Hypnotist (eLit): eLit
Di M.J. Rose
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Info su questo ebook
Emeline Jacobs è convinta di essere la reincarnazione della sorella morta. La sua incredibile rassomiglianza fisica con Solange risveglia in Lucian sentimenti che credeva sopiti. Tuttavia non c'è tempo da perdere. La scia di distruzione continua implacabile, e l'unico modo per arrestarla è che il Metropolitan Museum di New York ceda la sua statua più preziosa: il dio greco Hypnos, custode, secondo la leggenda, di un antico e terribile potere...
M.J. Rose
New York Times bestselling author M.J. Rose grew up in New York City exploring the labyrinthine galleries of the Metropolitan Museum and the dark tunnels and lush gardens of Central Park. She is the author of more than a dozen novels, the founder of the first marketing company for authors, AuthorBuzz.com and cofounder of 1001DarkNights.com She lives in Connecticut. Visit her online at MJRose.com.
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Hypnotist (eLit) - M.J. Rose
CAPITOLO
1
Se dovessi essere chiamato a spiegare, molto
brevemente, il significato del termine Arte, lo definirei
la riproduzione di ciò che i Sensi percepiscono in natura
attraverso il velo dell’anima.
Edgar Allan Poe
Vent’anni prima
Il tempo si prendeva gioco di lui ogni volta che si trovava di fronte al cavalletto.
Ipnotizzato dal ritmo del pennello sulla tela, da un colore che si mescolava all’altro – le due gradazioni che ne creavano una terza, la terza che si dissolveva in una quarta – era ipnoticamente cullato da una sorta di idea fissa, concentrato solo sull’immagine che emergeva sulla tela.
Assorto nella pittura, dimenticava gli obblighi, le lezioni saltate, non si ricordava neppure di mangiare o bere o di guardare l’orologio.
Ecco perché, alle 17:25 di quel venerdì sera, Lucian Glass stava scendendo a perdifiato le scale fetide di urina – diretto al buio binario della metropolitana – quando invece avrebbe già dovuto essere in centro, dove Solange Jacobs lo stava aspettando nel negozio di cornici del padre.
Insieme, avevano in programma di raggiungere a piedi una mostra al Metropolitan Museum, a un isolato di distanza.
Quando raggiunse il negozio, trovò la tapparella abbassata, con il cartello Chiuso affisso alla vetrina, e tuttavia la porta principale non era chiusa a chiave.
All’interno le luci erano tutte spente, ma grazie a quella del tramonto che filtrava dalla vetrina, Lucian si rese conto che Solange non era in negozio.
Entrando, vide soltanto decine e decine di cornici vuote appese alle pareti giallognole, sistemate una vicina all’altra, in attesa di una tela che le completasse, come un’anima gemella.
Mentre si affrettava a raggiungere il laboratorio sul retro, l’odore di colla misto a quello di segatura si fecero più intensi.
La chiamò insistentemente ma, a parte la propria voce, non udiva altro che il silenzio.
«Solange?»
Fermandosi sulla soglia, si guardò attorno solo per vedere altre cornici vuote.
Lei dov’era? E nel caso se ne fosse andata, perché aveva lasciato aperta la porta del negozio?
Solange era una persona troppo scrupolosa, non avrebbe mai fatto una cosa simile senza una valida ragione.
Superata la soglia del laboratorio, Lucian si guardò attorno e finalmente la vide.
Solange era stesa sul pavimento, accasciata contro un’ampia cornice, le braccia insanguinate, una natura morta colta in un istante di terrore.
Aveva dei tagli in faccia e sulle mani, e sotto di lei si allargava una pozza di sangue.
Sgomento, lui s’inginocchiò e le tastò la spalla. «Solange?»
Lei lo fissò con un sorriso spettrale.
Mentre lui pensava a cosa dovesse fare per prima cosa – aiutarla o chiamare subito il pronto intervento – lei aprì gli occhi e si portò la mano alla guancia, sporcandosi di sangue i polpastrelli.
«Promettimi che non mi dipingerai così...» mormorò in tono straziato.
A quel punto richiuse gli occhi e Lucian appoggiò la testa sul suo petto.
Non udiva alcun battito cardiaco.
Terrorizzato, mise la bocca su quella di lei, imitando spasmodicamente quel che aveva visto fare nei film, senza sapere se agiva nella maniera corretta.
Mentre cercava di rianimare Solange, sentì una breve ma intensa raffica di vento.
Lui era alto ma gracile... un semplice ragazzino smunto che studiava da pittore.
Non sapeva come difendersi, non sapeva come deviare il coltello che si abbatté di colpo su di lui, lacerandogli la camicia, la carne e i muscoli.
Una stoccata dopo l’altra.
Sforzandosi d’ignorare il dolore lancinante e di mantenere la concentrazione, cercò di memorizzare i colori di tutto ciò che lo circondava: la manica della camicia del suo aggressore era ocra, la pelle di Solange era bianca come l’alabastro... e lui stava andando alla deriva in un’oscurità nera come un pozzo senza fondo.
A quel punto si udirono delle voci, lontane e indistinte.
Lui cercò di afferrare cosa stavano dicendo.
«... cospicua perdita di sangue...»
«... molteplici ferite di coltello...»
Le parole si facevano sempre più flebili, e distanti.
Quelle persone lo stavano forse lasciando lì da solo? Non si rendevano conto che era ferito?
No, non lo stavano abbandonando... Lo stavano sollevando. Spostando.
Ma dove?
Dove lo portavano?
Sentì l’aria fresca sul viso. Udì il rumore del traffico.
Le voci si fecero più chiare.
«... non rilevo alcuna pulsazione...»
«Lo stiamo perdendo... presto, presto! Lo stiamo perdendo...»
La distanza fra lui e le voci aumentava ogni secondo di più.
Le parole divennero dei semplici mormorii, deboli e indistinti, impalpabili come una ciocca di capelli di Solange.
«Troppo tardi... se n’è andato.»
L’ultima cosa che udì fu un paramedico dire all’altro che erano le 18.59.
Lui sprofondò nel silenzio, e quell’assenza di suono gli pervase l’animo concedendogli, finalmente, una tregua dal dolore.
CAPITOLO
2
Oggi
Nella sede della delegazione iraniana presso le Nazioni Unite, situata in un edificio fra la Quarantesima Strada e la Terza Avenue a New York, l’atmosfera era tesa.
Ali Samimi e il suo capo Farid Taghinia, assistiti dall’avvocato Vartan Reza, erano impegnati in una telefonata con il ministro della cultura iraniano.
Hicham Nassir parlava al viva voce da Teheran, ma il suo disappunto era palpabile quasi l’uomo fosse stato nella stessa stanza con gli altri tre uomini.
«Com’è possibile che i responsabili del Metropolitan Museum stiano ancora tergiversando? Non hanno visto i documenti? Non hanno visto con i loro occhi la certificazione che attesta il furto della scultura?»
«Non ho ancora mostrato loro i documenti» disse Vartan Reza, un avvocato americano di origine iraniana, assunto due anni prima dalla delegazione per recuperare una scultura portata via illegalmente dall’Iran più di un secolo prima.
«Non ha ancora mostrato i documenti?» domandò Taghinia all’altro capo del tavolo da conferenze, sfilandosi di bocca il sigaro cubano con cui stava intossicando il povero Samimi, suo sottoposto ed eterno capro espiatorio.
«Nutro dei dubbi sulla loro autenticità» rispose Reza. «E non voglio consegnare all’avvocato del Metropolitan Museum delle carte che potrebbero rivelarsi per noi imbarazzanti. Finendo così per danneggiare la nostra causa.»
«Dubbi?» domandò Taghinia, tamburellando nervosamente con le dita sul tavolo. «Il nostro governo sta perdendo la pazienza, come può confermare il nostro ministro della cultura.»
All’altro capo del filo, Hicham Nassir tacque, apparentemente in attesa di udire il seguito dell’animata discussione.
«Se agissi frettolosamente andrei contro i vostri interessi» si schermì l’avvocato. «La questione è delicata e dev’essere valutata in tutte le sue sfaccettature. Spero che almeno vi rendiate conto di questo.»
Taghinia lanciò un’occhiata di brace a Samimi, che soffocò un brivido improvviso. «Tu eri al corrente di tutto questo?» domandò al suo sottoposto, fulminandolo con lo sguardo.
«Non m’importa se Samimi era al corrente o meno» intervenne il ministro della cultura al viva voce. «Quali sarebbero i dubbi che nutre sui documenti, avvocato Reza?»
«Non credo siano autentici» rispose il legale.
«Che cosa?» esclamò Taghinia, livido di rabbia.
Samimi era sempre più impaurito: senz’altro il suo capo avrebbe ritenuto lui responsabile di tutto, e gliel’avrebbe fatta pagare.
E, conoscendolo, avrebbe fatto in modo che anche la sua famiglia rimasta in Iran finisse per soffrirne.
«Mi dispiace contraddirla, avvocato Reza, ma è impossibile che siano falsi» tornò a parlare il ministro Nassir. «Deve aver preso un abbaglio.»
«I documenti sono datati 1885» ribatté l’avvocato, «ma secondo gli esperti che li hanno esaminati, la carta su cui sono scritti è stata prodotta nel 1910. A meno che chi li ha scritti non avesse il potere di viaggiare nel futuro, quei documenti sono evidentemente falsi.»
«Ma... la statua...» balbettò il ministro Nassir, incredulo.
«Sui documenti non viene mai citata la statua cui lei accenna, ministro Nassir» continuò implacabile Reza. «E dal momento che i documenti sono risultati falsi, è chiaro che non abbiamo in mano nulla che vi permetta di reclamare la statua come vostra.»
La statua al centro delle mire iranianie era una scultura criselefantina di Hypnos, il dio greco del sonno, un manufatto alto due metri e mezzo in oro e avorio, che né Samimi né nessun altro presente a quella telefonata aveva mai visto di persona.
Secondo gli storici dell’arte, alcune delle più pregiate sculture criselefantine dell’antichità provenivano dalla città di Delfi, situata alle pendici del monte Parnaso, che era stata saccheggiata dai Peucezi a metà del quarto secolo a.C.
I Peucezi, un’antica popolazione italica, avevano venduto alcuni manufatti pregiati per procurarsi i fondi per sovvenzionare le truppe, o in alternativa li avevano fusi per coniare monete.
Secondo alcune leggende, un satrapo o sovrano persiano a Shush, l’antica Susa, aveva acquistato la statua di Hypnos quando i Peucezi avevano raggiunto l’Oriente, e in un periodo successivo la statua di Hypnos era stata sepolta sotto terra.
Probabilmente – data la quantità di oro, avorio e pietre preziose che la ornavano – era stata nascosta durante un attacco per salvarla dalle grinfie di altri saccheggiatori, o forse era stata nuovamente nascosta dal ladro stesso.
Nessuno conosceva con certezza le rocambolesche peripezie della statua di Hypnos, ma era sopravvissuta praticamente intatta fino agli anni Ottanta dell’Ottocento.
«E il trattato?» domandò il ministro Nassir.
Samimi aveva consegnato all’avvocato Reza anche una copia di un trattato stipulato il 12 aprile 1885, un accordo che garantiva alla Francia il diritto esclusivo di scavare nell’area di Shush, che sorgeva sull’antico sito della città di Susa.
«Il trattato è autentico» disse Reza, «ma finché non conosceremo con certezza il periodo del ritrovamento di Hypnos, ma soltanto la sua data di spedizione in Francia, è inutile.»
«La statua fu scoperta prima di aprile. E Frederick L. Lennox, un collezionista americano, l’acquistò assieme ad altre opere d’arte trafugate» insistette Taghinia.
Si volse a guardare Samimi, quindi esalò altro fumo tossico dal sigaro.
Samimi sapeva di non poter essere considerato il responsabile di quel disguido, ma Taghinia aveva bisogno di qualcuno su cui sfogare la propria rabbia come faceva ormai da un anno e mezzo, sin da quando l’aveva chiamato a lavorare con lui.
A parte Reza, Samimi era quello che conosceva più approfonditamente la storia della statua di Hypnos.
Il collezionista americano che aveva acquistato la scultura era morto nel 1888, lasciandola al Metropolitan Museum di New York assieme al resto della sua vasta collezione di opere d’arte.
La statua era rimasta in una cassa nel seminterrato del museo sino al 2007, quando era stata scoperta da un curatore che cercava un bronzo romano. Qualche mese più tardi, il Metropolitan aveva annunciato che la statua di Hypnos sarebbe stata il pezzo forte della nuova ala islamica, la cui apertura era prevista per il 2011.
Cinque mesi dopo quell’annuncio, l’avvocato Vartan Reza era stato incaricato dal governo iraniano di richiedere formalmente al museo la restituzione della statua di Hypnos, sostenendo che era stata portata illegalmente fuori dal paese da un archeologo francese di nome Serge Fouquelle.
A quel punto, era entrato in gioco anche il governo greco, affermando a sua volta che – nonostante fosse stata ritrovata in Medio Oriente – la statua era chiaramente di origine ellenica e che quindi dovesse essere restituita ad Atene.
Il Metropolitan Museum, ovviamente, aveva fatto orecchie da mercante, e il governo iraniano aveva sperato che i documenti in suo possesso potessero risolvere la controversia a favore di Teheran.
E invece, a quanto diceva l’avvocato Reza, quei documenti erano falsi e, come tali, carta straccia.
«Avvocato Reza» disse il ministro Nassir al telefono, «questo tiramolla con il Metropolitan è andato avanti per troppo tempo e il nostro governo non è più disposto ad attendere. È chiaro che qualcuno sta cercando di metterci i bastoni fra le ruote, ed è alquanto probabile che quel qualcuno abbia sostituito ai documenti autentici quelli falsi che sono stati consegnati a lei. Li restituisca al signor Samimi, e sarà lui a occuparsi di andare al fondo della vicenda e di recuperare la documentazione autentica. Ha sentito, Samimi?»
«Sì, ministro» ribatté l’uomo raddrizzandosi sulla sedia, quasi il suo interlocutore non fosse al telefono ma potesse vederlo.
«Ora, signor Samimi, accompagni fuori l’avvocato Reza. Il signor Taghinia e io dobbiamo discutere di altre questioni che non riguardano la statua di Hypnos. E che non riguardano lei.»
CAPITOLO
3
Dopo aver salutato l’avvocato Reza e averlo rassicurato che, nonostante i modi bruschi, il ministro Nassir aveva apprezzato il suo lavoro di consulenza legale, Samimi tornò in sala conferenze senza domandarsi cosa fosse stato discusso in sua assenza.
L’avrebbe scoperto più tardi, ascoltando il registratore che aveva piazzato di nascosto nella sala a insaputa del suo capo, l’odiato Taghinia.
Come gli aveva insegnato suo nonno, l’unico modo per giocare con i lupi era diventare lupo a propria volta.
E quanto a Taghinia, la parola lupo era un eufemismo.
Sin dal primo momento in cui l’aveva visto, Samimi aveva intuito di non potersi fidare di quell’uomo con i denti gialli di tabacco e che cercava sempre di umiliarlo.
A differenza di lui, Taghinia odiava New York e diceva sempre di agognare il momento in cui l’Islam avrebbe trionfato sull’Occidente.
E con ogni mezzo.
Ogni volta che lo ascoltava sproloquiare a quella maniera, Samimi ricordava la sua amata Laurie, un’ex fidanzata che aveva contribuito a fargli apprezzare le bellezze di New York e a rivedere alcuni suoi preconcetti sui costumi occidentali.
Laurie Yardley... che tante mattine lui aveva lasciato nuda nel suo letto, prima di raggiungere la delegazione con il desiderio di lei non ancora sopito.
Era stato triste separarsi per sempre da lei, quando si era dovuta trasferire in Europa per inseguire la sua carriera. Gli aveva insegnato moltissimo, quando lui era soltanto un giovane inesperto approdato a New York che non sapeva nulla del mondo, e che riteneva l’Occidente la causa di tutti i mali.
Quando Samimi sentiva Taghinia predicare come un fanatico religioso l’integrità dei costumi, ribolliva di rabbia.
Soprattutto perché Taghinia era ben lungi dall’essere integerrimo.
«Faccia in modo che il signor Samimi si occupi di prelevare quei tappeti persiani di cui parlavamo in sua assenza» disse il ministro Nassir, mentre Samimi si sedeva al tavolo da conferenze.
«Sarà fatto» disse Taghinia. Il ministro riattaccò, e Taghinia si rivolse a Samimi. «Hai sentito Nassir?»
«Sì, ma a quali tappeti alludeva...»
«Ma quali tappeti e tappeti, idiota! Possibile che tu sia così ottuso?»
«Parlava forse in codice?» domandò Samimi, facendo come sempre il finto tonto e sperando che, come sempre, l’arrogante Taghinia ci cascasse in pieno.
«Ovvio che era un codice. Si riferiva alla statua di Hypnos, il ministro vuole che tu la recuperi di persona dal Metropolitan Museum.»
«Che cosa?» esclamò Samimi sgranando gli occhi. «Ma se ne sta già occupando l’avvocato Reza, non...»
«Abbiamo adito le vie legali e, come hai visto anche tu, si sono rivelate inutili. Ora è tempo di adottare misure più drastiche. Tu sottrarrai la statua di Hypnos dal museo. Così vuole il ministro Nassir.»
Samimi era sbalordito. «Ma stiamo parlando di una statua alta due metri e mezzo, e il Metropolitan è rigorosamente sorvegliato. Del tutto inespugnabile. Come credi che possa portar via la statua? Con un tappeto magico?»
«La tua amicizia con Deborah Mitchell dovrebbe aiutarti. Non è stato certo per favorire gli accordi diplomatici fra Iran e Stati Uniti che ti abbiamo messo in condizione di conoscerla.»
Deborah Mitchell era la curatrice del dipartimento islamico del museo, e negli ultimi otto mesi, aveva lavorato a stretto contatto con Samimi.
Per mano di Taghinia, lui le aveva consegnato delle piccole opere d’arte donate al museo da un facoltoso iraniano che preferiva restare anonimo.
Samimi non aveva immaginato che tutto ciò fosse parte di un piano prestabilito per metterlo in contatto con Deborah Mitchell.
A quanto pare, aveva sottovalutato Taghinia.
«Quello che mi proponi, Farid» disse Samimi al suo capo, che lo fissava con aria subdola, «non è fattibile. Neanche un’opera d’arte come la statua di Hypnos può valere un tale rischio.»
«La statua di Hypnos non è una semplice opera d’arte. Nel rintracciarne la storia il ministro Nassir ha scoperto che quel manufatto potrebbe essere la chiave per accedere ai meandri segreti dell’inconscio e alla chiaroveggenza. A sentire il ministro Nassir, quella statua racchiude un potere incommensurabile in grado di rendere invincibile chiunque riesca a scoprirne i segreti.»
«Non crederai a tali superstizioni, Farid» disse Samimi, in tono incredulo e insieme sprezzante.
Taghinia lo fulminò con un’occhiata.
«Risparmia i tuoi commenti sciocchi per occasioni più appropriate. Il ministro ha ragione di sostenere che quella statua possa racchiudere un potere arcano, e dopo aver ascoltato quanto mi ha detto, ne sono convinto anch’io. Hypnos e i suoi segreti sono nostri di diritto, e li rivogliamo indietro.»
Con un sinistro balenio degli occhi ardenti come l’estremità del suo sigaro, Taghinia fissò intensamente Samimi, raggelandolo sin nel profondo del suo essere.
Quindi aggiunse: «E sarai tu a recuperarla e a riportarla nelle nostre mani. Costi quello che costi».
Samimi non poté fare altro che annuire.
Quell’uomo credeva di tenerlo in pugno, ma prima o poi lui gli avrebbe fatto vedere che aveva commesso un grave errore a sottovalutarlo.
Sperava solo che, fino a quel momento, Taghinia non lo costringesse a un gesto di cui si sarebbe pentito per tutta la vita.
CAPITOLO
4
Le virtù che acquisiamo, che si sviluppano lentamente
dentro di noi, sono i fili invisibili che legano una delle
nostre tante esistenze alle altre – esistenze che solo lo
spirito ricorda, perché la Materia non ha memoria per le
cose dello spirito.
Honoré de Balzac
Si trovava in quella città da sei giorni, ma ne aveva già visto abbastanza da disprezzarla.
Vienna gli pareva stanca, quasi il fardello dei suoi segreti gravasse sui suoi abitanti con un peso impossibile da scrollarsi di dosso, e che per loro fosse troppo da sopportare.
O forse a lui non piaceva Vienna perché in quella città aveva fallito.
Era venuto nella capitale austriaca ad arrestare il dottor Malachai Samuels, accusato di aver rubato delle antiche pietre preziose da uno scavo archeologico a Roma l’anno precedente.
Autorevole studioso delle tematiche relative alla reincarnazione nonché illusionista dilettante, Samuels aveva fatto scomparire