Lost Tales: Andromeda n°3 - Estate 2019
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Info su questo ebook
Saggi e interviste
- Intervista ad Antonello Silverini – Nick Parisi.
- Barrington Bayley, il vero selvaggio della SF – Silvia Treves e Massimo Citi.
- Le pioniere della fantascienza italiana – Tea C. Blanc.
- Scrivere fantascienza bene oggi: un manuale per arrivarci insieme – Giulia Abbate e Franco Ricciardiello.
- Weird Tales: quando il modernismo incontra la fantascienza – Zeno Saracino
- Barattolo di latta – Pietro Gallina.
- Che cosa ci salvò dall’invasione – Piero Schiavo Campo.
- Un racconto apocrifo di Mark Twain – Piero Schiavo Campo.
- Il libro – Ezio Amadini.
- La terra non dimentica – Laura Silvestri.
- Lontano nell’universo – Giovanni Mongini.
- Palto Bagho – Caterina Mortillaro.
- Vita Eterna – Davide Del Popolo Riolo.
- L’esca – Pietro Rotelli.
- Prima del primo uomo sulla Luna – Fabrizio Farina.
Leggi altro di Franco Ricciardiello
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Anteprima del libro
Lost Tales - Franco Ricciardiello
2019.
PREFAZIONE
È un torrido giorno di un torrida estate, non un filo di vento si muove nella città semi deserta. Eppure, come accade il giorno prima di ogni uscita di Lost Tales, mi trovo a scrivere questa presentazione con brividi di trepidazione. Questo progetto è ormai al suo terzo numero con Letterelettriche e al quinto se si considera la sua precedente incarnazione. L’impegno necessario per creare quel che stringete tra le mani è davvero ingente ed è sempre una scommessa che facciamo col pubblico, con voi. Sì, perché è intorno a voi che gira tutta questa nostra piccola galassia. È negli spazi siderali della vostra immaginazione che speriamo di spedire le nostre astronavi; vostri sono i portali che ci proiettano a distanze impossibili e spingiamo sempre i nostri motori al massimo perché altrimenti sarete voi a spedirci nell’oblio di un buco nero a cui nemmeno la luce può sfuggire (figuriamoci la luminescenza digitale).
Questo numero è particolarmente corposo e molti sono i racconti provenienti dai più disparati angoli del nostro paese (pianifichiamo di aumentare ulteriormente la portata della nostra rete nel prossimo futuro, ma non vogliamo fare spoiler per ora). Per ogni racconto è stata illustrata una tavola nello stile onirico ed evocativo di Andromeda e speriamo che le apprezzerete quanto noi. E poi ci sono i saggi, che sono parte della tradizione del nostro pulp magazine e che non sono solo un corredo ai racconti, nelle nostre intenzioni, ma uno dei cardini sui quali ruota la nostra operazione: il desiderio di tramandare il passato del genere ai posteri e costruire un fulgido futuro partendo da esso.
Voi potreste dire: non avete citato alcun titolo o autore, come sperate di poterci introdurre alla lettura?
La risposta, amici, è semplice quanto immediata: vi siete buttati nel vuoto, senza paracadute, senza reti, senza sicurezze. Godetevi le vertigini e l’adrenalina dell’inconsapevolezza... ne varrà la pena.
Vittorio Cirino
Intervista ad Antonello Silverini
a cura di Nick Parisi
Benvenuto su Andromeda è un piacere averla ospite! Ci racconta qualcosa di lei, dei suoi inizi come illustratore? E delle sue influenze?
Grazie a voi per l’ospitalità! Allora, il mio percorso professionale inizia a metà degli anni novanta, per molto tempo ho fatto lo storyboard artist nelle agenzie di pubblicità, poi ho avuto l’urgenza sempre maggiore di essere indipendente e autoriale in quello che facevo e mi sono dedicato totalmente all’editoria. Ho iniziato a collaborare con i quotidiani e in un secondo tempo sono arrivate anche le collaborazioni con le case editrici. Riguardo alle influenze sono davvero molte e di diverso genere. Io vengo da un approccio per così dire classico e il mio riferimento principale è sempre stata la pittura. Ho amato moltissimo anche il fumetto cosiddetto d’autore, quello che ha espresso il massimo delle sue eccellenze intorno agli anni ’60/’70 e sono ancora molto legato ad artisti come Alberto Breccia e Dino Battaglia… ma le mie influenze sono anche musicali e soprattutto cinematografiche. Diciamo che quello che mi ha meno influenzato è l’illustrazione.
Antonello Silverini
Osservando i suoi lavori mi sembra di notare due temi principali, da un lato lei mette al centro (il primo tassello diciamo) una sorta di ritorno all’immagine classica, ed in questo ci vedo un amore per la tradizione lontana da tutti i tipi di sperimentalismo e di falso modernismo. Una volta fatto questo, lei però in un secondo momento si diverte a distorcere e a scomporre quella stessa immagine di partenza inserendoci tutta una serie di sfocature e alterazioni varie, quasi come se volesse descrivere una sorta di distorsione della quotidianità verso altre dimensioni, un irrompere del fantastico e del grottesco nelle nostre vite. Le mie sono analisi corrette? Nel caso da dove deriva il suo interesse per queste tematiche?
È un’analisi corretta. Quando si parla di stile si parla di linguaggio. È un linguaggio veicolato dall’immagine, ovviamente, ma è sempre espresso attraverso una sorta di grammatica dei segni. Il mio intento è sempre stato quello di sdoganare l’illustrazione dal mero corollario didascalico per portarla, attraverso un linguaggio iconografico alto
, ad essere nuovamente significato e significante, senza quella separazione semiologica che ne determinava (nel migliore dei casi) un ruolo di arte secondaria. Il lavoro di un illustratore è sempre legato al testo e la narrazione diventa la chiave espressiva, anche quando, come nel mio caso, si vuole operare una vera e propria riscrittura del testo. È inevitabile dunque scomporre e distorcere il quotidiano, per restituirne una più profonda lettura. La sintesi lirica è forse la definizione che meglio descrive questa operazione.
Tra le tante altre cose da lei realizzate, cito (per attinenza alle materie trattate da Andromeda) le illustrazioni per le cover dei romanzi di Philip K. Dick per la Fanucci ed in seguito anche di quelli di Doris Lessing. Quali sono state le maggiori sfide e le più importanti soddisfazioni venute da questi lavori? Posso inoltre chiederle qual è il suo rapporto con la fantascienza ed il fantastico scritti e visivi?
Il lavoro fatto per le copertine di Philip K. Dick ha segnato per me una tappa fondamentale. Conoscevo Dick solo marginalmente. Non sono stato mai un grande lettore di fantascienza - sebbene io sia invece un grande appassionato del genere cinematografico - ma quello che è successo con Dick è stato scoprire un autore con il quale ho trovato un’affinità di immaginario naturale. Non ho mai pensato, nemmeno per un momento, di utilizzare uno stile da fantascienza classica (non credo che risulterei credibile) ma ho raccontato Dick partendo dagli oggetti. O meglio, ho isolato gli oggetti e li ho utilizzati per ricreare una nuova narrazione che, pur tentando di non essere la didascalica sottolineatura del testo, fosse in grado di evocare non tanto una storia quanto l’allegoria di un intero immaginario. Nelle mie immagini non ci sono quasi mai ambientazioni, né soluzioni prospettiche. La mia intenzione è di togliere qualsiasi riferimento di storicizzazione o temporalità, in modo che l’esperienza della visione sia il più possibile evocativa. Questa chiave di rappresentazione è quella che poi utilizzo anche per gli altri autori e che il lavoro con Fanucci mi permette di rinnovare sempre.
Veniamo adesso a come nasce praticamente una sua illustrazione, cioè al lato tecnico e creativo del suo lavoro. Come si approccia ad un lavoro per il quale deve realizzare un illustrazione? Parte da scelte ben precise o procede in base all’ispirazione del momento? Esistono differenze tra i lavori nati su commissione e gli altri? E che tecniche utilizza?
La fase di progettazione (che comprende la lettura del tema da illustrare) è quella che considero fondamentale. In questa fase l’immagine si costruisce in termini dialettici e, già dai primi bozzetti che realizzo, si compone nello spazio con una volontà narrativa. Faccio degli schizzi molto veloci all’inizio, perché quello che cerco è la dinamica e la sintesi nel segno. Quello che funziona in uno stadio germinale funzionerà ancora meglio quando l’immagine raggiungerà la sua forma definitiva. La tecnica che utilizzo può essere interamente digitale o passare attraverso vari stadi e tecniche. Molto dipende dal tempo a mia disposizione. Tempo che non intendo sottrarre alla fase di elaborazione creativa del tema.
Rimaniamo un attimo sui lavori realizzati su commissione: nel caso di cover o immagini interne il testo scritto rappresenta uno stimolo o un limite? E secondo lei cosa conta di più per un artista: la fantasia o la capacità tecnica?
Il committente è determinante (e imprescindibile) nell’illustrazione. Non mi sono mai sentito costretto
dal mio committente e sono sicuro che sia un bene anche per loro! Il sentirsi liberi - pur nell’ovvia considerazione del lavoro che si sta svolgendo - è sempre la base migliore dalla quale muovere per realizzare delle opere di vero valore. Spesso si confonde l’artisticità di un autore con la parodia che esso opera nei confronti dell’arte. Non adotto mai una separazione delle carriere nel mio fare, quantomeno non nell’approccio all’opera. Quando realizzo le mie tele o lavori su carta, che non devono necessariamente avere una destinazione editoriale, non cambio il mio approccio… mi sembrerebbe di togliere qualità a una parte del mio lavoro. La fantasia e la tecnica hanno in buona sostanza lo stesso valore, meglio quando la tecnica è la fantasia.
In Italia, come sappiamo, le arti visive vengono da tempo considerate come neglette e secondarie. Secondo lei da cosa deriva questo atteggiamento e cosa si potrebbe fare per invertire la tendenza?
Il problema delle arti visive (e non solo) è in gran parte determinato da chi occupa posti decisionali. Siamo troppo in balia di scelte determinate dalle mode e, sempre più spesso, dalla ricerca di una convenzionalità che è l’esatto opposto di quello che dovrebbe essere il vero nutrimento artistico. Il rischio è quello di ritrovarsi, anche in ambiti creativi, imprigionati in dinamiche che inibiscono una vera crescita del senso artistico. Forse sarebbe il caso di non concepire la meritocrazia come il diventare qualcuno per merito di qualcun altro.
Bene, è tutto, nel ringraziarla per la sua disponibilità le chiedo quali sono i suoi progetti futuri: a cosa sta lavorando in questo momento e cosa ci dobbiamo aspettare a breve da Antonello Silverini?
Al momento sto portando avanti il progetto della Piccola Biblioteca di Fantascienza
per Fanucci. Sono testi classici nei quali è incredibile riscoprire quanto avveniristica e affascinante potesse essere la letteratura fantastica già dall’ottocento.
Grazie a voi e un affettuoso saluto.
Intervista a cura di Nick Parisi, creatore e amministratore della webzine NOCTURNIA
.
Barrington Bayley, il vero selvaggio della SF
a cura di Silvia Treves e Massimo Citi
Biografia
Barrington Bayley nacque a Birmingham nel 1937 e morì a Shrewsbury dopo 71 anni.
Dopo il servizio militare nella R.A.F. andò a Londra, dove divenne noto come autore di space opera erudito e bizzarro. Si sposò nel 1969, ebbe due figli e per diverso tempo si stabilì nelle Midlands. A quanto risulta, non lasciò il Regno Unito a partire dal 1970. Cominciò a pubblicare storie sf nel 1954, nel 1957 incontrò Michael Moorcock e con lui collaborò almeno per dieci anni, contribuendo regolarmente con racconti brevi prima alla rivista New Worlds e poi alle antologie di New Worlds. I due autori usarono variamente gli pseudonimi James Colvin e Michael Barrington per i loro progetti congiunti, mentre il solo Bayley usò gli pseudonimi John Diamond, P.F. Woods, and Alan Aumbry.
Bayley vinse il premio B.A.S.F.A. Award per il racconto A Crab Must Try
. Vinse il premio giapponese per la SF Seiun Award
per il miglior romanzo tradotto con Rotta di collisione, The Zen Gun, e Le vesti di Caean. The Zen Gun fu anche candidato al premio Philip K. Dick. Nella sua vita pubblicò 89 racconti e il suo ultimo testo, Formic Gender Disorder
, fu pubblicato nel 2008. Bayley morì per le complicazioni di un cancro intestinale.
Illustrazione di Alex Reale
Barrington Bayley in Italia: I romanzi
Barrington Bayley ha goduto di una certa fama in Italia negli anni ‘70 e ‘80 dello scorso secolo e i suoi racconti e romanzi hanno accompagnato gli anni d’oro della sf italiana, pubblicati in Cosmo Argento, su Urania e nelle antologie curate da Donald Wollheim ed edite da Armenia in Robot, lo speciale 3, suppl. al numero 15 della rivista [1977] e il numero 30 [1978].
Una certa fama, si diceva, ma comunque non si è trattato di un autore di grande popolarità, anche per la complessità delle vicende narrate e per il gusto personale di costruire trame complesse basate su un elemento di assoluta originalità, capace di lasciare il lettore sorpreso ma in qualche caso preso in contropiede dallo svolgimento dell’intreccio.
L’inizio, ovvero il suo esordio in Italia fu segnato da un Urania, il numero 605 pubblicato nel 1972 nella traduzione di Beata della Frattina, successivamente ristampato in Urania 971 nel 1984 con il titolo Dai bassifondi di Klittman City. Il romanzo originale, Empire of Two Worlds, uscì in Gran Bretagna nel 1972. Protagonista Klein, un giovane privo di risorse nella città di Klittman, una società fortemente gerarchizzata, e deuteragonista il gangster Becmath (palese anagramma dello shakesperiano Macbeth). L’inizio è evidentemente trasposto da un giallo cinematografico, con Becmath che arruola il giovane Klein facendone il suo numero due nel tentativo di conquistare un posto di assoluto rilievo nella malavita della città. Ma il tentativo fallisce, e Becmath e la sua banda sono scacciati da Klittman e devono riuscire a sopravvivere su Killibol, un pianeta arido, dove la sopravvivenza è impossibile al di fuori delle città-stato. Killibol è stato un tempo in contatto diretto con la Terra tramite un tunnel dimensionale a suo tempo distrutto, ma uno dei collaboratori di Becmath, l’Alchimista Hassman, sostiene che il tunnel è tornato in funzione e che potranno utilizzarlo per rientrare sul pianeta natale della specie.
Una volta ritornati sulla Terra, un pianeta del lontano futuro abitato dai Rheattiani (una specie parzialmente diversa da quella umana), Becmath inizia un complicato gioco per sopravvivere alla guerra in atto tra i Rheattiani e i Rotrox, una specie bellicosa ed espansionista proveniente dalla Luna. L’etica personale di Klein è ben presto messa a dura prova dalla condotta priva di scrupoli di Becmath, per il quale il giovane prova comunque un’ammirazione alternata a una disperata riprovazione, fino al punto di rottura definitivo.
Buono nella scansione dei tempi della vicenda, Empire of Two Worlds, è però un romanzo nettamente minore nella produzione di Barrington Bayley. Lo sfondo della vicenda, pur nella finzione fantascientifica, è decisamente affrettato e confuso, se non poco credibile, e il rapporto tra Klein e Becmath (presentato come un genio del male e divenuto con il trascorrere della pagine un mediocre furbastro) mostra in diversi punti la sostanziale debolezza dello spunto, nonostante i riferimenti al dramma di William Shakespeare. Particolare curioso, che troverà conferma in diversi testi successivi, è la sostanziale assenza di personaggi femminili, perennemente trattati come personaggi di contorno o come vittime preannunciate. Con tutto ciò il romanzo ebbe un discreto successo anche in Italia, creando nei lettore l’aspettativa di un testo meglio organizzato da un autore ritenuto comunque interessante.
Rotta di collisione (Collision Course/Collision with Chronos) fu pubblicato nel 1973 (in Italia comparve nella collana Cosmo Argento della Nord, n° 69 del 1978, con la traduzione di Gianpaolo Cossato e Sandro Sandrelli) ed è il primo romanzo in cui Barrington Bayley affronta il concetto del viaggio nel tempo.
La vicenda si svolge in un futuro lontano, nel quale i terrestri (dopo aver attraversato una crisi globale di cui sarebbero responsabili misteriosi invasori alieni e aver combattuto i devianti, ossia le razze inferiori) sono ora in pace. La Terra è saldamente in mano ai veri uomini
, i cittadini, e guidata dai Titani, umani geneticamente selezionati che si autodefiniscono i Guardiani della Terra
e somigliano in maniera inquietante a un puro ceppo ariano. I dev
sopravvissuti sono considerati poco intelligenti, apatici e privi di iniziativa, e vivono confinati in riserve dove conducono vita grama. Migliaia di anni prima, tuttavia, numerosi terrestri hanno lasciato il pianeta per popolare colonie artificiali nello spazio, come ad esempio Città-Alambicco, fondata da coloni cinesi.
Ossessionati dal possibile ritorno degli alieni, i veri