Selva di luce
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Anteprima del libro
Selva di luce - Roberto Malini
Indice
Isole del suono
Introduzione
Selva di luce
Note biografiche
ISOLE DEL SUONO
Roberto Malini Steed Gamero
SELVA
DI LUCE
LAVINIA DICKINSON EDIZIONI
Introduzione
di Roberto Malini
La vita in una comunità isolata dal mondo, mentre imperversa un morbo che uccide e si cerca disperatamente una cura che possa salvare chi si ammala. Sembra storia d’oggi e invece è, in estrema sintesi, la trama del romanzo poetico Selva di luce, di cui siamo coautori Steed Gamero e io. Mentre scrivo questa introduzione, la città in cui viviamo, Pesaro, è in quarantena e l’epidemia di COVID-19 si diffonde attraverso il nostro pianeta, rivelandoci per l’ennesima volta nella storia come l’umanità sia vulnerabile di fronte alla veemenza di alcuni fenomeni naturali.
L’azione di Selva di luce si svolge due secoli dopo la fine dell’Impero Inca - Tahuantinsuyo, in lingua quechua - nel villaggio immaginario di Chaupi Llajta, ai margini della selva peruviana. Nel nuovo Perù coloniale, sotto il giogo degli invasori spagnoli, mentre l’antica capitale Cuzco è in decadenza e fiorisce Lima, la città del futuro, le popolazioni quechua conducono una vita di schiavitù e stenti. I conquistadores le costringono in una condizione di inferiorità senza via d’uscita, sottoposte alle loro leggi e punizioni. Malcontento e disperazione serpeggiano fra i contadini indigeni depauperati dall’esosità del fisco della corona di Spagna o sfiniti e avvelenati dal lavoro nelle miniere d’oro e argento. Si profila all’orizzonte la rivolta guidata da Tupac Amaru II e le successive lotte per l’indipendenza del Perù e per i diritti delle popolazioni indigene.
La nostra opera ha una natura storica - perché è ambientata in quel periodo così tormentato per il popolo quechua - e contemporaneamente mitologica, poiché i suoi protagonisti indigeni vivono a stretto contatto con la religione degli Inca, secondo cui il mondo degli esseri umani, Kay Pacha, si trova a metà fra quello degli dei, Hanan Pacha, e quello dei morti, Urin Pacha.
Steed Gamero, poeta italoperuviano, ha origini quechua. Ha trascorso l’infanzia e la prima giovinezza a Lima, la Città dei re, ma la sua famiglia è originaria di Quipán, che il mito locale ricorda come la più antica città dell’universo
. Da anni ci accomuna l’interesse verso le civiltà precolombiane e in particolare il Tahuantinsuyo, che dal XIII al XVI secolo fu artefice di una civiltà straordinaria, che ci incuriosisce e affascina ancora oggi.
Le civiltà precolombiane racchiudono da venti a quarantamila anni di storia umana, una storia che conosciamo solo parzialmente e che si è sviluppata in condizioni assai più difficili che in Africa, in Asia o in Europa. In un ambiente connotato da una straordinaria diversità biologica, infatti, le popolazioni indigene dovettero risolvere il macroscopico problema della scarsità di specie animali addomesticabili e di vegetali commestibili. Possiamo solo immaginare l’ostinazione degli agricoltori precolombiani, che dalle minuscole spighe del teosinte ottennero, attraverso pazienti incroci e selezioni, il mais che conosciamo anche oggi. O domesticarono la patata, ottenendone migliaia di varietà.
Steed e io abbiamo iniziato a parlare di questo romanzo - o poema non cantato - a due mani oltre dieci anni fa. Volevamo esprimere il nostro legame con le culture indigene, perseguitate e massacrate nei secoli. E contemporaneamente con l’ambiente delle nostre origini, minacciato ora più che mai dal sovrasfruttamento delle risorse, dall’inquinamento e dal cambiamento climatico. Non a caso, vi è un punto del testo in cui il passato si affaccia sul nostro presente e sul futuro che ci attende.
Se la cultura contemporanea ha perduto quasi totalmente la forma e i contenuti delle composizioni degli arawicus, i poeti erranti dell’Impero Inca, grazie ai frammenti citati nelle cronache dell’epoca sappiamo come fossero importanti per loro le allegorie sacre, il retaggio di saggezza tramandato dagli antenati, la presenza del divino nei cicli naturali e in ogni azione, in ogni pensiero degli esseri umani. Selva di luce eredita quella profonda affinità fra noi e il cosmo, quella sincronicità ineffabile che solo il linguaggio della poesia narrativa è capace di esprimere.
Il romanzo poetico racchiude anche le esperienze che noi autori abbiamo vissuto fianco a fianco negli anni, operando come difensori dei diritti umani e dell’ambiente nel piccolo, ma dinamico e apparentemente indistruttibile
Gruppo EveryOne. Conosciamo bene la vulnerabilità dei popoli di minoranza di fronte al potere, perché abbiamo vissuto a stretto contatto con comunità perseguitate a causa della loro diversità. E abbiamo operato per tutelare i loro diritti, insieme ai più importanti attivisti, autori e testimoni impegnati a difesa dei popoli indigeni, dei diritti delle minoranze etniche o della loro memoria. Ogni incontro con questi fautori di civiltà e sopravvissuti all’ingiustizia resterà sempre vivo nei nostri cuori; ognuno di loro ci ha trasmesso il dolore insanabile di un popolo, di una comunità e un’eredità di memoria, conoscenza e speranza. Concludo l’introduzione a Selva di luce con le parole di Rigoberta Menchú, Premio Nobel per la Pace 1992, che Steed e io abbiamo incontrato a Pesaro il 5 ottobre del 2008 e con cui abbiamo conversato sul tema dei diritti delle minoranze etniche, soffermandoci in particolare su quello di preservare le tradizioni spirituali:
Il mondo non deve dimenticare i genocidi che hanno colpito i popoli indigeni e le minoranze etniche. È una parte fondamentale delle nostra storia che non possiamo permetterci di smarrire, pena che la menzogna, l’avidità e la crudeltà vincano ancora, condannandoci a ripetere le atrocità del passato. I popoli più deboli sono colpiti ancora oggi da intimidazioni e violenze ed è importante che i responsabili di tali crimini siano perseguiti e condannati nei tribunali. Politica, giustizia, cultura e informazione devono essere unite nella denuncia e nella condanna dei delitti contro le minoranze etniche. Se non vi è giustizia, la dignità, la memoria e l’esistenza stessa delle vittime sono messe in pericolo e le convenzioni internazionali che proteggono i popoli più deboli perdono qualsiasi efficacia, mentre trionfano l’abuso e l’iniquità. Chi espropria e perseguita i popoli indigeni lo fa sempre per un interesse economico e ritroviamo spesso i responsabili di quegli abusi tra le fila del crimine organizzato e nel sistema della corruzione. Non esiste altro modo, se vogliamo salvare le minoranze indigene, che quello di garantire loro il diritto alla terra, alla salute, all’istruzione, alle tradizioni. Nelle tradizioni vi sono la spiritualità di una comunità etnica, il suo rapporto con gli antenati e i miti delle origini. Proteggere le tradizioni di un popolo significa proteggerne l’identità più autentica
.
SELVA DI LUCE
Selva di luce
Chaupi Llajta era il nome di un piccolo villaggio,
una comunità isolata ai piedi del Cerro Oyente.
Stanchi della povertà,
della difficile impresa quotidiana
di trarre sostentamento da una natura feroce,
poco dopo il tramonto gli abitanti
erano già coricati nei loro umili giacigli
e attendevano il conforto del sonno
sotto un cielo che aveva il colore del tabacco.
Ai bordi della strada sassosa che tagliava in due l’abitato
e proseguiva attraverso il malinconico paesaggio
delle coltivazioni livellate dalla stagione del raccolto,
solo due esseri umani erano senza riparo:
una giovane donna dal fisico minuto
e il figlio di pochi mesi che portava sulle spalle,
arrotolato nella manta.
La donna aveva i lineamenti tipici delle Ande,
i lunghi capelli neri riuniti in una treccia
e il viso precocemente segnato
da un’esistenza travagliata,
come tutti, in quelle terre desolate.
Alla pallida luce della luna a tre quarti,
circondata da distese spettrali di gambi tagliati,
sembrava disorientata, come se si fosse perduta
e continuasse a vagare per non cedere allo sconforto.
I suoi occhi guardavano in basso
ed erano asciutti.
Da qualche ora aveva esaurito le lacrime.
Se qualcuno l’avesse vista,
ma intorno a lei non vi era anima viva,
avrebbe provato pietà per il suo stato.
Curva come una canna sotto un forte vento Taki,
questo era il suo nome,
avanzava lentamente a piedi scalzi, su quel terreno aspro
che a tratti saliva e ad altri scendeva.
Tossì e si fermò per riprendere coraggio.
Energie non ne aveva più,
ma non le mancavano forza d’animo
e quell’incoscienza tipica di chi è giovane.
Adesso era una piccola