Stazione Diadema
Di Massimo Citi
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Fantascienza - romanzo breve (54 pagine) - Diadema cresce anarchica in orbita intorno alla Terra, devastata da virus imprigionati da milioni d’anni nel ghiaccio e liberati dal riscaldamento globale
Quando Lundberg riprende i sensi dopo il suo incidente nello spazio, scopre di trovarsi sulla SSP Diadema, gigantesca stazione orbitale della quale ignorava totalmente l’esistenza, come la maggior parte dei terrestri. Sul pianeta però l’attenzione non è certo rivolta allo spazio: l’innalzamento della temperatura ha liberato dai ghiacci siberiani organismi mutageni che hanno intaccato il processo di meiosi cellulare, provocando mutazioni profonde del DNA. Una terrificante pandemia ha sterminato una parte importante dell’umanità. Ma sulla stazione Diadema è nata una nuova società di mutanti, esseri rifiutati dalle nazioni terrestri che hanno trovato nello spazio una ragione di vita. Diadema è stata praticamente dimenticata in orbita dopo la catastrofe, e da allora si è accresciuta con altro materiale di recupero, e soprattutto accogliendo chi viene rifiutato sulla Terra. Purtroppo non tutti ignorano la sua esistenza: di tanto in tanto, le difese di Diadema intercettano un missile sparato da qualche organizzazione che vuole preservare la purezza del DNA umano. E come se non bastasse, tra i suoi abitanti adesso c’è chi rema contro; se Lundberg non si affretta a individuarlo, provocherà danni più seri di un foro di proiettile in una tuta spaziale.
Catastrofe climatica, space economy, regole, morale, etica in un romanzo breve di Massimo Citi.
Massimo Citi è nato a Brescia ma vive a Torino dove da oltre quarant'anni fa il libraio (attività cessata nel 2012) e l'editore, con la casa editrice CS_libri. Come autore ha pubblicato numerosi racconti e romanzi, e nel 2002 ha vinto il Premio Omelas, dedicato a racconti di fantascienza sui diritti umani. Ha curato numerose antologie, in particolare la serie Alia, dedicata alla fantascienza italiana e internazionale. Scrive sul blog Fronte e retro.
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Anteprima del libro
Stazione Diadema - Massimo Citi
1
La stella.
La stella rossa.
Come brilla… Dev’essere vicina.
…
La stella dell’addio. L’ultima cosa che ha visto, da vivo.
Apre gli occhi. Sopra di lui un soffitto in legno chiaro, ineguale e macchiato, con alcuni listelli che minacciano di cadere da un momento all’altro. È sdraiato, senza casco e senza tuta.
– Ehilà, salve. Come va?
La voce viene dalla sua destra: una voce maschile.
– Puoi girarti, se vuoi. Non ti si stacca mica la testa.
Ubbidisce, come avesse ricevuto un ordine. L’uomo non si potrebbe definire giovane, sorride a mezza bocca ed è vestito con una giubba che arriva a metà coscia, con un panciotto consumato dotato di una dozzina di tasche e taschine. Ma a colpirlo è il bizzarro copricapo dell’uomo: «un tricorno», ammette il suo cervello, prima ancora che lui decida di prendere in considerazione l’idea.
– Chi sei… – mormora.
– No, questa non è la domanda giusta – l’uomo si china sorridendo e così mostrando più che qualche lacuna nella dentatura. – la domanda giusta è: «Dove mi trovo?» Comunque ti accontento ugualmente, milord, io sono Benjamin Hooter Trout esq., nostromo della comandante della Stazione Spaziale Perduta. SSP, come la chiamiamo noi. – Si inchina – Al vostro servizio, maggiore Lundberg.
L’uomo si esprime in uno strano inglese, che capisce agevolmente, anche se l’accento ha qualcosa di curiosamente datato. – Ma come fa a sapere…
– Il suo nome e grado? Semplice: è scritto all’interno del suo casco. Abbiamo dovuto toglierlo per farla respirare. Non aveva più nulla da respirare… Ma immagino lo sappia.
– Dove mi trovo?
– Ecco, finalmente. Allora: si trova a bordo della SSP Diadema, esattamente nella trentaduesima sezione, adibita al recupero dei naufraghi, oltre a essere il mio studio, la mia bottiglieria, il deposito degli oggetti-che-nessun-altro-vuole e la mia garçonnière.
Lundberg annuisce e tace. Non è all’altro mondo, evidentemente, anche se non avrebbe scommesso un centesimo sulle possibilità di essere recuperato.
– Puoi alzarti, volendo.
Lundberg si alza a sedere con cautela e ruota fino ad avere le gambe giù dalla lettiga. Che non è una lettiga, se ne accorge soltanto ora, ma un sofà foderato in velluto piuttosto consumato. Rosso.
– Ti piace il mio sofà? In genere lo uso per dare un po’ di riposo alla mia terza gamba. – Solleva la giacca, scoprendo il ginocchio, in apparenza costituito di cinghie di cuoio e lingue di metallo – Vedi? Ho lasciato la mia seconda gamba fuori dalla Stazione, tanto tempo fa. Durante una missione extra-veicolare. Un frammento di un accidenti di satellite mi ha tagliato la gamba subito sopra il ginocchio. Ah, è questo il motivo per il quale mi sentirai chiamare Terzagamba Trout.
– Capisco – borbotta Lundberg. Decide di non muoversi e lentamente si guarda intorno, prendendo in esame ogni elemento dell’ambiente: l’ex-ginocchio di Trout, gli alamari che decorano la sua giacca, il soffitto di legno, le pareti coperte di un muschio verde scuro, le due porte aperte e quella chiusa, ognuna fatta di materiali diversi: metallo, ma anche legno, cristallo, vetro, plastica, cartone e chissà cos’altro.
– Non male, vero? A me piacciono gli ambienti promiscui… È giusto dire promiscui?
– No… non credo. Ma mi piacerebbe vedere il resto della Stazione. Si trova nello spazio, vero?
– Cribbio! E dove vuoi che si trovi? E come avremmo fatto a recuperarti? Ma… Ecco, sta arrivando quello che ti ha trovato. Non stupirti, mi raccomando, è un tipo un po’ strano ma è una brava creatura.
Lundberg approva educatamente: più strano di Terzagamba Trout? Difficile a credersi.
Non deve attendere a lungo. La terza porta, quella finora chiusa, scivola leggera sui cardini, lasciando intravedere, alle spalle della creatura che sta entrando, una parete curva di vetro illuminato lateralmente dalla luce del sole.
– Ehilà, Terzagamba, come butta? – Si volta verso il cosmonauta, impalato per la sorpresa sul sofà: – E tu, Lund… Lund… Lundwall? Come ti senti?
– Lundberg, Lundberg, grazie. Discretamente, direi.
La creatura è alta poco più di due metri, infatti ha dovuto chinarsi non poco per riuscire a entrare, ed è una donna, in apparenza, con una silhouette probabilmente in grado di suscitare desideri erotici incontrollati in una cavalletta o in una giraffa. È maledettamente magra, tanto da provocare un’ansia indefinita in coloro che la guardano: le braccia sottili come bacchette e le gambe magre come un cartoon. Indossa un ampio mantello aperto, che continua sulla testa in un cappuccio aderente che ne disegna con precisione il profilo del cranio.
– Molto bene, allora. Onestamente non avrei sperato nella tua sopravvivenza. Andavi a spasso nel vuoto, girando come una trottolina, senza respirare. Ero convinta di recuperare un cadavere, invece… Ah, mi dispiace, fratello. Non posso togliere la maschera, è quella che mi permette di vedere, sentire, annusare e parlare.
Lundberg fa un cenno del capo, come a dire «Non importa». La maschera è una sorta di schermo nero ovale, delimitato dagli orli del cappuccio scuro, dove si muovono a diverse velocità una serie di luminose linee multicolori.
–