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Non così (Un thriller dell’Agente FBI Ilse Beck—Libro 4)
Non così (Un thriller dell’Agente FBI Ilse Beck—Libro 4)
Non così (Un thriller dell’Agente FBI Ilse Beck—Libro 4)
E-book286 pagine3 ore

Non così (Un thriller dell’Agente FBI Ilse Beck—Libro 4)

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Info su questo ebook

NON COSÌ (Un thriller dell’Agente FBI Ilse Beck) è il libro #4 di una nuova serie dell’autrice di gialli carichi di suspense Ava Strong.

L’agente speciale dell’FBI Ilse Beck, vittima di una traumatica infanzia in Germania, si è trasferita negli Stati Uniti per diventare una rinomata psicologa specializzata in DPTS, oltre a prima esperta mondiale per i traumi derivati dopo essere sopravvissuti a un serial killer. Studiando la psicologia dei sopravvissuti, Ilse ottiene un’esperienza unica e senza confronti nell’analisi della vera psiche dei serial killer. Non aveva idea, però, che sarebbe diventata un’agente dell’FBI.

Quando i pazienti di Ilse vengono ritrovati morti in una serie di suicidi, Ilse indaga, e sospetta che ci sia in ballo qualcosa di molto più nefando. È possibile che il serial killer del suo passato – quello di cui ha più paura – sia tornato?

E se così fosse, sarà Ilse la prossima vittima?

Un thriller criminale oscuro e carico di suspense, la serie di ILSE BECK ti terrà con il fiato sospeso, impedendoti di mettere giù il libro dopo la prima parola. Un mistero stringente e sconcertante, pieno zeppo di svolte e segreti incredibili, ti farà innamorare di questo nuovo e brillante personaggio, scioccandoti al contempo fino all’ultimo.

Saranno presto disponibili altri libri della serie.
LinguaItaliano
EditoreAva Strong
Data di uscita16 giu 2022
ISBN9781094353784
Non così (Un thriller dell’Agente FBI Ilse Beck—Libro 4)

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    Non così (Un thriller dell’Agente FBI Ilse Beck—Libro 4) - Ava Strong

    cover.jpg

    n o n   c o s ì

    (Un thriller di Ilse Beck - Volume 4)

    A v a   S t r o n g

    TRADUZIONE ITALIANA A CURA DI

    ANTONIO CURATOLO

    Ava Strong

    La nuova scrittrice Ava Strong è l’autrice della serie thriller di REMI LAURENT, che comprende sei libri (e altri di prossima uscita), della serie thriller di ILSE BECK, che comprende sette libri (e altri di prossima uscita) e della serie thriller carica di suspense psicologica di STELLA FALL, che comprende sei libri (e altri di prossima uscita).

    Un’avida lettrice e da sempre grande fan dei generi giallo e thriller, Ava ama avere vostre notizie, quindi sentitevi liberi di visitare il sito www.avastrongauthor.com per saperne di più e restare aggiornati.

    Copyright © 2021 di Ava Strong. Tutti i diritti riservati. A eccezione di quanto consentito dall’U.S. Copyright Act del 1976, nessuna parte di questa pubblicazione può essere riprodotta, distribuitao trasmessa in alcuna forma o in alcun modo, o archiviata in un database o in un sistema di raccolta, senza previa autorizzazione dell’autore. Questo ebook è concesso in licenza esclusivamente ad uso ludico personale. Questo ebook non può essere rivenduto né ceduto ad altre persone. Se desidera condividere questo libro con un'altra persona, la preghiamo di acquistare una copia aggiuntiva per ogni beneficiario. Se sta leggendo questo libro e non l’ha acquistato, o non è stato acquistato esclusivamente per il suo personale uso, la preghiamo di restituirlo e di acquistare la sua copia personale. La ringraziamo per il suo rispetto verso il duro lavoro svolto da questo autore. Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, imprese, organizzazioni, luoghi, eventi e incidenti sono il prodotto della fantasia dell’autore o sono usati romanzescamente. Qualsiasi somiglianza con persone reali, vive o morte, è del tutto casuale. Immagine di copertina Copyright zef art, utilizzata sotto licenza da Shutterstock.com.

    LIBRI DI AVA STRONG

    UN THRILLER PSICOLOGICO DI STELLA FALL

    L’ALTRA MOGLIE (Libro #1)

    L’ALTRA BUGIA (Libro #2)

    L’ALTRO SEGRETO (Libro #3)

    L’ALTRA AMANTE (Libro #4)

    UN THRILLER DELL’AGENTE FBI ILSE BECK

    NON COME NOI (Libro #1)

    NON COME SEMBRAVA (Libro #2)

    NON COME IERI (Libro #3)

    NON COSÌ (Libro #4)

    UN THRILLER DI REMI LAURENT

    IL CODICE DELLA MORTE (Libro #1)

    IL CODICE DELL’OMICIDIO (Libro #2)

    IL CODICE DELLA MALVAGITÀ (Libro #3)

    IL CODICE DELLA VENDETTA (Libro #4)

    INDICE

    CAPITOLO UNO

    CAPITOLO DUE

    CAPITOLO TRE

    CAPITOLO QUATTRO

    CAPITOLO CINQUE

    CAPITOLO SEI

    CAPITOLO SETTE

    CAPITOLO OTTO

    CAPITOLO NOVE

    CAPITOLO DIECI

    CAPITOLO UNDICI

    CAPITOLO DODICI

    CAPITOLO TREDICI

    CAPITOLO QUATTORDICI

    CAPITOLO QUINDICI

    CAPITOLO SEDICI

    CAPITOLO DICIASSETTE

    CAPITOLO DICIOTTO

    CAPITOLO DICIANNOVE

    CAPITOLO VENTI

    CAPITOLO VENTUNO

    CAPITOLO VENTIDUE

    CAPITOLO VENTITRÉ

    CAPITOLO VENTIQUATTRO

    CAPITOLO VENTICINQUE

    CAPITOLO VENTISEI

    CAPITOLO VENTISETTE

    CAPITOLO VENTOTTO

    CAPITOLO VENTINOVE

    CAPITOLO TRENTA

    CAPITOLO TRENTUNO

    CAPITOLO UNO

    Ilse entrò nel piccolo edificio grigio, lasciandosi alle spalle il cielo scuro e gli alberi verdi. Quella stessa struttura sembrava una macchia sul paesaggio altrimenti bucolico. Entrò, dalla fredda aria del mattino, in un atrio opprimente e a malapena climatizzato. La porta alle sue spalle ronzò, chiudendosi, e i due agenti di polizia fermi accanto alla fila di metal detector le fecero cenno di posare le sue cose in un Tupperware grigio.

    Cielo grigio. Edificio grigio. Tupperware grigio. Come se ogni cosa stesse complottando per prosciugare la vita stessa dei colori. Le dita di Ilse tremavano mentre toglieva dalla tasca il portafoglio e le chiavi dell’auto a noleggio che aveva preso all’aeroporto.

    Una delle guardie disse qualcosa che lei a stento comprese, e Ilse balbettò una rapida risposta in tedesco. Riusciva a comprendere alla perfezione la lingua della sua infanzia. Dopotutto, una volta era stata la piccola Hilda Mueller. Negli ultimi dieci anni e mezzo, però, aveva vissuto negli Stati Uniti, a Seattle, quindi il suo tedesco era arrugginito.

    Ilse rabbrividì, il suo stomaco si contorse per il terrore, e cominciò a picchiettarsi sul polso con l’altra mano, un promemoria costante delle parole tatuate come un braccialetto sulla sua carne.

    Imprigiona ogni pensiero.

    Ma ora, mentre attraversava il metal detector e sbucava dall’altra parte per recuperare il portafoglio, non era sicura che fosse possibile. Il cervello le stava andando in tilt e il cuore le batteva a un milione di miglia al minuto. Le sue nuovissime credenziali come consulente ufficiale e agente dell’FBI alle prime armi l’avevano condotta fin qui. Ora, però, ci sarebbero voluti forza di volontà e coraggio per avanzare anche solo di un centimetro.

    Rabbrividì ancora, continuando a toccare il pollice con il tatuaggio. Un uomo dal viso giallognolo dietro una cabina munita di vetro antiproiettile le fece cenno di avvicinarsi dai metal detector. Dietro il suo cubicolo, nel corridoio, c’erano file e file di porte.

    Agente Beck? disse l’agente, alzando lo sguardo da un modulo di richiesta sul bancone.

    Ilse sentì la propria gola assumere la consistenza della carta vetrata mentre si avvicinava, e annuì frettolosamente. Sì, sono io.

    È puntuale, osservò la guardia, lanciando un’occhiata all’orologio sopra una caffettiera dal suo lato della parete di vetro. Le 8:15 precise. Non un minuto di più o di meno. Ilse si vantava della puntualità. Ora si tirò le maniche del maglioncino. Preferiva le infradito e i leggings ai completi o alle scarpe da ginnastica, ma era scesa a compromessi, indossando scarpe da tennis e pantaloni neri che erano una via di mezzo tra l’abbigliamento casual e quello professionale. Un normale completo l’avrebbe soltanto fatta sentire vulnerabile. Specialmente qui dentro.

    Per chi è venuta?

    Ilse esitò. Era passato così tanto tempo da quando aveva pronunciato ad alta voce il suo nome a un’altra persona. Da bambina, aveva sempre pensato a lui come a un padre. Un torturatore. Il mostro al piano di sopra. Molti dei suoi ricordi erano infranti, rovinati o tenuti a bada dalle nebbie del tempo. Ora, però, si fece forza. Era venuta fin qui per questa ragione. Per vederlo. Per affrontarlo. Per scoprire per quale motivo le stava inviando quelle cartoline. Era stanca delle provocazioni, stanca di nascondersi. C’era stato qualcun altro al piano di sopra; qualcuno che a malapena ricordava.

    E soprattutto, Ilse era qui per ricevere risposte.

    La sua voce gracchiò, ma riuscì a sputare quell’orribile nome al primo tentativo. Gerald Mueller, disse con decisione.

    A questo, la guardia alzò bruscamente lo sguardo, fissandola attraverso il vetro.

    Ilse ricambiò lo sguardo, sentendo un brivido freddo lungo la schiena.

    Mueller? disse l’agente. Temo che non possa ricevere visite. È in massima sicurezza.

    Per tutta risposta, Ilse tirò fuori il distintivo appena ottenuto e lo fece scivolare sotto la piccola fessura nel vetro.

    L’agente guardò a malapena l’identificativo, e la liquidò con un cenno della mano. Non è questo il punto, disse. Nessuno visita Mueller. È qui da oltre dieci anni. Non riceve visite.

    Ilse non scrollò le spalle, non si mosse di un millimetro. Si sentiva solo fredda, triste e dispiaciuta. Devo parlare con lui.

    Finalmente, la guardia lanciò un’occhiata al distintivo e sospirò, stringendosi nelle spalle.

    Se lo dice lei, disse. "Il BKA {1}ha già approvato la sua richiesta..., fece un cenno verso di lei e il distintivo come per indicare tutto nelle vicinanze di Ilse. Ma come ho detto, massima sicurezza. Non ha accesso alla sala visitatori. Quindi dovrà vederlo nella sua cella."

    Ilse avvertì un sussulto di ansia, ma lo coprì con un cenno del capo e disse: Fa lo stesso. Da che parte?

    In risposta, la guardia fece ronzare la porta sul lato del suo cubicolo, e un cancelletto di metallo cominciò ad aprirsi. Fece un cenno a un altro agente che si trovava a metà del corridoio. L’uomo si avvicinò di corsa, aggrottando la fronte.

    In tedesco, parlando rapidamente (il che rese più difficile comprenderlo), l’agente disse: Una visita per Mueller. Il BKA ha chiamato in anticipo. Pre-approvato.

    Entrambe le guardie si scambiarono occhiate incuriosite ma significative attraverso la parete di vetro, senza però dare troppo nell’occhio. Poi, uno alla volta, si strinsero nelle spalle, e Ilse seguì il secondo uomo nel corridoio, attraverso il cancello scorrevole in metallo. Percorsero il pavimento ben pulito, producendo un rumore inquietante che riecheggiava in quello spazio ordinato e ben pulito con pareti di cemento spoglie e dipinte di bianco. Attraversarono il corridoio fino a raggiungerne un altro, anch’esso bloccato da una porta metallica. Un altro click, un ronzio più prolungato, e la porta si aprì. La guardia davanti a lei non si voltò, ma continuò a marciare nella sua uniforme perfettamente stirata e in ordine. Ilse lo seguiva con le sue scarpe da tennis, i pantaloni e il maglioncino, sentendo ancora freddo nel cuore della vecchia prigione in Germania.

    Erano passati anni. Più di venti dall’ultima volta che l’aveva visto. Era stato trasferito in un paio di prigioni prima che si stabilisse qui.

    Mentre camminava, Ilse sentiva il cuore batterle forte. Le prigioni, però, avevano qualcosa che non la spaventava come spesso facevano con gli altri. Le piaceva la solitudine. Il silenzio. Quattro muri e un letto. C’era qualcosa nell’ordine, nella vita disciplinata, persino nella protezione della prigione che la rendeva… malinconica. Sottovoce, cominciò a utilizzare il trucco della memoria per cercare di rilassarsi. Aveva una sorta di conoscenza enciclopedica dei serial killer, delle vittime e dei loro disturbi mentali. Era stata costretta a studiare tutte quelle informazioni per la sua tesi. Ora, mentre marciava lungo quel corridoio apparentemente infinito, cominciò a ripetere: Disturbo schizotipico di personalità. Disturbo borderline di personalità. Disturbo psicotico. Dahmer. Biondo. Novantaquattro. Diciassette vittime. Ventuno maggio. 

    Non sono ammesse visite. Si domandò se fosse un regalo o una punizione. A Ilse piacevano i suoi clienti; le piaceva aiutarli. Ma se avesse fatto a modo suo, avrebbe preferito ritirarsi in una baita, lontano dalla civiltà, nascosta alla vista. Non era mai uscita con nessuno, nemmeno una volta. Perché mai avrebbe dovuto (o voluto) invitare qualcuno nel caos che era la sua vita?

    La guardia si fermò all’improvviso, a pochi passi davanti a lei. Ci fu un altro lungo ronzio e poi un click. A Ilse ci volle un momento per rendersi conto di essere fiancheggiata, su entrambi i lati, da spesse porte di metallo. Tuttavia, non si trattava di porte con sbarre; piuttosto, era come se qualcuno avesse saldato dei ripiani metallici a un muro di cemento. I prigionieri non potevano vedere fuori, ma nemmeno lei poteva sbirciare all’interno.

    Cinque minuti, disse la guardia, lanciando un’occhiata a Ilse prima di tirare una maniglia di metallo. Nella porta, all’altezza degli occhi, si aprì una fessura, al di sotto della quale si trovava un vassoio metallico, di quelli utilizzati per far scivolare il cibo all’interno della cella. Adesso che la fessura era aperta, era anche possibile intravedere il piccolo spazio interno; probabilmente veniva sfruttata per questo anche dalle guardie di turno.

    La guardia lasciò la fessura aperta e si allontanò. Il cuore di Ilse batteva all’impazzata. La donna deglutì e lanciò un’occhiata alla targhetta accanto alla porta, sul cui elemento scorrevole in acciaio era stato incollato un sottile pezzo di carta. Suo padre era qui da così tanto tempo che aveva persino una cella dedicata a lui. Gerald Mueller. Lo ricordava dalla sua infanzia: un chierichetto carino con un viso largo, capelli biondi e un sorriso tranquillo che nascondeva un’indole malvagia. All’epoca, i vicini non avevano sospettato nulla. Per la maggior parte di loro era stato un brav’uomo, timorato di Dio. Nessuno di loro aveva avuto sospetti sulla reale natura di Gerald Mueller e sulle atrocità che venivano portate avanti in quella casa in fondo alla strada sterrata. Per un attimo, le tremarono le mani. Ilse provò quasi l’istinto di voltarsi e fuggire lungo il corridoio. Voleva davvero essere qui? Dopo tutto questo? Forse stava stuzzicando un vespaio che avrebbe fatto meglio a lasciar perdere...

     Ma no. Era arrivata fino a questo punto.

    "Ehi, Mueller, disse la guardia, battendo la mano contro la porta metallica. La dottoressa Beck è qui per vederti." Per un attimo non ci fu alcun movimento, alcun rumore. Poi, Ilse notò qualcosa. La fessura nella porta le offriva una visuale della parete di fondo, del lavandino metallico e di un gabinetto, ugualmente metallico, imbullonato al cemento, nonché di una branda. Una camera semplice, pietosa. All’improvviso, un uomo scivolò giù dal letto. Indossava un accappatoio grigio.

    Grigio. Grigio. Tutto grigio.

    L’uomo all’interno della cella indossava anche un paio di occhiali. La montatura sembrava fatta di gomma. Sbatté le palpebre dietro le lenti, e Ilse lo fissò, sentendo formarsi un groppo in gola. I loro sguardi si incontrarono.

    Non era sicura di cosa si aspettasse, ma di sicuro non questo.

    CAPITOLO DUE

    Nessun riconoscimento. L’uomo all’interno della cella si grattò il mento in modo singolare. Unì le mani davanti a sé. I suoi capelli biondi ormai erano diventati bianchi; il suo viso largo era scavato. Non si ergeva più dritto e orgoglioso, ma era ricurvo e si muoveva zoppicando un po’. Ilse si domandò se questo suo incedere zoppicante fosse un dono ricevuto in prigione o semplicemente una conseguenza dell’età.

    Era più magro e più basso, più piccolo, di quanto ricordasse. Un uomo pietoso. Un vecchio distrutto. E chiaramente non la riconosceva, a giudicare dall’espressione vuota nei suoi occhi. Salve, disse con voce tremante. Mi scusi, ero occupato.

    Ilse si limitò a fissarlo, con la gola improvvisamente secca. Per un attimo si sentì come se fosse precipitata in un buco nero e non riuscisse a vedere altro che un viso che la guardava. Ricordò la volta in cui suo padre aveva cercato di seppellirla viva. La volta in cui le aveva tagliato l’orecchio. Sussultò, e l’uomo la fissò, inclinando la testa.

    Mi dispiace averla disturbata, disse lei, come un automa, del tutto priva di emozioni.

    L’uomo all’interno della cella si limitò a scrollare le spalle, con le mani ancora conserte davanti a sé. Si sistemò l’accappatoio. Posso aiutarla? 

    Ora fu lei a zittirsi e fissarlo. Poteva aiutarla? Come avrebbe voluto sentirselo dire venticinque anni prima. Aiuto. Ma nessuno l’aveva aiutata. Nessuno aveva saputo. Né i vicini, né altri. Almeno era quello che avevano detto. Ma Ilse ricordava le parole di sua sorella. Heidi, una degli altri bambini imprigionati in quel seminterrato, aveva trovato Ilse a Seattle. Aveva anche cercato di ucciderla. E prima di morire, per prendersi gioco di lei, Heidi aveva accennato a un’altra persona nella casa. Non soltanto il loro padre. Una seconda persona al piano di sopra.

    Ilse ripensò alle cartoline. Alle bamboline di porcellana. A quelle lettere derisorie. Sapeva che doveva trattarsi di suo padre. Di quest’uomo: di questo piccolo, trasandato, rattrappito uomo. Pensandoci, provò un sussulto di pietà. Che strana emozione. La meritava? No, sicuramente no.

    Sì, disse a bassa voce. Il suo aiuto potrebbe essermi utile.

    Benissimo, rispose lui. Di cosa si tratta?

    Parlava in modo pratico, con voce gentile e per nulla scortese. Era come se fosse abituato a ricevere visite di strani dottori che non conosceva. Quella cosa la infastidiva più di tutte. Sembrava non riuscire a capire chi lei fosse. Il suo modo di parlare non era quello dell’uomo nei ricordi di Ilse. Aveva lo stesso viso largo, anche se avvizzito; gli stessi capelli con la riga, anche se bianco-grigi come il suo accappatoio. Aveva anche lo stesso linguaggio leggero. Ma lei ricordava molto più spesso il modo in cui quell’uomo si infuriava. Ricordava la sua rabbia.

    Il che era strano. Perché ora, di fronte a lui, l’unica cosa che provava davvero era pietà. Per un istante, distolse lo sguardo dal viso pallido di quell’uomo; non offriva nulla di nuovo. Non evocava i ricordi orribili che Ilse si era aspettata. Non riportava a galla odio o rabbia. Sembrava semplicemente vecchio, piccolo. Indifeso. Non sembrava avere nulla di suo in quella piccola cella, eccezion fatta per un singolo scaffale con sopra un libro. Ilse non riusciva a distinguerne il titolo da dove si trovava. Poi esitò un po’, fissando ciò che c’era sopra il libro. Una bambolina di legno. Per un attimo rimase ferma a guardarla. Aveva due bottoni al posto degli occhi e fili rossi per capelli, sui quali era stata utilizzata una quantità eccessiva di colla.

    Ricordava quella bambola.

    Ricordava anche la sosta in quel negozio di antiquariato, e suo padre che scendeva dall’auto. Felice, quasi come un bambino. Ansioso di acquistare un altro giocattolo per la sua collezione. E poi, all’improvviso, si ricordò della terza voce. Quella sul sedile anteriore, accanto a suo padre. Per un attimo Ilse rabbrividì, fissando i propri ricordi. La piccola Hilda Mueller, seduta dietro, che aveva implorato di cambiare posto. Suo padre, ansioso di fare acquisti, si era fermato, sembrando pronto a cedere.

    E poi... la terza voce. Puoi prendere una bambola più grande se lasci la mocciosa sul sedile posteriore.

    Che strano ricordo. E, in quel preciso momento, Ilse provò un’ondata di puro terrore. Ma quel terrore, quel ricordo, non erano legati a suo padre. Erano originati dalla terza voce. Un viso grigiastro, proprio come tutti gli altri. Ilse non riusciva a vederlo; le ombre lo avevano avvolto. La figura nei suoi ricordi aveva in mano una sorta di opuscolo che usava per muovere l’aria. Ilse ricordò il modo in cui la propria, piccola mano aveva stretto la cintura di sicurezza. E la paura; la paura selvaggia e inesorabile che l’aveva sopraffatta non era stata opera di suo padre. No: era stata l’altra voce a causarla.

    Gerald, la mocciosa mi sta fissando. La vuoi una bambola grande o no?

    Suo padre l’aveva guardata attraverso lo specchietto retrovisore e aveva aggrottato la fronte. Per un attimo, era quasi sembrato dispiaciuto. Ma poi aveva annuito, agitando quei capelli biondi ben pettinati.

    La sua mano, aveva mormorato la voce. Guarda le sue dita, come le stringe a quella cintura. Non va bene, Gerald. Fa’ qualcosa.

    Ilse aveva sentito il cuore saltarle in gola. Un’altra ondata di paura per quella voce. E poi, con gli occhi ancora colmi di senso di colpa, suo padre si era allungato verso di lei per afferrarle un dito.

    Il ricordo terminava con un lampo di dolore e un grido improvviso.

    E Ilse si ritrovò nuovamente nel corridoio della prigione, intenta a fissare la cella dell’uomo.

    Una seconda persona.

    La ricordava a malapena. Il ricordo stesso ne aveva oscurato il viso, celandolo alla vista. Una rimozione estremamente comune: il subconscio che sceglieva di dimenticare gli aspetti più traumatici di un ricordo. In questo, sorprendentemente, non si trattava di suo padre.

    Ilse sentì la bocca secca mentre fissava la cella. Allungò distrattamente una mano, spostandosi i capelli davanti all’orecchio mutilato. Aveva capelli scuri tagliati corti, al massimo fino alle spalle; li spostò, ma invece di passarli dietro l’orecchio, li

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