo le principali funzioni vitali erano ancora attive, ma quasi esaurite. La porta della mia cabina era bloccata perché dall'altro lato non si poteva respirare per mancanza d'aria. La nave era alla deriva. Qualcosa causò l'attivazione della procedura d'emergenza che aprì la mia cella di stasi. Una missione di soccorso che adesso aveva bisogno d'essere salvata.

Avevo una sete incredibile e tutto quello che mi serviva era oltre quella porta, nella cabina adiacente. Mi rimaneva poco tempo e dovevo decidere se aspettare la morte per mancanza di ossigeno e ipotermia o rischiare l'ignoto uscendo da lì. Ovviamente decisi per la seconda. Comandai al computer di sbloccare la porta e di mantenere chiuse tutte le altre. Speravo d'avere il tempo, trattenendo il fiato nell'aria rarefatta, di raggiungere nelle vicinanze l’armadietto con le tute spaziali. Indossarne una, respirare e dissetarmi. Infine avrei perlustrato la nave per controllare la situazione. Quando premetti il pulsante d'apertura, mi resi conto di non aver previsto l'ovvio. La pressione dell'aria, passando dalla cabina a un'altra vuota, sparò ogni oggetto volante (me compreso) contro la parete oltre la soglia. Urtai violentemente la spalla destra contro un tubo sporgente e feci appena in tempo a ripararmi il viso con un braccio da tutti gli oggetti che velocissimi mi venivano addosso. Con la spalla dolorante e un'orrenda sensazione d'asfissia raggiunsi l'armadio e freneticamente indossai la tuta.

Il livello del manometro indicava otto ore d'aria, ma avevo altre tute e finalmente un po' di tempo per rilassarmi e pensare. Mi distesi fluttuando qualche minuto, godendomi il calore del nuovo abito e sobbalzando al rumore di qualche oggetto che colpiva il casco. Bevvi qualche sorso della gelida quanto disgustosa bevanda energetica contenuta nell'attrezzatura man mano che tornava liquida grazie alla temperatura del mio corpo. Poi decisi di raggiungere la plancia. Volando ripercorsi la distanza che mi separava dalla stanza di comando, afferrando le sporgenze e rimbalzando tra pavimento e soffitto. In una mano tenevo la torcia, con l'altra afferravo quello che potevo per mantenere la direzione. Aprii manualmente l'ultima porta girando una piccola manovella. Anche la plancia era popolata da oggetti fluttuanti e quello che un tempo era un luminoso quadro comandi popolato da centinaia di luci e display colorati, ora era buio e polveroso. Quest'ultimo dettaglio attirò solo per un istante la mia attenzione, intento a capire come riavviare il sistema. Nella mia mente confusa i ricordi affioravano lentamente. Impiegai almeno un'ora a trovare il generatore d'emergenza e accenderlo. Finalmente, con una lieve vibrazione simile a un profondo sospiro, la nave parve riprendere vita e con le luci d'emergenza si accesero anche alcune zone del quadro. Non credevo ai miei occhi leggendo il messaggio di benvenuto all'accensione del computer principale, non potevo. "Buongiorno Wan sono 707 giorni che non accedi". Tradotto nel tuo modo di misurare il tempo.

Cosa? Settecento giorni? Due anni? Non è possibile. Ricordai una vecchia sveglia digitale che portavo sempre con me, regalo di Fiane il mio amico meccanico. Saltellai velocemente per i corridoi ora appena illuminati dalle luci d'emergenza e raggiunsi nuovamente la mia cabina. Intercettai la sveglia sospesa al centro della stanza ed ebbi la conferma: la data sul display confermava che erano passati due anni dall'ultima volta di cui avevo memoria. Sono rimasto in stasi tutto quel tempo! Che cosa è successo? Dove sono? E la missione?

Tornai in plancia, lessi velocemente le prime pagine delle istruzioni del generatore d'aria e riuscii a riavviarlo. In meno di un'ora in quella stanza avrei potuto respirare senza la tuta, ma avrei dovuto sigillare le porte e riempirla di tutto l'indispensabile per almeno un giorno.

Con le ultime forze trasportai gli indumenti più caldi, il libro di bordo, la borsa del pronto soccorso e alcuni manuali che normalmente tengo in cabina. Dalla cambusa presi dell'acqua ghiacciata e parecchie razioni di cibo liofilizzato. Esausto stivai tutto in un capiente vano vicino al servizio della plancia. Ermeticamente protetto dal nuovo alloggio pieno d'aria tiepida, tolsi la tuta e bevvi la poca acqua già sgelata. Dopo pochi minuti, prima di crollare, con uno spago assicurai la caviglia destra al tavolo solidamente imbullonato al pavimento. Per non volare via nel sonno.

Mi svegliai di colpo qualche ora dopo, con la testa appoggiata al pavimento e il naso contro la gamba del tavolo. Impiegai un attimo a ricordare dov'ero, sudato fradicio. Avrei dovuto regolare meglio il riscaldamento. Preparai una razione di cibo e mi misi davanti al computer di navigazione che tardò ad accendersi. Cercai di capire in quale parte dello Spazio mi trovavo, ma gli strumenti non riuscivano a calcolare la posizione. Feci la diagnosi dei sistemi che m'informò dell'avaria dei sensori esterni. Interrogai il computer ipotizzando una rotta dall'ultimo punto che mi era noto (Antalia2) proseguendo per 707 giorni alla stessa velocità in direzione dei naufraghi che avrei dovuto salvare. La risposta fu: Quadrante 1328 - località dello Spazio inesplorata.

La radio era rotta ma il computer stimava ancora un mese di supporto vitale. M'infilai la tuta e svuotando la plancia di un po' d'aria e qualche oggetto volante, rientrai nella parte fredda e buia della nave. Presi la borsa dei ferri, aprii un boccaporto, mi legai con una cima robusta all'asola di sicurezza e uscii all'esterno. Intorno a me miliardi di meravigliosi puntini luminosi. Stelle, pianeti, costellazioni sconosciute probabilmente lontanissime da casa mia. Era spaventoso ma affascinante sentirmi ancora un granello di sabbia in una spiaggia infinita.

Guardai l'esterno della nave e non vidi nulla di strano. Aggrappandomi a ogni sporgenza mi allontanai in direzione delle antenne e dei sensori che sembravano integri. Non c'erano segni di bruciatura o altro. Impiegai un'ora a fare un controllo abbastanza approfondito su ogni lato e non trovai alcun danno. Rientrai dopo aver impigliato quella specie di cordone ombelicale dappertutto e deluso per non aver trovato nessuna spiegazione. Appena chiuso il boccaporto, notai un piccolo oggetto. Un bottone di metallo che volava lentamente ruotando su se stesso dal centro del locale verso la paratia esterna. A ogni rotazione emetteva un bagliore riflettendo la luce della torcia. Quando raggiunse la parete che avrebbe dovuto fermarne il volo, invece di rimbalzare, sparì. Mi avvicinai incuriosito e vidi un foro di due centimetri di diametro attraverso il quale il bottone aveva trovato la libertà verso l'esterno. Ora volava nell'Universo infinito. Capii in un lampo, ma avevo bisogno di una conferma. La trovai dalla parte opposta in un piccolo foro del medesimo diametro e perfettamente circolare sul pavimento. Era il segno inequivocabile del passaggio di un piccolissimo oggetto che aveva attraversato la nave da parte a parte ad altissima velocità. Un piccolo proiettile che in un attimo avrebbe potuto disintegrare me e la nave, se avesse colpito i serbatoi del carburante o dell'ossigeno. Una bella sfortuna, ma poteva andare peggio.

Usai le ultime ore d'aria nella tuta per esaminare ogni locale alla ricerca di altri danni. Seguendo i buchi lungo la traiettoria dell'intruso raggiunsi la sala macchine. Laggiù, prima di tornare nello spazio, l'oggetto aveva danneggiato pannelli, quadri elettrici e tubi vari. C’erano anche tracce di qualche piccolo incendio probabilmente spento dal sistema automatico o dalla mancanza d'ossigeno. Danni irreparabili lontano da un'officina attrezzata. Raccolsi tutta la documentazione tecnica che trovai, presi un'altra tuta e tornai in plancia.

Limitai il più possibile le uscite dalla stanza comandi. Ogni volta che aprivo la porta, disperdevo aria nel cosmo e ci voleva tempo e molta energia per ripristinare la giusta pressione. Decisi che sarei uscito da lì sfruttando al meglio tutta l'aria della tuta, solo per approvvigionarmi e per fare eventualmente qualche riparazione. Quante erano le tute, tante sarebbero state le uscite. Avrei dovuto studiare come riparare i sensori, ripristinare le comunicazioni e riposare la mia spalla. Dopo due giorni e solo un'altra uscita, perfezionai il quadro della situazione danni. Il motore era inutilizzabile. Le tre radio di bordo erano irrimediabilmente distrutte. Il pannello che comandava i sensori si poteva salvare ricostruendo alcuni connettori strappati, ma almeno la mia spalla stava molto meglio.

Terminai quelle poche riparazioni riaccesi il computer di navigazione e chiesi: rotta virtuale da Antalia2; proseguendo verso la posizione dei naufraghi per 707 giorni. La risposta fu: Quadrante 1328 - località dello Spazio inesplorata. Chiesi la massima aspettativa di vita secondo gli ultimi calcoli e la risposta fu: ingresso in un sistema stellare fra circa sette giorni – probabilità 98% di collisione con un corpo celeste. Non avevo i mezzi per modificare la rotta ed evitare di sfracellarmi su quel pianeta. La felicità di sentirmi un po' meno perduto fu subito cancellata dalla consapevolezza che la mia aspettativa di vita era scesa a una settimana.

Non potei fare altro che aspettare. I giorni seguenti vidi dal finestrino la mia ultima destinazione ingrandirsi sempre più. Un pianeta bianco e azzurro che prendeva sempre più chiaramente forma e colore. Il computer ed io raggiungemmo le stesse conclusioni: un pianeta con acqua e aria, probabilmente abitato da forme di vita. Il settimo giorno la mia nave sfiorò il campo gravitazionale di quel mondo e, contrariamente al risultato dei calcoli, invece che tuffarsi immediatamente nell’atmosfera infiammando scenograficamente il cielo, entrò nella sua orbita girandogli intorno. Cominciò una danza di luci e colori, a volte abbagliato da una stella molto calda, a volte sprofondato nella fredda oscurità. Ogni giro intorno a quel mondo era più veloce, ad ogni giro quel mondo s'avvicinava...

Il computer calcolò alcune ore di orbite prima del contatto con il suolo. Ogni buon navigatore dello Spazio sa che questa danza, se incontrollata, è letale. Senza motori è impossibile sopravvivere all'impatto sulla superficie di qualsiasi pianeta. Ogni giro più veloce, ogni giro più vicino. La nave ed io stavamo per diventare un'affascinante stella cadente. Non avevo nulla da perdere e provai comunque ad avviare i motori, ma inutilmente come prevedibile. Lessi ancora una volta la documentazione d'emergenza senza trovare nulla che potesse essermi d'aiuto. Trovai però qualcosa d'interessante su un piccolo manuale che istruiva al lancio di merci in volo. Procedura utile quando non si può o non si vuole scendere sul luogo di destinazione. Consiste nell'introdurre il materiale al centro di un pallone elastico sferico del diametro di venti metri e lasciarlo sulla superficie dalla minore

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