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Selva di luce
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E-book195 pagine1 ora

Selva di luce

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La vita in una comunità isolata dal mondo, mentre imperversa un morbo che uccide e si cerca disperatamente una cura che possa salvare chi si ammala. Sembra storia d’oggi e invece è, in estrema sintesi, la trama del romanzo poetico Selva di luce, opera degli autori pluripremiati Roberto Malini e Steed Gamero. L’azione si svolge due secoli dopo la fine dell’Impero Inca, nel villaggio immaginario di Chaupi Llajta, ai margini della foresta peruviana. Nel nuovo Perù coloniale le popolazioni quechua conducono una vita di schiavitù e stenti sotto il giogo dei conquistadores. Malcontento e disperazione serpeggiano fra i contadini indigeni depauperati dall’esosità del fisco della corona di Spagna o sfiniti e avvelenati dal lavoro nelle miniere. Se la cultura contemporanea ha perduto quasi totalmente la forma e i contenuti delle composizioni degli arawicus, i poeti erranti dell’Impero Inca, grazie ai frammenti citati nelle cronache dell’epoca sappiamo come fossero importanti per loro le allegorie sacre, il retaggio di saggezza tramandato dagli antenati, la presenza del divino nei cicli naturali e in ogni azione, in ogni pensiero degli esseri umani. Selva di luce eredita quella profonda affinità fra noi e il cosmo, quella sincronicità ineffabile che solo il linguaggio della poesia narrativa è capace di esprimere.
LinguaItaliano
Data di uscita6 mag 2020
ISBN9788894528800
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    Anteprima del libro

    Selva di luce - Roberto Malini

    Indice

    Isole del suono

    Introduzione

    Selva di luce

    Note biografiche

    ISO­LE DEL SUO­NO

    Ro­ber­to Ma­li­ni Steed Ga­me­ro

    SEL­VA

    DI LU­CE

    LA­VI­NIA DIC­KIN­SON EDI­ZIO­NI

    In­tro­du­zio­ne

    di Ro­ber­to Ma­li­ni

    La vi­ta in una co­mu­ni­tà iso­la­ta dal mon­do, men­tre im­per­ver­sa un mor­bo che uc­ci­de e si cer­ca di­spe­ra­ta­men­te una cu­ra che pos­sa sal­va­re chi si am­ma­la. Sem­bra sto­ria d’og­gi e in­ve­ce è, in estre­ma sin­te­si, la tra­ma del ro­man­zo poe­ti­co Sel­va di lu­ce, di cui sia­mo coau­to­ri Steed Ga­me­ro e io. Men­tre scri­vo que­sta in­tro­du­zio­ne, la cit­tà in cui vi­via­mo, Pe­sa­ro, è in qua­ran­te­na e l’epi­de­mia di CO­VID-19 si dif­fon­de at­tra­ver­so il no­stro pia­ne­ta, ri­ve­lan­do­ci per l’en­ne­si­ma vol­ta nel­la sto­ria co­me l’uma­nità sia vul­ne­ra­bi­le di fron­te al­la vee­men­za di al­cu­ni fe­no­me­ni na­tu­ra­li.

    L’azio­ne di Sel­va di lu­ce si svol­ge due se­co­li do­po la fi­ne dell’Im­pe­ro In­ca - Ta­huan­tin­suyo, in lin­gua que­chua - nel vil­lag­gio im­ma­gi­na­rio di Chau­pi Lla­j­ta, ai mar­gi­ni del­la sel­va pe­ru­via­na. Nel nuo­vo Pe­rù co­lo­nia­le, sot­to il gio­go de­gli in­va­so­ri spa­gno­li, men­tre l’an­ti­ca ca­pi­ta­le Cu­z­co è in de­ca­den­za e fio­ri­sce Li­ma, la cit­tà del fu­tu­ro, le po­po­la­zio­ni que­chua con­du­co­no una vi­ta di schia­vi­tù e sten­ti. I con­qui­sta­do­res le co­strin­go­no in una con­di­zio­ne di in­fe­rio­ri­tà sen­za via d’usci­ta, sot­to­po­ste al­le lo­ro leg­gi e pu­ni­zio­ni. Mal­con­ten­to e di­spe­ra­zio­ne ser­peg­gia­no fra i con­ta­di­ni in­di­ge­ni de­pau­pe­ra­ti dall’eso­sità del fi­sco del­la co­ro­na di Spa­gna o sfi­ni­ti e av­ve­le­na­ti dal la­vo­ro nel­le mi­nie­re d’oro e ar­gen­to. Si pro­fi­la all’oriz­zon­te la ri­vol­ta gui­da­ta da Tu­pac Ama­ru II e le suc­ces­si­ve lot­te per l’in­di­pen­den­za del Pe­rù e per i di­rit­ti del­le po­po­la­zio­ni in­di­ge­ne.

    La no­stra ope­ra ha una na­tu­ra sto­ri­ca - per­ché è am­bien­ta­ta in quel pe­rio­do co­sì tor­men­ta­to per il po­po­lo que­chua - e con­tem­po­ra­nea­men­te mi­to­lo­gi­ca, poi­ché i suoi pro­ta­go­ni­sti in­di­ge­ni vi­vo­no a stret­to con­tat­to con la re­li­gio­ne de­gli In­ca, se­con­do cui il mon­do de­gli es­se­ri uma­ni, Kay Pa­cha, si tro­va a me­tà fra quel­lo de­gli dei, Ha­nan Pa­cha, e quel­lo dei mor­ti, Urin Pa­cha.

    Steed Ga­me­ro, poe­ta ita­lo­pe­ru­via­no, ha ori­gi­ni que­chua. Ha tra­scor­so l’in­fan­zia e la pri­ma gio­vi­nez­za a Li­ma, la Cit­tà dei re, ma la sua fa­mi­glia è ori­gi­na­ria di Qui­pán, che il mi­to lo­ca­le ri­cor­da co­me la più an­ti­ca cit­tà dell’uni­ver­so. Da an­ni ci ac­co­mu­na l’in­te­res­se ver­so le ci­vil­tà pre­co­lom­bia­ne e in par­ti­co­la­re il Ta­huan­tin­suyo, che dal XIII al XVI se­co­lo fu ar­te­fi­ce di una ci­vil­tà straor­di­na­ria, che ci in­cu­rio­si­sce e af­fa­sci­na an­co­ra og­gi.

    Le ci­viltà pre­co­lom­bia­ne rac­chiu­do­no da ven­ti a qua­ran­ta­mi­la an­ni di sto­ria uma­na, una sto­ria che co­no­scia­mo so­lo par­zial­men­te e che si è svi­lup­pa­ta in con­di­zio­ni as­sai più dif­fi­ci­li che in Afri­ca, in Asia o in Eu­ro­pa. In un am­bien­te con­no­ta­to da una straor­di­na­ria di­ver­si­tà bio­lo­gi­ca, in­fat­ti, le po­po­la­zio­ni in­di­ge­ne do­vet­te­ro ri­sol­ve­re il ma­cro­sco­pi­co pro­ble­ma del­la scar­si­tà di spe­cie ani­ma­li ad­do­me­sti­ca­bi­li e di ve­ge­ta­li com­me­sti­bi­li. Pos­sia­mo so­lo im­ma­gi­na­re l’osti­na­zio­ne de­gli agri­col­to­ri pre­co­lom­bia­ni, che dal­le mi­nu­sco­le spi­ghe del teo­sin­te ot­ten­ne­ro, at­tra­ver­so pa­zien­ti in­cro­ci e se­le­zio­ni, il mais che co­no­scia­mo an­che og­gi. O do­me­sti­ca­ro­no la pa­ta­ta, ot­te­nen­do­ne mi­glia­ia di va­rie­tà.

    Steed e io ab­bia­mo ini­zia­to a par­la­re di que­sto ro­man­zo - o poe­ma non can­ta­to - a due ma­ni ol­tre die­ci an­ni fa. Vo­le­va­mo espri­me­re il no­stro le­ga­me con le cul­tu­re in­di­ge­ne, per­se­gui­ta­te e mas­sa­cra­te nei se­co­li. E con­tem­po­ra­nea­men­te con l’am­bien­te del­le no­stre ori­gi­ni, mi­nac­cia­to ora più che mai dal so­vra­sfrut­ta­men­to del­le ri­sor­se, dall’in­qui­na­men­to e dal cam­bia­men­to cli­ma­ti­co. Non a ca­so, vi è un pun­to del te­sto in cui il pas­sa­to si af­fac­cia sul no­stro pre­sen­te e sul fu­tu­ro che ci at­ten­de.

    Se la cul­tu­ra con­tem­po­ra­nea ha per­du­to qua­si to­tal­men­te la for­ma e i con­te­nu­ti del­le com­po­si­zio­ni de­gli ara­wi­cus, i poe­ti er­ran­ti dell’Im­pe­ro In­ca, gra­zie ai fram­men­ti ci­ta­ti nel­le cro­na­che dell’epo­ca sap­pia­mo co­me fos­se­ro im­por­tan­ti per lo­ro le al­le­go­rie sa­cre, il re­tag­gio di sag­gez­za tra­man­da­to da­gli an­te­na­ti, la pre­sen­za del di­vi­no nei ci­cli na­tu­ra­li e in ogni azio­ne, in ogni pen­sie­ro de­gli es­se­ri uma­ni. Sel­va di lu­ce ere­di­ta quel­la pro­fon­da af­fi­ni­tà fra noi e il co­smo, quel­la sin­cro­ni­ci­tà inef­fa­bi­le che so­lo il lin­guag­gio del­la poe­sia nar­ra­ti­va è ca­pa­ce di espri­me­re.

    Il ro­man­zo poe­ti­co rac­chiu­de an­che le espe­rien­ze che noi au­to­ri ab­bia­mo vis­su­to fian­co a fian­co ne­gli an­ni, ope­ran­do co­me di­fen­so­ri dei di­rit­ti uma­ni e dell’am­bien­te nel pic­co­lo, ma di­na­mi­co e ap­pa­ren­te­men­te in­di­strut­ti­bi­le Grup­po Eve­ryO­ne. Co­no­scia­mo be­ne la vul­ne­ra­bi­li­tà dei po­po­li di mi­no­ran­za di fron­te al po­te­re, per­ché ab­bia­mo vis­su­to a stret­to con­tat­to con co­mu­ni­tà per­se­gui­ta­te a cau­sa del­la lo­ro di­ver­si­tà. E ab­bia­mo ope­ra­to per tu­te­la­re i lo­ro di­rit­ti, in­sie­me ai più im­por­tan­ti at­ti­vi­sti, au­to­ri e te­sti­mo­ni im­pe­gna­ti a di­fe­sa dei po­po­li in­di­ge­ni, dei di­rit­ti del­le mi­no­ran­ze et­ni­che o del­la lo­ro me­mo­ria. Ogni in­con­tro con que­sti fau­to­ri di ci­vil­tà e so­prav­vis­su­ti all’in­giu­sti­zia re­ste­rà sem­pre vi­vo nei no­stri cuo­ri; ognu­no di lo­ro ci ha tra­smes­so il do­lo­re in­sa­na­bi­le di un po­po­lo, di una co­mu­ni­tà e un’ere­dità di me­mo­ria, co­no­scen­za e spe­ran­za. Con­clu­do l’in­tro­du­zio­ne a Sel­va di lu­ce con le pa­ro­le di Ri­go­ber­ta Men­chú, Pre­mio No­bel per la Pa­ce 1992, che Steed e io ab­bia­mo in­con­tra­to a Pe­sa­ro il 5 ot­to­bre del 2008 e con cui ab­bia­mo con­ver­sa­to sul te­ma dei di­rit­ti del­le mi­no­ran­ze et­ni­che, sof­fer­man­do­ci in par­ti­co­la­re su quel­lo di pre­ser­va­re le tra­di­zio­ni spi­ri­tua­li:

    Il mon­do non de­ve di­men­ti­ca­re i ge­no­ci­di che han­no col­pi­to i po­po­li in­di­ge­ni e le mi­no­ran­ze et­ni­che. È una par­te fon­da­men­ta­le del­le no­stra sto­ria che non pos­sia­mo per­met­ter­ci di smar­ri­re, pe­na che la men­zo­gna, l’avi­dità e la cru­del­tà vin­ca­no an­co­ra, con­dan­nan­do­ci a ri­pe­te­re le atro­ci­tà del pas­sa­to. I po­po­li più de­bo­li so­no col­pi­ti an­co­ra og­gi da in­ti­mi­da­zio­ni e vio­len­ze ed è im­por­tan­te che i re­spon­sa­bi­li di ta­li cri­mi­ni sia­no per­se­gui­ti e con­dan­na­ti nei tri­bu­na­li. Po­li­ti­ca, giu­sti­zia, cul­tu­ra e in­for­ma­zio­ne de­vo­no es­se­re uni­te nel­la de­nun­cia e nel­la con­dan­na dei de­lit­ti con­tro le mi­no­ran­ze et­ni­che. Se non vi è giu­sti­zia, la di­gni­tà, la me­mo­ria e l’esi­sten­za stes­sa del­le vit­ti­me so­no mes­se in pe­ri­co­lo e le con­ven­zio­ni in­ter­na­zio­na­li che pro­teg­go­no i po­po­li più de­bo­li per­do­no qual­sia­si ef­fi­ca­cia, men­tre trion­fa­no l’abu­so e l’ini­quità. Chi espro­pria e per­se­gui­ta i po­po­li in­di­ge­ni lo fa sem­pre per un in­te­res­se eco­no­mi­co e ri­tro­via­mo spes­so i re­spon­sa­bi­li di que­gli abu­si tra le fi­la del cri­mi­ne or­ga­niz­za­to e nel si­ste­ma del­la cor­ru­zio­ne. Non esi­ste al­tro mo­do, se vo­glia­mo sal­va­re le mi­no­ran­ze in­di­ge­ne, che quel­lo di ga­ran­ti­re lo­ro il di­rit­to al­la ter­ra, al­la sa­lu­te, all’istru­zio­ne, al­le tra­di­zio­ni. Nel­le tra­di­zio­ni vi so­no la spi­ri­tua­li­tà di una co­mu­ni­tà et­ni­ca, il suo rap­por­to con gli an­te­na­ti e i mi­ti del­le ori­gi­ni. Pro­teg­ge­re le tra­di­zio­ni di un po­po­lo si­gni­fi­ca pro­teg­ger­ne l’iden­ti­tà più au­ten­ti­ca.

    SEL­VA DI LU­CE

    Sel­va di luce

    Chau­pi Lla­j­ta era il no­me di un pic­co­lo vil­lag­gio,

    una co­mu­ni­tà iso­la­ta ai pie­di del Cer­ro Oyen­te.

    Stan­chi del­la po­ver­tà,

    del­la dif­fi­ci­le im­pre­sa quo­ti­dia­na

    di trar­re so­sten­ta­men­to da una na­tu­ra fe­ro­ce,

    po­co do­po il tra­mon­to gli abi­tan­ti

    era­no già co­ri­ca­ti nei lo­ro umi­li gia­ci­gli

    e at­ten­de­va­no il con­for­to del son­no

    sot­to un cie­lo che ave­va il co­lo­re del ta­bac­co.

    Ai bor­di del­la stra­da sas­so­sa che ta­glia­va in due l’abi­ta­to

    e pro­se­gui­va at­tra­ver­so il ma­lin­co­ni­co pae­sag­gio

    del­le col­ti­va­zio­ni li­vel­la­te dal­la sta­gio­ne del rac­col­to,

    so­lo due es­se­ri uma­ni era­no sen­za ri­pa­ro:

    una gio­va­ne don­na dal fi­si­co mi­nu­to

    e il fi­glio di po­chi me­si che por­ta­va sul­le spal­le,

    ar­ro­to­la­to nel­la man­ta.

    La don­na ave­va i li­nea­men­ti ti­pi­ci del­le An­de,

    i lun­ghi ca­pel­li ne­ri riu­ni­ti in una trec­cia

    e il vi­so pre­co­ce­men­te se­gna­to

    da un’esi­sten­za tra­va­glia­ta,

    co­me tut­ti, in quel­le ter­re de­so­la­te.

    Al­la pal­li­da lu­ce del­la lu­na a tre quar­ti,

    cir­con­da­ta da di­ste­se spet­tra­li di gam­bi ta­glia­ti,

    sem­bra­va di­so­rien­ta­ta, co­me se si fos­se per­du­ta

    e con­ti­nuas­se a va­ga­re per non ce­de­re al­lo scon­for­to.

    I suoi oc­chi guar­da­va­no in bas­so

    ed era­no asciut­ti.

    Da qual­che ora ave­va esau­ri­to le la­cri­me.

    Se qual­cu­no l’aves­se vi­sta,

    ma in­tor­no a lei non vi era ani­ma vi­va,

    avreb­be pro­va­to pie­tà per il suo sta­to.

    Cur­va co­me una can­na sot­to un for­te ven­to Ta­ki,

    que­sto era il suo no­me,

    avan­za­va len­ta­men­te a pie­di scal­zi, su quel ter­re­no aspro

    che a trat­ti sa­li­va e ad al­tri scen­de­va.

    Tos­sì e si fer­mò per ri­pren­de­re co­rag­gio.

    Ener­gie non ne ave­va più,

    ma non le man­ca­va­no for­za d’ani­mo

    e quell’in­co­scien­za ti­pi­ca di chi è gio­va­ne.

    Ades­so era una pic­co­la

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