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Un segno di speranza
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E-book224 pagine2 ore

Un segno di speranza

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Info su questo ebook

Questo non è un libro qualunque. Troverai, sfogliando queste pagine, dei codici QR che potrai scansionare con uno smartphone o un tablet, e che ti porteranno ad ascoltare una musica.
Quella musica farà da colonna sonora al brano che starai leggendo in quel momento. Ti aiuterà a vivere una meravigliosa avventura insieme ai nostri protagonisti portandoti in un fantastico viaggio nel mondo di Cosmos.
I brani musicali presenti sono stati composti da Riccardo Mazzoleni.

Tutto ebbe inizio qui: Cosmos. Un piccolo pianeta al centro di un’infinita galassia di stelle abitate, denominato così dall’unica specie che lo governò per lungo tempo: gli Eloi. Diretti discendenti di un antico popolo nomade proveniente da un pianeta chiamato Terra, fin dal principio manifestarono un’attitudine cieca e distruttiva. Cominciarono a credere all’esistenza di un unico Dio, convincendosi che questa divinità avesse donato loro, quali suoi prescelti, il dominio su tutte le altre specie.
In pochi secoli, in virtù di queste convinzioni, attraverso guerre e distruzione anche a danno della propria esistenza su Cosmos, questi annientarono quasi tutte le altre forme di vita esistenti.
Quando ormai sembrava che questa cieca ostinazione avrebbe segnato la fine definitiva della vita su Cosmos, un segno fu rivelato a un abitante della piccola Contea di Pietra d’Acqua: un Eloe particolarmente sensibile e attento alla natura, a cui teneva quasi più della sua stessa vita. Il suo nome era Ifigeney O’Connor.
LinguaItaliano
Data di uscita21 ott 2019
ISBN9788834189528
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    Anteprima del libro

    Un segno di speranza - Silvia Torquati

    Torquati)

    CAPITOLO I

    Mr. O'Connor

    «Camminare e ancora camminare, correre velocemente, frettolosamente, vorticosamente, anelare al raggiungimento di chissà quale prospettiva di vita. Li osservo da tempo ormai, calpestano tutto e tutti, ottusi egoisti! Rabbiosi esseri senza più nulla da trasmettere al prossimo. Cuori di pietra senza più lacrime da versare, aridi e spietati assassini di se stessi. Piccoli nel loro egoismo assoluto, fingono di mostrarsi altruisti con tutto ciò che li circonda, ma che con loro da molto tempo è ormai definitivamente distrutto, morto, calpestato, violentato e assassinato. Si muovono, ma non sono più vivi; parlano, ma le loro labbra pronunciano solo parole di odio; guardano, ma i loro occhi sono ciechi. I loro corpi non emanano più nessun calore; ormai freddi come pietre tombali, si rinchiudono nelle loro misere abitazione fatiscenti, ruderi di antiche e fastose vestigia, un tempo motivo di orgoglio di insigni costruttori.

    Menti vuote che lasciano spazio soltanto a cose futili e prive di senso. Affaccendati nelle loro superflue attività quotidiane, non osservano più ciò che li circonda e che li ha posti in vita per uno scopo più profondo, ciò che gli ha concesso di esistere pur essendo alla fine, all’esaurimento delle forze e delle proprie risorse. Quella Sacra Terra che generosamente ha concesso loro di far parte di questo pianeta morente: Cosmos… la mia casa! Un tempo residenza illustre di milioni di varietà di forme di vita, esseri pronti ad apportare il proprio speciale contributo al quotidiano rinnovamento dell’habitat naturale e al sostentamento di quel fragile equilibrio che ha concesso la sopravvivenza fin dagli albori del pianeta. Fonte ed essenza perfetta della macchina natura che generò la vita; luogo di rara bellezza e rara generosità. Ti osservo ora, intorno a me, sopra di me e sotto di me, desolato luogo deturpato, flagellato, umiliato dall’incuria, dall’imperizia e dalla desolazione più assoluta. Carcassa putrida decomposta! Non so cosa ti tenga ancora in vita, cara Madre mia, cosa tu ti stia ancora aspettando da questo ingrato popolo che ha saputo persino annientare i propri simili, senza mai imparare dai propri errori e mettere la parola fine all’autodistruzione, illudendosi che un’entità superiore li proteggesse dalla propria stupidità. Ora chiedo a te, cara Madre paziente, come potrei mai aiutarti?».

    Mr. O’Connor trascese improvvisamente dai suoi pensieri quando, preso di soprassalto, intravide in un angolo di una vecchia casa abbandonata qualcosa muoversi e lamentarsi, tra i resti polverosi di quella che sarebbe stata una piccola nicchia votiva. Avvicinatosi frettolosamente, notò un cucciolo di animale. Probabilmente della specie dei Felis Cattus, constatò.

    Il piccolo esserino mostrava uno sguardo afflitto da un recente e straziante abbandono e segni inequivocabili di sevizie subite in silenzio. Ancora capace di riconoscere mani umane come amiche, si fece prendere in braccio, sfinito dagli interminabili e inascoltati lamenti.

    Ifigeney lo accolse nel suo mantello caldo e avvolgente e, accostandolo a sé, lo rassicurò con parole appena sussurrate: «Da me, caro piccolo amico, riceverai tutto ciò che da tempo hai invano cercato e saprò essere fedele alle mie promesse, perché tu e io siamo uguali, siamo la vera essenza di questo antico pianeta».

    Riprendendo a camminare verso la sua piccola abitazione sotto una pioggia incessante, ormai al calar della sera, Mr. O’Connor ebbe modo di assistere, seppur per un breve momento, all’ennesima scena di violenza ai danni di un derelitto di origini umane.

    Sicuramente un mendicante affamato e probabilmente ubriaco. Ennesimo reietto di una società dedita all’arricchimento e al profitto personale a discapito di tutto e tutti! pensò fra sé e sé.

    Poi vide che veniva trascinato a terra come un sacco vuoto da un corpulento suo simile.

    Eccoti uomo, malmenato e insultato soltanto per aver messo a nudo quel lato fragile dell’anima che risiede nella coscienza di ognuno quando, venendo a mancare quell’unica fonte di benessere tendente all’arricchimento personale come fine unico e all’esclusivo possesso di superflui beni materiali, si sente perso. Quando per un’intera vita, ottusamente, ha creduto che questa potesse essere l’unica fonte di equilibrio e felicità, pensò fermandosi.

    Con sguardo pietoso, rimase a osservare la scena in disparte.

    Invano il poveretto cercò di reagire.

    Ora, umiliato e impotente, giaci dinanzi al tuo aguzzino. Ti urlerà contro con violenza e non si fermerà e non mostrerà un minimo di pietà, si disse ancora O’Connor.

    L’uomo infatti venne scaraventato in un fosso al margine della strada e successivamente cosparso del contenuto della sua bottiglia di liquore, da tempo subdola e fedele compagna di ferite mai risanate. Poi, in un attimo e senza esitazione, il persecutore gli diede fuoco.

    Scene di ordinaria follia dilagavano ovunque su Cosmos da tempi immemorabili. Un antico retaggio cromosomico del popolo degli umani, provenienti da un pianeta denominato Terra.

    Rassegnato alla cruda realtà che quotidianamente si palesava dinanzi agli occhi di tutti, Mr. O’Connor si rimise in cammino, constatando che da lungo tempo ormai nessuno mostrava più un briciolo di rimorso per gli orrori perpetrati nei confronti dei propri simili, men che meno nei confronti degli altri esseri viventi e della natura. Tutti avevano smesso di chiedersi come fossero arrivati a tutto questo e cosa li avesse spinti fino a quel punto. Involucri vuoti e rassegnati, miseri artefici della loro fine, non sembravano più dotati di una parte pensante.

    Giunto presso la sua antica, piccola dimora in pietra e legno stretta fra rovine di abitazioni in totale stato di decadimento e abbandono, Mr. O’Connor cominciò a risalirne la breve scaletta curva fatta di sassi. Questa, che precedeva un modesto portico, dava accesso alla robusta porta d’entrata recante una misteriosa scrittura intarsiata nel legno, con un’antica grafia in semionciale: "NIGREDO, ALBEDO, RUBEDO". Sui due lati della facciata, invece, due esigue finestrelle quadrate, sbarrate da grate in metallo e scuri robusti, fungevano da cornice. Alle spalle dell’abitazione giacevano i resti di un piccolo orto di erbe officinali in totale stato di abbandono, interamente ricoperto da macerie e rovine di vecchie abitazioni trasformate in polvere da decenni di guerre. Sul tetto, composto da spesse tegole rossastre, spiccava un comignolo in sassi di forma arrotondata che sprigionava un fumo assai insolito, che talvolta assumeva forme curiose di creature dall’aspetto magico.

    Mr. O’Connor, entrando in casa, si diresse immediatamente verso il grande camino in pietra viva, aggettante da una parete che occupava interamente e al cui interno si trovavano griglie in ferro, calderoni di terracotta, mestoli e altri utensili da cucina. La stanza, di forma rettangolare, aveva un aspetto rustico, con colonne e pavimento in legno di rovere. Il soffitto era composto da massicce travi a vista dalle quali pendevano paioli in rame e antichi arnesi per uso rurale.

    Usando l’attizzatoio, Mr. O’Connor ravvivò il fuoco che, seppur ridotto in brace, riprese subito il suo vigore scoppiettando sonoramente. Il tepore che sprigionò quella curiosa fiamma, assumendo una forma di consistenza gassosa a forma di spirale, si diresse amorevolmente verso di lui, avvolgendolo letteralmente in un abbraccio rassicurante di bentornato.

    «Ho! Ho! Ho! Ti ringrazio mio caro amico, ne avevo davvero bisogno» disse rivolgendo uno sguardo di gratitudine verso la fiamma che ardeva vivace.

    Mr. Ifigeney O’Connor era un professore di chimica presso la piccola e ormai decadente università delle Scienze della Cittadina di Benbetulla, situata nella regione della Valle Assopita. Veniva considerato, perlopiù da chiunque lo incontrasse, un visionario pazzo, un illuso con manie da stregone esaltato. La sua grande sensibilità veniva scambiata il più delle volte per debolezza o follia e per questo era tenuto a distanza da tutti gli abitanti della Contea di Pietra d’Acqua, nella piccola valle del Buioburrone, dove risiedeva dalla fanciullezza. Tuttalpiù basso e dalla corporatura robusta, aveva capelli a forma di aureola ormai canuti e radi, che spesso venivano arruffati da un routinario gesto fatto con la mano destra nei momenti di massima concentrazione durante lo studio di quella appassionante materia segreta, oggetto quotidiano dei suoi approfondimenti scientifici. Lunghi e folti basettoni si collegavano alla canuta barba, che contornava rosse e paffute guance. Due profondi e magnetici occhi scuri erano sempre celati da un paio di occhialini a molla stringinaso. Abbigliato in modo semplice, indossava sempre bretelle a baffo terminanti sul davanti con occhielli separati, che andavano ad agganciare due bottoni posti all’interno della cintola dei pantaloni di lana cotta, rattoppati qua e là per il prolungato utilizzo nel tempo.

    Dopo aver scaldato un po’ di brodo di cipolla ed erba Mate, Ifigeney ne versò un po’ per sé in una ciotola di legno, e un altro po’ in un’altra più piccola, nella quale aveva aggiunto un tozzo di pane raffermo per il suo piccolo nuovo amico tremante. Sedutosi sull’accogliente poltrona di legno di cirmolo imbottita di una rossa fibra ramiè posta accanto al grande camino di pietra, cominciò a mangiare il suo pasto caldo osservando con sguardo accuditivo il piccolo animaletto che, intento a sgranocchiare il suo tozzo di pane, goffamente era ruzzolato nella ciotola finendo col simpatico e minuto musetto bicolore nel brodo caldo.

    «Ah! Ah! Ah! Ti chiamerò Brodolo» disse ridendo di gusto.

    Finito il pasto, medicò amorevolmente le ferite del piccolo amico con un preparato erboristico di mucillagine di malva, altea e lino, e subito dopo adagiò l’animaletto in un accogliente cesto accanto al fuoco.

    Dopo averlo rassicurato con una grattatina sotto il muso, si diresse verso la piccola scaletta di legno che conduceva al piano inferiore, al termine della quale si trovava una porta di robusto legno di abete chiusa da numerose cerniere in ferro e pesanti chiavistelli.

    Aprendola, entrò in un’ampia stanza dalla forma insolitamente esagonale e, con la solita metodicità, frettolosamente andò a sedersi alla sua scrivania dall’aspetto assai sinistro: recava infatti, al posto delle gambe, femori umani sormontati da piccoli teschi ingialliti dal tempo.

    Tornò così a immergersi nella lettura di un tomo dall’aspetto alquanto misterioso, formato da innumerevoli pagine finemente decorate e consunte dal tempo.

    Il pavimento sottostante era composto da solidi lastrami in pietra grezza e le pareti erano accuratamente scavate nel tufo. L’aspetto della stanza ricordava un antico monastero religioso terrestre. Era interamente illuminata da candele riposte in piccole lanterne dalle quali colava cera calda e da fiaccole accese e adagiate in grandi porta torcia in ferro battuto. Tre pareti erano occupate da massicci scaffali in legno di quercia, sui quali si trovavano ordinatamente riposti diversi alambicchi contenenti misteriosi liquidi colorati, enormi ampolle di vetro e barattoli accuratamente etichettati con nomi di erbe e piante officinali. Erano ben visibili anche un certo numero di mortai, bilance di diverse misure, pergamene, libri e tomi antichi, tutti visibilmente etichettati e catalogati. All’interno di una nicchia posta su un’altra parete della stanza, si notava l’apertura di un athanor, un grande forno che Ifigeney quotidianamente usava, sperimentandone gli effetti, per la trasformazione di rari e pregiati metalli.

    In realtà, egli da tempo conduceva una doppia vita. In una era il professor O’Connor appunto, quello che tutti conoscevano e che superficialmente consideravano come un eccentrico e schivo insegnante di scienze della piccola Università di Benbetulla; nell’altra, un filosofo particolarmente dedito allo studio di oscure materie arcane, attraverso le quali era giunto alla conoscenza di un’antica materia denominata Alchimia. Esoterico e profondo conoscitore di discipline fisiche, chimiche, metallurgiche, astrologiche e mediche, aveva approntato la sua esistenza alla ricerca costante dell’onniscienza, la massima erudizione nel campo delle scienze. Lo muoveva una devota ostinazione; una costante ricerca volta a evolvere il proprio Io alchemico attraverso lunghe riflessioni e profonde meditazioni. Aveva inoltre sviluppato la convinzione che un giorno tali esperienze extracerebrali lo avrebbero condotto a osservare qualcosa che al momento era ancora estraneo alla sua mente. Un lungo processo attraverso il quale l’inconscio in analogia avrebbe rivestito l’incomprensibile con il già conosciuto. Una transitoria trasmutazione dell’anima che lo avrebbe condotto alla morte della sfera emotiva, quella attaccata ai desideri terreni e al raggiungimento del fine unico della conoscenza assoluta.

    L’ottenimento di questa immensa conoscenza lo avrebbe portato in seguito alla possibilità di realizzare un’oscura panacea, la Pietra Filosofale, una misteriosa pietra che si narrava recasse prodigiosi poteri a chi l’avesse realizzata e della quale, per un’intera vita, Ifigeney aveva ricercato la composizione segreta su libri e manoscritti antichi. Il complicato processo di realizzazione consisteva nell’interazione tra più entità fisiche, spirituali ed energetiche e attraverso trasmutazioni di metalli e sostanze chimiche ottenute mediante l’uso di un forno athanor. Una volta trasformati questi in una finissima polvere dall’aspetto cristallino, un enzima inorganico con capacità vitali, avrebbero avuto il potere di curare qualsiasi malattia, debolezza o bruttura dell’uomo, prolungarne indefinitamente la vita e ricondurla a un’esistenza di pace universale.

    Appartenuto, perlopiù in età giovanile, all’ordine esoterico ambientalista segreto denominato LA LINFA OSCURA, Ifigeney O’Connor dapprincipio sviluppò grande sensibilità ed empatia con tutto ciò che lo circondava. In particolar modo divenne un profondo amante e conoscitore della natura e dell’estrema importanza che questa rivestiva e avrebbe rivestito per l’equilibrio, ormai già così precario e corrotto, dell’ecosistema del pianeta Cosmos. Il rispetto reverenziale che egli sviluppò per la natura crebbe a tal punto che, negli anni successivi, divenne oggetto di costanti critiche e talvolta anche di scherno da parte di chi, al contrario, aveva già cominciato da lunghissimo tempo un’egoistica e indiscriminata opera di deturpazione e devastazione: gli Eloi, il popolo dominatore del pianeta Cosmos.

    Era una razza proveniente da un antico pianeta lontano denominato Terra. Un pianeta annientato da continue guerre e ormai reso inabitabile dall’uso indiscriminato delle sue risorse li vide costretti a un esodo di massa che li portò a raggiungere il primo pianeta dalle caratteristiche più idonee alla loro sopravvivenza. Così, raggiunto Cosmos, in pochi secoli ripeterono i medesimi errori, piegando al loro volere tutti gli altri ignari abitanti, proclamandosi diretti discendenti di un Dio benevolo, autocreato al fine di dominare tutti e nascondere le nefandezze che avrebbero poi perpetrato in suo nome. In seguito, convinti di essere l’unica razza dotata di un’intelligenza superiore a tutte le altre creature viventi, divennero i padroni incontrastati del pianeta. Tutte le forme di vita che componevano l’ecosistema di Cosmos furono destinate a soccombere a questa volontà, in quanto

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