Gli Occhi di Yukiko
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Anteprima del libro
Gli Occhi di Yukiko - Andrea Indovino
Prologo
Nei suoi occhi dal taglio orientale, protesi verso l'orizzonte imperscrutabile, nasceva il desiderio di immaginare l'ignoto. Un vortice turbolento sparpagliava i cocci dispersi del suo essere; come quando si afferra un pacco dalla provenienza sconosciuta e lo si scuote energicamente per cercare di capirne il contenuto: è la sostanza inconfondibile di quel dono chiamato vita, spesso sottovalutato, spesso insostenibile. Per quanto ci si possa tenere avvinghiati, a volte si rivela per quello che è veramente: un peso così grande che neanche delle pale cingolate riuscirebbero a rimuovere. Un peso che inevitabilmente è sofferenza. Bisogna sopportare il fardello, caricarselo sulle spalle, conviverci e cercare di ricominciare da capo. È uno spiraglio di luce difficile da sopprimere che viene sprigionato dalla morte, o quando perlomeno si nutre il presentimento di essere arrivati a tanto
dalla fine. Pensavo che lei non fosse in grado di coglierla quella luce fine a se stessa, ma i suoi occhi si rivelarono essere molto più profondi di quanto apparissero in realtà. Erano due grandi soli freddi che custodivano l'essenza della solitudine, e per quanto volessero farlo erano del tutto incapaci di intervenire in quelle realtà disgregate che gli si proiettavano dinanzi. Si trattava di una sofferenza che Yukiko condivideva con il resto dell'umanità e, senza che potesse rendersene conto, ne fu nominata portavoce.
Era una bandiera piantata sulla sommità di un monte che veniva smossa a ogni minimo sibilo del vento, riflettendo i cupi riverberi di un mondo che si era rassegnato a essere inghiottito dalla voragine dell'oscurità.
Uno schiocco di dita improvviso non sarebbe bastato a farli richiudere, perché occhi di quel genere non potevano permettersi di farsi intimorire da un semplice spostamento d'aria. Quegli occhi documentavano tutto ciò che riuscivano a intravedere, un registro perfettamente compilato, e quasi per magia le permettevano di raggiungere luoghi lontani nello spazio o nel tempo. Era sufficiente che alzasse lo sguardo al cielo per farsi trasportare dalle lunghe scie disegnate dalle stelle, catapultandosi in scorci di esistenze racchiuse in fedeli miniature. Nonostante tutto, la battaglia che Yukiko combatteva era dentro di sé, nel silenzio più assoluto. Rinchiusa in una piccola stanza sigillata, dove quel silenzio riecheggiava tra le pareti e diveniva sempre più assordante. Le iridi infuocate sembravano raggelarsi alla minima contrazione delle pupille; due buchi neri indecifrabili, specchio in frantumi della sua anima innocente. Lei provava una grande pena e dava dimostrazione di essere felice al contempo. O almeno, di essere in grado di poter affrontare un destino ancora incerto.
La sua figura si stagliava solitaria sull'orlo di un precipizio troppo profondo per prendersi di coraggio e lasciarsi andare. Chiunque esiterebbe sul filo di un rasoio. La linea che separa la vita dalla morte è fin troppo sottile, tantoché sarebbe impossibile provare a scinderle in elementi a sé stanti. Ed è così che quando parliamo di vita siamo in qualche modo costretti a parlare di morte, perché sono le uniche due cose che ci accomunano e che ci fanno credere di poterci definire tutti quanti fratelli e sorelle. Passiamo gran parte della nostra esistenza a domandarci se sia lecito vivere o morire, perché è inevitabile che la nostra mente a un certo punto si rifiuti di assorbire come una spugna tutte le delusioni. E siamo combattuti, quotidianamente, se continuare imperterriti a protrarre quell'agonia. Si può cercare di porre rimedio annegando le proprie frustrazioni in qualche bottiglia di buon whiskey, senza preoccuparsi di dover camminare barcollando sulle ginocchia. Magari qualcuno potrebbe accorgersi della nostra condizione, accorrere in nostro aiuto, chiamare un taxi e pagare in anticipo la corsa per riportarci fino a casa. Quindi ci si convince che non è poi così male stare al mondo e si riacquisisce quella fiducia perduta nei confronti dell'umanità. Quella fiducia che in qualche modo è riuscita a sfuggirci di mano.
Allora esiste veramente qualcuno che si preoccupa per me...
, viene spontaneo pensare, e io stesso credevo si trattasse di un'illusione.
Credere che l'ordine delle cose possa dipendere da noi è di per sé un'enorme ambizione, e le nostre stesse ambizioni sono illusioni. Avere ambizioni è una cosa fantastica, ma qualora le nostre aspettative vengano tradite, rivelandosi delle false premesse di un futuro irrealizzabile, potrebbero incatenarci per sempre nel fondo del baratro. Nello stesso precipizio in cui Yukiko è inevitabilmente caduta, forse indotta da quel lieve spostamento d'aria che prima d'allora non avrebbe potuto scalfirla in alcun modo.
È una forza prorompente che travolge una farfalla posatasi su uno stelo d'erba, esausta di battere le ali, colpita improvvisamente dallo scorrere impetuoso di un torrente in piena. A quel punto è inutile reagire, non si può fare più nulla. Bisogna lasciarsi trasportare dal flusso casuale degli eventi.
Yukiko era una preziosa perla insediata nella cavità di una conchiglia, rara come il ritrovamento di una civiltà antica sprofondata negli abissi. La sua pelle aveva la consistenza della porcellana, forgiata dalle mani di un abile artigiano. Lucidata da cima a fondo con la pasta abrasiva, celava delle profonde crepe. I capelli a caschetto, ondulati e rigorosamente crespi. La gonna di pelle, scolorita per l'estrema usura, evidenziava con un pizzico di malizia quelle gambe adorabilmente arcuate, che avevano scolpito dal ginocchio in giù linee sinuose che abbozzavano dei contorni di pura naturalezza. Un grazioso difetto fisico che aveva ereditato non per genetica, ma per una di quelle abitudini sociali imposte dalla formalità giapponese che l'avevano obbligata ad assumere costantemente una postura scomoda e dolorosa. Avevo provato più volte a immaginarla seduta sulle ginocchia, in occasione di ricevere un parente venuto in visita da lontano, ma continuavo a non capire il motivo per il quale si lasciasse dominare dall'etica comportamentale. Forse perché avevo conosciuto la sua parte più intima, che fino ad allora si era manifestata a pochi individui; volta a raggiungere la meta che si era prefissata senza girare intorno a inutili convenevoli. E tra noi non ci fu spazio per i convenevoli.
Ciò che ci scambiammo furono dolci effusioni d'amore, espresse caparbiamente con un minimo di autocontrollo e in momenti e luoghi opportuni.
È l'arte del recludere l'affetto nella sfera del privato, lontana da occhi indiscreti. In pochi la cercano, in molti credono di possederla. Quella di cui gode il valore della riservatezza è una struttura forte e invidiabile, difficile da infrangere una volta instauratasi. Difficile da penetrare, poiché regala una parvenza di stabilità. E io e Yukiko eravamo riusciti a costruire un rifugio tutto nostro, intimo e pieno d'amore, e avremmo potuto starcene lì per l'eternità.
Mi chiedo se i suoi desideri siano stati esauditi, in qualche modo, e se io sia stato la persona giusta quella notte in grado di donarle un po' di conforto; in quell'oceano di esseri indifferenti e senza traccia d'emotività tenuti insieme da un organismo all'apparenza omogeneo definito società
. Esaltiamo spesso il valore della collettività dimenticando che siamo un insieme di preziose gemme che non aspettano altro che essere lucidate. Una per una. Tuttavia, ci ammassiamo, ci calpestiamo, ci schiacciamo i piedi a vicenda. Ci oscuriamo l'un l'altro e le nostre ombre si confondono e diventano un tutt'uno. Le carte si mischiano tra di loro, ma alla fine dei giochi vengono riposte tutte nello stesso mazzo, perfettamente in ordine. È inevitabile. O ci si adegua o si viene piegati. Dalle regole, dal conformismo. Da un istinto primordiale di prevalere sull'altro che bisogna a tutti i costi assecondare. Ciascuno di noi vuole scalare la cima del mondo, anche solo per un attimo, al costo di vendere a poco prezzo la propria innocenza. Ed è ormai troppo tardi quando ci rendiamo conto che il nostro armadio si è riempito di scheletri. Lo chiudiamo e ne gettiamo via la chiave, facendo finta di dimenticare, di non avere colpe o rimorsi sulla coscienza. E pretendiamo poi che i nostri sogni non vengano turbati da fantasmi che non riescono a trovare pace. E chi è debole viene cestinato come rifiuto umano, a cui viene vietata categoricamente la possibilità di potersi esprimere. L'ultima parola, accolta sotto forma di giudizio insindacabile, spetta sempre agli osannati dal grande pubblico: guru di una setta religiosa che si nutrono di sotterfugi e di adepti sconsolati, accecati dalla brama di potere.
In uno scenario così desolato avrei voluto essere capace di scombussolare la sua sorte. Avrei voluto dirle addio, vedere per l'ultima volta quel sorriso spontaneo che non faceva intravedere alcun inganno, e che lasciava dei profondi solchi nel cuore di chi riusciva a scorgerlo. Era come assistere all'impatto devastante di un uragano che riduceva in macerie una magnifica foresta di pini. Il suo sorriso era in grado di travolgerti, turbarti profondamente. Quando allungava le labbra si formavano delle fossette adorabili agli angoli della bocca. Sembrava un sorriso che all'apparenza non faceva trapelare alcun segno di resa.
Pensavo spesso alle donne giapponesi, soffermandomi a riflettere sulla loro effettiva bellezza, esaltata da un kimono bianco o dalla delicata torsione del polso nell'atto di fare librare in aria un costosissimo ventaglio. Una figura ormai impressa nell'immaginario collettivo, in virtù di una raffinatezza che sembra essere inafferrabile e ineguagliabile. Quasi si esiterebbe a toccarla con mano per non correre il rischio di alterarne per sempre l'integrità, corrompendola. Bisogna tutelarla, tenendosi a debita distanza.
Yukiko era senza troppi giri di parole la bellezza dell'autodistruzione, che non è mai qualcosa di visibile. È premeditata, imprevedibile. A tratti insospettabile. Se avessi poggiato l'orecchio sul suo petto nudo avrei potuto avvertire il timido ticchettio di una bomba a orologeria. Avrei dovuto capirlo. Avrei potuto salvarla dal suo sentirsi alienata in un regno di esistenze frammentate e mutevoli. Quello stesso mondo che per noi è un'oasi in mezzo al deserto dell'universo, che poi si rivela essere un miraggio. Ci si chiede il perché, e non si trova una risposta. Siamo ridotti a essere dei beduini che vagano senza una meta, chiedendoci quando arriverà il momento in cui la luna sorgerà oltre le dune di sabbia.
Alla deriva e scossi dalla corrente, lei faceva discorsi di cui il significato era per me pressoché impossibile da comprendere fin dal principio.
Non credi che la vita non sia altro che l'essenza di un lungo viaggio che nasce dal nulla e si protrae fino alla fine? E ciò che trova modo di sopravvivere è un oceano immenso di sensazioni che si frangono come onde sulla battigia
.
Non riuscivo a ricordare il momento esatto in cui pronunciò queste parole, ma in qualche modo si era introdotta nel mio essere, destreggiandosi tra innumerevoli e invisibili ostacoli, ed era riuscita nell'impresa di capirmi come nessuno era mai stato in grado di fare.
1.
L'essenza della solitudine prevede che due anime si separino,
con la promessa che un giorno possano ricongiungersi
(Stephan Hidegnap)
Ore 23:40
Mancavano venti minuti alla mezzanotte. L'orologio da comodino segnava l'orario con numeri visibili a metà, per via di un problema tecnico allo schermo digitale. Un apparecchio impolverato che, nonostante le sue evidenti imperfezioni, continuava a scandire il passare del tempo tramite i vecchi ingranaggi che lo componevano. D'altronde era questo il fine per il quale era stato ideato. Ed era chiaro a entrambi che la giornata stesse per volgere al termine.
Yukiko era bagnata fradicia. Si sfilò le scarpe facendole cadere con noncuranza sul genkan. Il suo primo pensiero fu quello di andarsi a distendere sul letto da una piazza e mezza, che ben si conformava al suo fisico asciutto, poggiandosi alla testiera e scalciando le lenzuola con i piedi nudi, snelli e con le dita affusolate e ben curate, per ritagliarsi uno spazio di calore nell'inverno.
Era il ventiquattro dicembre e fuori l'aria era pungente, complice un breve nubifragio che aveva conferito una certa malinconia alle strade ormai deserte del quartiere di Shinjuku. Avevamo trascorso molto tempo sopra un cavalcavia pedonale, un piccolo tetto su un mondo ormai quieto e in preda agli smussamenti provocati dagli agenti atmosferici, ammirando in religioso silenzio le luci soffuse delle segnaletiche a intermittenza. Potevamo scorgere in lontananza figure sbiadite di lavoratori, stanchi e svuotati della propria linfa vitale, che si accingevano a chiudere bottega. Chi poteva esserci ad