Fitte Nebbie: La prima indagine di Sambuco & Dell'Oro
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Anteprima del libro
Fitte Nebbie - Alessandro Reali
Uno
Felice Gatti, detto Felicino, era un tipo alto, massiccio, con un salvagente di grasso intorno alla vita; portava gli occhiali, rettangolari, di metallo, calati sul naso, e sembrava sempre sul punto di scoprire qualcosa di importante, come se, da un momento all’altro, la sua vita potesse prendere una piega diversa: ma era così da trent’anni…
Grande e grosso com’era chissà perché lo chiamavano Felicino; e dire che anche da bambino, tra i suoi coetanei, era il più alto e il più rotondo, con quella forma da damigiana, curiosa, che comprometteva in partenza le velleità sportive tipiche dell’età che, comunque, non lo condizionavano.
Poi, ai tempi del liceo a Pavia, verso la fine degli anni sessanta, era diventato più o meno famoso con il soprannome di Genio, non tanto perché ottenesse straordinari risultati scolastici, ma per via dei suoi modi sbadati, sopra le righe, e delle sentenze che emetteva per conto suo, indifferente al fatto che ci fosse o no qualcuno ad ascoltarlo… in classe o al bar, coi pantaloni che finivano sotto le scarpe, la giacca stropicciata e la cravatta slacciata (adesso, passati trent’anni, il suo aspetto fisico e il suo stile nel vestire erano notevolmente peggiorati) e tre o quattro giornali sotto il braccio, spiegazzati, letti e riletti, come cibo indispensabile alla sua mente onnivora, catalogante, appassionata, indifferente alle ideologie (allora nettare indispensabile per ogni coscienza) ma tesa a scoprire le verità nascoste, a leggere tra le righe e inseguire trame che l’assorbivano completamente, allontanandolo dagli altri compagni, che ogni mattina lo vedevano arrivare a bordo della Jaguar verde scuro, splendidamente inglese, di suo padre, pur ricevendo, costante, la loro attenzione: cocktail d’ironia e ammirazione.
Comunque, in quel mattino di ottobre del novantadue, Felice Gatti, detto Felicino, se ne stava immobile sotto l’arco d’ingresso della Lupa, la cascina di cui era ancora proprietario: un gioiello diroccato di Lomellina, circondato da pioppi e campi di meliga e riso che un tempo appartenevano a suo padre.
Faceva freddo e il cielo era azzurro, senza una nuvola. Una coppia di gazze muoveva la testolina di velluto, appollaiata sulla quercia, a pochi passi da lui; quattro o cinque cornacchie, dalle ali color cenere, si dividevano tranquillamente il corpo straziato di un porcospino, al centro del viottolo polveroso che portava, ferendo la strada stretta, tortuosa ma asfaltata, verso l’antico borgo di Valeggio.
Felice prese dal taschino della giacca una sigaretta, l’accese e fece un paio di lunghi tiri, guardandosi intorno; aveva il fiato corto, la barba lunga, la giacca di velluto beige chiazzata di vino rosso e i postumi della sbornia della sera prima. Aveva la testa piena di vespe ronzanti e il cuore stretto in una morsa di dubbi... non riguardo alle sue risorse economiche, che stavano esaurendosi, o alla sua donna, che gli aveva dato l’ennesimo ultimatum, ma per via di quelli che si ostinava a chiamare i misteri d’Italia, ai quali lui, Felicino Gatti, aveva dedicato tutta la vita, raccogliendo e catalogando articoli fino a formare un archivio mastodontico (l’unico segmento ordinato della sua esistenza) e che ancora lo avvelenavano come una malattia indispensabile, alla quale aveva sacrificato l’intero patrimonio di suo padre.
Intorno a lui i campi di riso e le melighe. Il giallo e il bruno della campagna, l’odore della terra, l’umidità azzurrina che saliva dai fossi e, lontano, gli spari dei cacciatori.
I ricordi: certe nebbiose domeniche pomeriggio di molti anni prima, dorate, nelle ore più calde, da un sole pallido, che presto sarebbe rimasto sepolto dalla coltre grigia della sera. Suo padre e i suoi amici ritornavano con i carnieri colmi di beccacce, fagiani e lepri; intorno, i setter e i bracchi con la lingua penzoloni, l’odore delle piume, del pelo e del sangue, l’aroma dei sigari Toscani e delle sigarette, gli sguardi soddisfatti di chi riesce a fermare il tempo e guardare la propria vita realizzata, senza smarrimento, senza paura, con quella concretezza priva di scrupoli che Felicino non aveva mai compreso.
Poi, le ragazze che lavoravano alla Lupa, sistemavano la selvaggina nell’ampia cucina con le volte intonacate, il camino di pietra e le stufe di ghisa, e Virginia, la madre di Felicino, dirigeva le operazioni: spennare, sventrare, arrostire, marinare... così che, col passare delle ore, tutta la grande casa s’impregnava degli aromi caldi, dei fumi che stuzzicavano gli stomaci capienti degli ospiti sorridenti, già alle prese con la briosa Bonarda dell’Oltre Po Pavese, che il padre di Felicino imbottigliava personalmente, al tempo di Pasqua, con quelle sue mani da fabbro e il faccione rosso e gli occhi vitrei, ereditati da qualche antenato Longobardo...
Strizzando i suoi, di occhi, Felice Gatti cercava di scacciare quel passato, come fosse un corvo del malaugurio. Suo padre e sua madre erano morti. La Lupa abbandonata, con le case dei salariati in sfacelo, i muri rossi diroccati trasformati in calde nicchie per rettili e topi, le erbacce secche come sbarre sottili contro occhi curiosi che forse non esistevano, le fioriture verdi di umidità a intristire ogni angolo, le terre coltivate a riso e meliga cedute a nuovi proprietari...
Tutto questo a causa di Felicino: non aveva mai dato importanza al suo patrimonio, impegnandosi soltanto a sperperare soldi per fondare e rifondare quella benedetta maledetta casa editrice, che doveva occuparsi degli scabrosi dilemmi politico economici del Bel Paese, cercando di venirne a capo, tra le intricate ragnatele mafiose e i sensibili calli di rampanti politici che avevano avidamente poppato alle mammelle della Propaganda 2, la Loggia incastonata nella Massoneria, che Felicino definiva, senza sorridere, la Loggia del materassaio, riferendosi ovviamente al suo fondatore, il Venerabile Gelli, che possedeva quote della Permalex, azienda vezzeggiata con commesse miliardarie dai vertici dello Stato.
D’altra parte, la cronaca giudiziaria, la politica intesa come mondo da esplorare e non a cui appartenere, era sempre stata la sua passione. E la sua disgrazia...
Nel corso degli anni, la sua spregiudicata ricerca di elementi, di prove, di contatti tra mondo politico e mondo criminale, oltre che a obbligarlo a investire somme ingenti in maniera avventata per pubblicazioni spesso strampalate (altre volte centrate e penetranti, ma prive di quel sostegno politico economico
indispensabile ad ogni iniziativa indirizzata contro poteri che del politico economico
hanno fatto una ragione di vita, di successo e di impunità) l’avevano reso un corpo estraneo alla comunità da cui proveniva. Gli amici di un tempo, cioè i figli degli amici di suo padre, che brillantemente avevano attraversato gli anni Ottanta, lo avevano escluso, quasi del tutto, dai loro circoli, che raccoglievano il meglio della provincia di Pavia: non era né elegante né prudente avere a che fare con un tipo come lui, un aborto stravagante d’ingenuità maligna o maligna ingenuità, intelligente e sgraziato, pungente e permaloso e tremendo nel vestire; che aveva ereditato dal padre la passione per il vino, non l’intuito per gli affari, o l’abilità diplomatica e il realismo per conservare le amicizie giuste negli ambienti che contano.
Erano le undici e il sole iniziava a intiepidire l’aria. Barabba, il suo cane, un vecchio Springer Spaniel, abbandonò l’angolo dov’era solito addormentarsi e lo raggiunse sotto l’arco.
Felicino lo guardò con affetto: la Marisa non è ancora scesa, amico mio? Con la sbornia di questa notte… chissà… e tu, vieni con me a Garlasco o preferisci restare qua?
Il cane, dal manto arruffato bianco e rosso, non scodinzolò nemmeno. Pigramente tornò ad acciambellarsi accanto alla porta verde, con il battente brunito; Felicino si accese un’altra sigaretta e lo seguì, con la sua andatura claudicante, scoordinata, come se, da un momento all’altro, uno degli arti inferiori, potesse salutarlo e andarsene per i fatti suoi.
Entrò in cucina e si versò un calice di Barbera del Monferrato: questo, caro Barabba, è l’aperitivo dell’aperitivo, disse sedendosi al tavolo ligneo, lungo tre metri, tra libri, giornali, ritagli, fogli di appunti, matite appuntite e matite spezzate, temperini, bicchieri sporchi, un vocabolario, due penne stilo, qualche Bic, pezzi di pane, forbici, posacenere, un barattolo di colla...
DUE
Marisa entrò in bagno e fece pipì. Si asciugò con la carta e aprì l’acqua della doccia. Restò immobile di fronte allo specchio grande, completamente nuda. Era sempre una bella donna. Quarantanove anni ben portati, tutto sommato. Capelli lunghi, tinti di chiaro, occhi freddi e cattivi, color grigio-verde, guance un po’ tirate, seni piccoli, nervosi, fianchi un po’ troppo larghi e sedere che, nonostante i massaggi, denunciava un principio di cellulite.
Entrò in doccia e si lavò con cura, lentamente, senza canticchiare