La matta di Milano: La prima indagine del commissario Caronte
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Info su questo ebook
Alessandro Reali è nato a Pavia il 4 febbraio 1966. Per Fratelli Frilli Editori ha già pubblicato Fitte nebbie. La prima indagine di Sambuco & Dell’Oro (2012 III ed.), La morte scherza sul Ticino. La seconda indagine di Sambuco & Dell’Oro (2013 II ed.), Risaia crudele. Quei giorni dell’inverno del ’45 (2014), Sambuco e il segreto di viale Loreto. La nuova indagine di Sambuco & Dell’Oro (2014), Ritorno a Pavia. Un altro Natale per Sambuco & Dell’Oro (2015), La Bestia di Sannazzaro. Lomellina, inverno di guerra 1917 (2016), Ultima notte in Oltrepò (2016), Il fantasma di San Michele (2017), Pavia sporca estate (2018) e La ragazza che sorrideva sempre (2019). Per Ticinum Editore ha pubblicato la raccolta di racconti Il diavolo del Ticino (2017).
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Anteprima del libro
La matta di Milano - Alessandro Reali
Personaggi
Caronte, commissario di Polizia
Portos, il gatto di Caronte
Beppe, giornalista de La Gazzetta dello Sport
Rommel, giornalista de Il Corriere della Sera
Luisella, la morosa di Caronte
Il Tenaglia, proprietario di un’osteria in Ripa di porta Ticinese Santagata, vicequestore
Perotti, ispettore di Polizia
Bistolfi, ispettore di Polizia
Peluso, ispettore di Polizia
Michelin, agente di Polizia
Pino Magnaghi, un ragazzo della Bovisa
Maristella Magnaghi, una ragazza della Bovisa.
La Pinetta, portinaia in Viale Montenero
Giovanardi, Mondonico, Ferri, inquilini in viale Montenero
La Gianna, amica di Pino e Maristella
Robertino, amico di Pino e Maristella
Il Gallina, amico di Pino e Maristella
Battistoni, fioraio al Monumentale, datore di lavoro di Maristella
Pierino il Grasso, proprietario di una bar in Porta Venezia
Bernasconi, industriale brianzolo
L’Eufemia, una prostituta
Il Cipolla, un ricettatore
La Voce
Io sono la matta.
Un giorno mi hanno rinchiusa all’Inferno, ma il mio Principe è tornato e mi ha salvata e ora sono qui con lui.
Il Principe è tutto.
Senza di lui sono morta.
Qualche volta, quando se ne va, lo odio, ma non glielo dico.
Vorrei stesse sempre con me, nel nostro mondo buio e caldo, anche quando mi spiega che non si può.
Deve andare nella gabbia del mondo, dice.
Quando torna mi tiene stretta e la paura passa, l’orrore esce dalla testa e la vita mi sembra una buona cosa, morbida, come il pelo della gatta.
Io e il Principe facciamo i nostri giochi da molto tempo.
Allora eravamo piccoli e abitavamo nella cascina.
La mamma e il papà dicevano sempre che io ero cattiva.
Qualche volta mi picchiavano e poi mi rinchiudevano al buio nel sottoscala senza darmi da mangiare e io restavo lì, a piangere.
Lui faceva finta di dare ragione a loro.
Lui, il mio Principe, ha sempre fatto finta, per il mio bene.
Mi diceva che doveva fare così se volevamo resistere, perché nella gabbia del mondo le persone sono cattive e ci odiano.
Se scoprissero il nostro segreto...
Ricordo la prima volta.
Quando è venuto il temporale sono andata in cantina con lui.
Ero già stata con altri ragazzi della corte, tutti quelli che mi volevano.
Ma lui era il mio sangue.
Lui non voleva che io mi facessi toccare dagli altri,
Diceva che erano cattivi.
Dovevo farlo solo con lui.
Ci siamo baciati, spogliati e toccati.
Tante volte, sempre di più, fino al giorno in cui è venuto il Diavolo.
Il Diavolo torna sempre.
Lo uccidi o ti nascondi, ma lui ritorna.
Il Diavolo può indossare la faccia che vuole.
Ieri, quando è venuto, io ho fatto quello che dovevo fare.
Sono stata brava.
Quando il mio Principe è tornato io ridevo e lui si è arrabbiato: sembrava pazzo.
Ha detto che avevo fatto una cosa terribile.
Poi ha detto che avrebbe pensato a tutto lui, come sempre.
Il mio Principe.
UNO
Milano, dicembre 1964
La Pinetta, come tutti chiamavano Giuseppina Ranzoni, la portinaia del palazzo al numero 6 di viale Montenero, era solita alzarsi prima dell’alba. Anche in giorni cupi e freddi come quello che, dopo il nevischio notturno, andava velandosi di strati compatti di nebbia.
Sulle strade meneghine si vedeva poco o niente; qualche luce gialla, aureole attorno ai lampioni... ma la vita, come sempre, ricominciava: guardie notturne ben infagottate, il lattaio, gli operai in bicicletta, un manipolo di scappati da casa che aveva fatto tardi in un’osteria di Porta Ticinese dove suonavano musica jazz ...
Tolse il bricco del caffè dal fornello e versò una tazza colma per sé, a cui aggiunse il latte bollente, e una con la solita dose di grappa per il marito che stava alzandosi.
Era stato fortunato, il suo Giovanni, a trovare l’impiego di postino.
Recuperata in un angolo la scopa di saggina, la donna, con addosso il paltò nero, aprì la porta di casa, scese con attenzione i tre scalini e, sospirando al pensiero del clima polare che non l’avrebbe sorpresa, brigò con la serratura del portone di legno. Uscì sul marciapiede e prese a ramazzare la poltiglia che si era formata nelle ore notturne. Era una donna meticolosa, orgogliosa di svolgere al meglio ogni aspetto della sua professione: gli ospiti dello stabile non si erano mai potuti lamentare di niente. Questo almeno sosteneva lei, con l’aria di chi se la canta e se la suona da sola.
"Ma… e quèl lì?" esclamò fissando alla sua destra un fagotto, una specie di grosso cencio nero.
Si avvicinò, curiosa e prudente.
Ossignùr, Ossignùr! Giovanni! Giovanni!
gridò.
Il marito stava aggiustando le bretelle sulle spalle, brontolando sui chili di troppo che lo costringevano ad ansimare, soprattutto quando si trattava di allacciare le scarpe.
Le urla della moglie lo fecero scattare come una molla. Corse fuori in camicia, con il giaccone in mano, e la raggiunse sul marciapiede.
Restò un attimo accanto a lei, a guardare il fagotto abbandonato...
Lontano, una sirena, attraversò la nebbia e diede a entrambi una scossa.
Gesùmaria … Vàrda che roba! L’è un cristiàn!
disse l’uomo chinandosi.
Oh Madonna, Giovanni... E adèss?
.
Il marito della sciùra Pinetta, dopo essersi chinato, titubante sollevò il capo dell’uomo e lo voltò. Era un giovane: così, a occhio, non sembrava avere più di ventitré o ventiquattro anni: uno sbarbato dal viso pallido come la luna, pensò Giovanni guardando la propria mano sporca di sangue.
Lo conosci?
chiese Pinetta.
Ma va’, cosa vuoi che conosca, io
.
L’è mòrt?
.
"Va’, va’ dénter e ciàma la Madama¹. Mi spèti...".
Il commissario Caronte sedeva al tavolino di un bar in Porta Romana, poco lontano da casa sua: un appartamento a due passi da piazza Medaglie D’Oro.
Si recava lì per la colazione quasi ogni mattina, prima di raggiungere l’ufficio.
Spesso v’incontrava Beppe, giornalista de La Gazzetta dello Sport
e amico di vecchia data, che gli spiattellava le ultime sul Milan: ora che con Rocco, Rivera, Dino Sani e Altafini s’era vinta la Coppa dei Campioni, gli era venuta voglia, anche a lui, di tornare a San Siro.
"Amaro, commissario? chiese Francuzzo, el Maruchìn, come lo chiamavano i clienti per via della pelle scura: originario di Messina, basso, tozzo, baffi alla messicana, basette folte e una passione esagerata per le spider e le ragazze bionde. Quando era arrivato a Milano aveva trovato lavoro alla Breda di Sesto San Giovanni; in fretta aveva compreso che un lavoro del genere, uno come lui, l’avrebbe ammazzato: così si era inventato, dopo puntigliosa ricerca, una relazione con la vedova Teresina Dellagiovanna, cinquantenne avvenente, tanto focosa quanto petulante e, soprattutto, proprietaria del bar in Porta Romana dove il giovane Francuzzo, oramai, vestiva i panni del padrone.
Sì. Perché di solito come lo prendo il caffè?
rispose il commissario.
Non era famoso per la simpatia, Caronte, neppure in Questura. Solo a vederlo, massiccio, con le mani da pugile, i capelli sempre un po’ spettinati sotto al berretto di lana scozzese, il naso arcigno e gli occhi grigi, indecifrabili, da contadino sospettoso, incuteva un certo timore.
Alcuni colleghi lo chiamavano Jean Gabin, perché dicevano somigliasse al popolare attore francese.
Era originario della Lomellina, terra di risaie abitata da gente un po’ selvatica e poco propensa alla confidenza; cresciuto lungo le rive sabbiose del Po, prima di approdare a Milano con la famiglia (il padre aveva trovato lavoro come ragioniere in un’azienda che confezionava divise militari), si era ritrovato in Polizia quasi per caso, dopo il Liceo, grazie alle conoscenze paterne in ambito professionale.
La nuova casa, dopo il trasferimento, era a Crescenzago, nel quartiere in fondo a via Padova. Il suo primo amico si chiamava Lino, un vecchio che dipingeva quadri sul naviglio della Martesana, prima che questo tratto sparisse nel sottosuolo. Gli aveva prestato i libri di Emilo Salgari, iniziandolo alla passione – mai spenta – per i romanzi d’avventura.
In un lontano pomeriggio d’estate gli aveva narrato un fatto incredibile, ancora ben presente nella sua memoria, che aveva stupito l’Italia intera: il volo del primo dirigibile italiano, costruito dall’Ingegner Enrico Forlanini, proprio in un hangar di Crescenzago vicino a dove si trovavano loro in quel giorno afoso. Il dirigibile si chiamava Leonardo Da Vinci ed era lungo 40 metri. Sorvolò la città, il 27 novembre 1909.
A distanza di molti anni, il commissario, alzando gli occhi al cielo, ancora ci pensava e, attraverso l’immaginazione lo vedeva come una balena tra i marosi delle nuvole e riflesso negli occhi ridenti di Lino, il Balèngo², come i vicini di casa chiamavano il pittore, un uomo a cui, nonostante gli anni trascorsi, il commissario riservava ancora pensieri affettuosi venati di nostalgia, dovuti a quel gusto per il mistero, il gioco e l’avventura che il vecchio, gran raccontatore di storie e leggende, aveva saputo trasmettergli senza alcuna forzatura.
Adolescente, aveva frequentato di nascosto dai suoi genitori le osterie di Via Padova, dove aveva imparato il gergo e le canzoni della ligèra³.
La determinazione di suo padre, i timori di sua madre e gli obblighi di studente lo avevano allontanato da questo mondo che lo affascinava e che, negli anni a seguire, avrebbe conosciuto nei minimi dettagli a causa del mestiere svolto.
Estrasse dal pacchetto di Esportazione una sigaretta e l’accese, prima di dedicarsi al caffè bollente appena servitogli dal Maruchìn, che lo scrutava con aria strafottente.
Beppe, il nostro commissario Caronte questa mattina sembra più allegro del solito!
disse il barista.
Poco distante, seduti al tavolino, ciarlavano due sbarbati ben vestiti: non si capiva cosa facessero al Caffè a quell’ora, probabilmente aspettavano qualche signorina di provincia sbarcata alla Stazione Centrale per andare a specchiarsi in una vetrina di Montenapo, come i milanesi chiamavano la sciccosa via Montenapoleone, o ai Caffè in Galleria Vittorio Emanuele, come il Motta, il Biffi e il Savini.
Al juke box, Michele, cantante in voga in quei giorni, irrompeva tra le quattro mura del Bar con una perentoria "Se mi vuoi lasciare… dimmi almeno perché…".
Francuzzo, lascialo mangiare in pace i suoi croissant, non vedi che faccia si ritrova, stamattina?
disse il commissario.
Caronte, mi fai le pulci? Come quando eravamo al liceo? Ma lo sai, Francuzzo, che Caronte a scuola era un vero drago? In storia, eh, solo in storia, lì non lo batteva nessuno!
.
Puoi dirlo forte... non facevo i temi belli come i tuoi, ma dai Babilonesi alle Cinque Giornate di Milano, ti surclassavo. Pure a pallone, ti davo dei punti, ero un’ala, tutto mancino...
.
"Ma sentilo! Comunque la mia facia stràca si spiega: stanotte ho fatto tardi con Maspes e Gaiardoni al Vigorelli e sono mezzo rincoglionito. Ho giusto il tempo di passare a casa a dire ciao alla bambina, darmi una lavata, cambiare ‘sta cravatta unta e correre al giornale. Sono sotto con la storia di una ballerina e un calciatore di cui non posso ancora spifferare il nome: una faccenda tipo quella di Angelillo, ricordi?".
Caronte guardò istintivamente la sua, di cravatta, giallina a rombi viola e grigi, indossata sotto al vestito di grisaglia.
Mai visto nessuno calciare come Angelillo
disse, con aria rassegnata, fin con un po’ di pena, ripensando al talento immenso dell’ex attaccante dei cugini nerazzurri che, con Maschio e Sivori formava il trio degli argentini dalla cara sucia
⁴.
"Adesso l’Inter ne ha un altro dal piede divino: il sinistro. Ma al gà mìnga vòia de cùr. Mariolino Corso, se ciàma".
Mi piace, anche lui. Non come il nostro Rivera, però mi piace
.
Vorrei vedere! Il Gianni è unico... Piace molto anche alle ragazze, pare, Mariolino Corso
sibilò il Beppe, portando la sua mole imponente verso il banco per pagare le consumazioni, mentre Celentano, grazie alle monete dei sue sbarbati, sostituiva Michele al juke box con il suo Tangaccio.
Uscendo, nel grigiore che non lasciava speranze, il giornalista accese una sigaretta. Quindi si avviò a passo stanco verso la Cinquecento color rosso mattone parcheggiata di traverso, sbirciando con la coda dell’occhio il tipo smilzo che, trafelato in un trench stile Bogart, sotto un cappello di feltro a tesa larga, si apprestava a entrare nel bar: Romolo Perotti, il vice di Caronte.
Perotti, cosa fai da queste parti? Risolto il caso di via Meravigli?
chiese il commissario.
Un giovane, Gigio Calindri, di famiglia benestante, si era – probabilmente – gettato dal terzo piano dell’appartamento dei genitori: morto sul colpo.
Buongiorno, Caronte. Ordine del gran capo
.
Allora, cosa vuole Santagata? L’altro giorno abbiamo litigato e adesso ci sfiliamo senza farci manco un cenno: ti pare bello?
ghignò Caronte,