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Radici della condizione umana
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E-book132 pagine1 ora

Radici della condizione umana

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Nel libro Radici della Condizione Umana di Frithjof Schuon il Vedanta - la più influente delle scuole filosofiche induiste - si confronta con l'uomo occidentale e i suoi paradigmi: dai principi alle prospettive fondamentali fino alle dimensioni morali e spirituali.
“Le fonti delle nostre certezze trascendenti sono i dati innati, connaturati all’intelligenza pura, ma “scordati” dopo la “perdita del Paradiso”. Perciò la conoscenza principale, secondo Platone, è unicamente una “reminiscenza”, ed essa è un dono, il più delle volte attualizzata da discipline intellettuali e spirituali, Deo iuvante”.
"Conoscere, volere, amare: è qui la natura dell’uomo, e di conseguenza la sua vocazione e il suo dovere. Conoscere completamente, volere liberamente, amare nobilmente; o in altre parole: conoscere l’Assoluto, e le sue relazioni col relativo; volere ciò che s’impone a noi in funzione di tale conoscenza; e amare il vero e il bene, e quanto li manifesta quaggiù; amare pertanto il bello che conduce a essi”.
(dalla prefazione dell’Autore)

“Leggendo Schuon ho l’impressione di procedere in parallelo con lui, e talvolta desidero vedere qual è il suo pensiero per quel che concerne la mia tradizione ed esperienza… Credo che abbia proprio la visione corretta… Lo apprezzo sempre più… Sono grato di essere in contatto con uomini come lui”.
Thomas Merton (lettera a Marco Pallis, in The Hidden Ground of Love)

“Quest’uomo è un prodigio, intellettualmente riguardo alla religione, sia in profondità sia in ampiezza, è l’esempio del nostro tempo. Non conosco nessun pensatore vivente che inizi a rivaleggiare con lui”.
Huston Smith

INDICE
Prefazione
Capitolo 1 - Principi e Radici
L'intelligenza
Il Velo d'Iside
Problemi dello spazio-tempo
Mahâshakti
L'enigma della soggettività diversificata
Tracce dell'essere, prove di Dio
Dimensioni salvatrici
Capitolo 2 - Prospettive Fondamentali
L'uomo di fronte al Sommo Bene
Schema del Messaggio cristico
Schema del Messaggio islamico
Pilastri della Sapienza
Il duplice Discernimento
Capitolo 3 - Dimensioni Morali e Spirituali
Ombre cosmiche e serenità
Virtù e Via
L'amore
LinguaItaliano
Data di uscita4 nov 2019
ISBN9788827229842
Radici della condizione umana
Autore

Frithjof Schuon

Nasce a Basilea nel 1907 da padre originario del Württemberg e da madre alsaziana. Dal 1930 al 1932 lavora come disegnatore d’arte a Parigi, senza tuttavia trascurare gli studi di orientalistica, compreso quello dell’arabo. Poco dopo si reca in Africa settentrionale per studiarvi il Sufismo, in questo periodo conosce il maestro sufi Cheikh El-Allauoi. Il seguito della sua vita è caratterizzato da una serie di viaggi in vari paesi orientali; rende visita due volte a René Guénon al Cairo – con il quale collabora per due decenni alla rivista Etudes Traditionelles – il suo soggiorno in India viene invece interrotto dalla Seconda Guerra Mondiale. Più tardi nel 1959 e nel 1963 Schuon soggiorna a lungo presso gli Indiani dell’America del Nord, stringe amicizia con personaggi eminenti e viene adottato dalla tribù dei Sioux. L’interesse per le civiltà orientali e in particolare per la loro arte ha permeato tutta la vita di Frithjof Schuon. Dopo aver vissuto per quarant’anni in Svizzera sulle rive del lago Lemano, si ritira negli Stati Uniti, dove muore nel 1998. Delle sue opere le Edizioni Mediterranee hanno pubblicato in questa collana: Unità trascendente delle religioni, Sufismo: velo e quintessenza, Sentieri di gnosi, L’occhio del cuore, Sulle tracce della religione perenne, Immagini dello spirito, Cristianesimo/Islam, Dal divino all’umano, Forma e sostanza delle religioni, L’esoterismo come principio e come via, Le stazioni della saggezza, Il sole piumato, Sguardi su mondi antichi.

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    Anteprima del libro

    Radici della condizione umana - Frithjof Schuon

    Prefazione

    Radici della condizione umana: questo titolo suggerisce una prospettiva preoccupata d’essenzialità, quindi cosciente dei principi, degli archetipi, delle motivazioni intrinseche; consapevole in virtù dell’intellezione non della raziocinazione. Vale senza dubbio la pena di ricordare che in metafisica non c’è empirismo alcuno: la conoscenza principiale non può derivare da nessuna esperienza, benché le esperienze – scientifiche o altre – possano essere le cause occasionali delle intuizioni dell’intelletto. Le fonti delle nostre certezze trascendenti sono i dati innati, connaturati all’intelligenza pura, ma de facto scordati dopo la perdita del Paradiso; perciò la conoscenza principiale, secondo Platone, è unicamente una reminiscenza, ed essa è un dono, il più delle volte attualizzata da discipline intellettuali e spirituali, Deo iuvante.

    Il razionalismo, inteso nel senso più ampio, è appunto la negazione dell’anamnesi platonica; esso consiste nel cercare gli elementi di certezza nei fenomeni e non nel nostro essere. I Greci, tranne i sofisti, non erano a rigor di termini dei razionalisti; è vero che Socrate ha razionalizzato l’intelletto insistendo sulla dialettica e pertanto sulla logica, però si potrebbe anche dire che ha intellettualizzato la ragione; questa è l’ambiguità della filosofia greca, il primo aspetto è rappresentato da Aristotele, e il secondo da Platone, parlando in maniera approssimativa. Intellettualizzare la ragione: è una procedura inevitabile e del tutto spontanea poiché vuole esprimere intellezioni cui la sola ragione non può giungere; la differenza tra i Greci e gli Indù è qui una questione di grado, ossia il pensiero induista è più concreto e più simbolistico di quello greco. A dire il vero non è sempre possibile distinguere di primo acchito un ragionatore, il quale ha per caso delle intuizioni, da un intuitivo che per potersi esprimere deve ragionare, ma ciò non suscita in pratica una difficoltà; purché la verità sia salva.

    Il razionalismo è il pensiero del dunque cartesiano, che intende indicare una prova; questo non ha affinità alcuna col dunque impostoci dal linguaggio quando vogliamo esprimere un rapporto logico-ontologico. Anziché cogito ergo sum, si dovrebbe dire: sum quia est esse, sono perché l’Essere è; perché e non dunque. La nostra certezza d’esistere sarebbe impossibile senza l’Essere assoluto, perciò necessario, che ispira la nostra esistenza e la nostra certezza; Essere e Coscienza, sono queste le due radici della nostra realtà. Il Vedânta aggiunge la Beatitudine, che è il contenuto ultimo e della Coscienza e dell’Essere.

    Conoscere, volere, amare: è qui la natura dell’uomo e di conseguenza la sua vocazione e il suo dovere. Conoscere completamente, volere liberamente, amare nobilmente; o in altre parole: conoscere l’Assoluto, e ipso facto le sue relazioni col relativo; volere quel che s’impone a noi in funzione di tale conoscenza; e amare il vero e il bene, e quanto li manifesta quaggiù; amare pertanto il bello che conduce a essi. La conoscenza è totale o integrale giacché ha per oggetto ciò che è il più essenziale e quindi il più reale; la volontà è libera poiché concerne quello che, essendo il più reale, ci libera; e l’amore è nobile sia per la profondità del soggetto sia per l’elevatezza dell’oggetto; la nobiltà dipende dal nostro senso del sacro. Amore e ’l cor gentil sono una cosa: il mistero dell’amore e quello della conoscenza coincidono.

    I

    Principi e radici

    1. L’ intelligenza

    L’intelligenza è la percezione di una realtà, e a fortiori la percezione del Reale in sé; essa è ipso facto il discernimento tra il Reale e l’irreale – o il meno reale – e questo anzitutto in senso principiale, assoluto o verticale, e poi in quello esistenziale, relativo o orizzontale. Precisiamo che la dimensione orizzontale, o cosmica, è la sfera della ragione e della tentazione razionalistica, mentre la dimensione verticale, o metacosmica, è quella dell’intelletto, dell’intellezione e della contemplazione unitiva; e ricordiamo che tra tutte le creature terrestri solo l’uomo possiede la dimensione verticale, e ciò indica la potenzialità verticale dello spirito, e proprio per questo la ragion d’essere dell’uomo¹.

    Occorre discernere, nello spirito umano, tra funzioni e attitudini: nella prima categoria, che è più fondamentale, distingueremo anzitutto tra la discriminazione e la contemplazione², e dopo tra l’analisi e la sintesi³; nella seconda, tra un’intelligenza teorica e una pratica⁴, quindi tra una spontanea e una reattiva, o ancora tra un’intelligenza costruttiva e una critica⁵. In un’ottica diversa bisogna fare distinzione tra una facoltà cognitiva soltanto potenziale, una virtuale, e una effettiva: la prima è una prerogativa di ciascun uomo, dunque anche del più limitato; la seconda concerne gli uomini non informati, ma capaci di comprendere; l’ultima infine coincide con la conoscenza.

    * * *

    È fin troppo evidente che lo sforzo mentale non approda in modo automatico alla percezione del reale; lo spirito più abile può incanalare l’errore più grossolano. Il fenomeno paradossale di un’intelligenza, anche brillante, che propaga l’errore si spiega in primis con la possibilità di un’operazione solamente orizzontale, pertanto in assenza di qualsiasi coscienza delle relazioni verticali; però la definizione intelligenza rimane, poiché c’è ognora discernimento tra un essenziale e un secondario, o tra una causa e un effetto. Un fattore decisivo nel fenomeno dell’errore intelligente è chiaramente l’intervento di un elemento extraintellettuale, come la sentimentalità o la passione; l’esclusivismo dell’orizzontalità crea un vuoto che l’irrazionale riempie per forza. Va notato che l’orizzontalità non è sempre la negazione del soprannaturale, può essere il caso di un credente la cui intenzione intellettuale rimane allo stato latente, e ciò costituisce appunto l’oscuro merito della fede; si può parlare allora, senza assurdità, di verticalità devozionale e morale.

    L’evoluzionismo trasformistico offre un esempio patente d’orizzontalità sul piano delle scienze naturali, giacché sostituisce l’emanazione cosmogonica a gradi discendenti⁶ con una biologica a gradi ascendenti; parimenti i filosofi moderni – mutatis mutandis – scambiano la causalità metafisica con le causalità fisiche ed empiriche; questo esige senza dubbio dell’intelligenza, ma è un’intelligenza potremmo dire decapitata.

    Dobbiamo ricordare altresì il fatto paradossale che un intendimento all’altezza delle verità verticali non è sempre una garanzia per l’integrità dell’intelligenza orizzontale, o per le qualità morali corrispondenti; siamo allora in presenza vuoi di uno sviluppo unilaterale dei doni speculativi a detrimento di quelli operativi, vuoi di un’anomalia comportante una sorta di scissione della personalità: queste però sono contingenze che non hanno nulla d’assoluto davanti ai miracoli dell’intelletto e della verità. Tuttavia un’intelligenza metafisica è integrale ed efficiente solo a condizione che le dimensioni speculative e operative stiano in equilibrio.

    * * *

    Conviene forse dar conto del fenomeno ambiguo dell’ingenuità: essa è innanzi tutto una mancanza d’esperienza combinata con la credulità, e lo dimostra l’esempio dei fanciulli, perfino dei più intelligenti. La credulità può avere un fondo positivo: può essere l’atteggiamento dell’uomo veridico, il quale crede in maniera assai naturale che il mondo intero gli sia simile; ci sono popolazioni che sono credule poiché ignorano la menzogna. L’ingenuità, è ovvio, può essere molto relativa: un uomo che non conosce la psicologia dei folli è un ingenuo per gli psichiatri, anche se è tutt’altro che uno stolto. Bisogna essere prudenti come i serpenti – purché si sia semplici come le colombe⁷ – giacché l’ambiente anzitutto tende insidie e occorre sapersi difendere, ovvero la nostra immaginazione deve avere consapevolezza dei capricci della Mâyâ terrestre.

    Comunque sia, se ci atteniamo al significato corrente della parola, essere ingenui significa fermarsi alla visuale semplificatrice e materializzante dell’infanzia, senza perciò perdere l’istinto per la sola cosa necessaria, che non richiede nessuna esperienza complessa né dono alcuno di speculazione astratta.

    Vorremmo rispondere alla domanda seguente: un uomo liberato da un errore pernicioso è diventato per questo più intelligente? Nell’angolazione dell’intelligenza potenziale, no; però in quella dell’intelligenza effettiva, sì, certamente. Prova ne sia che l’accettazione di una verità-chiave provoca la capacità di comprendere – quasi per una reazione a catena – altre verità del medesimo ordine, oltre a una moltitudine di applicazioni subordinate; ogni comprensione illumina, qualsiasi incomprensione ottenebra.

    Agli antipodi dell’ingenuità c’è l’intelligenza luciferina, esplo­ratrice, inventiva, che s’addentra in modo appassionato e cieco nello sconosciuto e nell’indefinito; è la storia di Prometeo e d’Icaro, ed è la curiosità-suicida.

    * * *

    L’intelligenza genera non solo il discernimento, ma anche – ipso facto – la coscienza della nostra superiorità rispetto a chi non sa distinguere; al contrario di quel che pensano molti moralisti, questa consapevolezza non è un errore in sé, poiché non ci sappiamo impedire d’essere coscienti di qualcosa che esiste e ci è reso percepibile dalla nostra intelligenza. Non per nulla l’oggettività è un privilegio umano.

    Quella stessa intelligenza, però, ci rende consapevoli a un tempo di una superiorità e della sua relatività, e inoltre di tutte le nostre limitazioni. Ossia una funzione essenziale dell’intelligenza è la conoscenza di se stesso: quindi la conoscenza – positiva o negativa secondo gli aspetti considerati – della nostra natura propria.

    Conoscere Dio, il Reale in sé, l’Intelligibile supremo, poi le cose in funzione di quella conoscenza, e di conseguenza pure noi stessi: sono queste le dimensioni dell’intelligenza intrinseca e integrale; la sola degna di tale nome, a rigor di termini, giacché soltanto essa è davvero umana.

    Abbiamo detto che l’intelligenza produce, appunto mediante la sua essenza, la conoscenza di sé, con le virtù d’umiltà e di carità; ma può anche generare, ai margini della sua essenza o della sua natura e a seguito di una perversione luciferina, il vizio per antonomasia dell’orgoglio. Di qui l’ambiguità della nozione d’intelligenza

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